Nell’immenso teatro della lingua italiana, ci sono parole che, da comparse umili, si ritrovano all’improvviso sotto i riflettori. Alcune reggono la parte, altre si montano la testa. Valorizzare appartiene alla seconda categoria: un verbo che ha esordito con buone intenzioni e ha finito col voler dire tutto e niente. Questa è la sua storia, raccontata con affetto e un pizzico di ironia.
Correva l’anno, poniamo, 1984. In una sede periferica del Ministero per i Beni Culturali, un funzionario guardava l'immagine di una chiesa sconsacrata con un’idea in mente: “Bisognerebbe valorizzarla.” Il termine suonava bene: propositivo, rispettoso, vagamente poetico. Nessuno obiettò.
Così valorizzare cominciò la sua scalata. In principio toccava solo a rovine, artigianato, paesaggi e tradizioni. “Valorizzare il territorio”, “valorizzare i mestieri antichi”. Poi arrivarono i convegni, le delibere, le ‘slide’. E a quel punto, valorizzare perse un po’ il senso dell’orientamento.
Si cominciò col valorizzare tutto: le risorse umane, i rifiuti, i sottopassi ferroviari. L’aria si riempì di valorizzazioni in atto, in itinere, in prospettiva. Ogni progetto, anche il più sgangherato, “mirava a valorizzare le sinergie”.
Verbi come “migliorare”, “rinnovare”, “recuperare” e simili cominciarono a sentirsi trascurati. Avevano un contenuto, ma non ‘suonavano’ abbastanza importanti. Valorizzare invece abbagliava, come una parola vestita con l’abito della domenica.
L’apoteosi si ebbe quando una nota azienda annunciò di voler “valorizzare le criticità interne”. Nessuno capì se fosse un’ammissione o una minaccia. Ma tant’è.
Poi, come di solito accade, arrivò la saturazione. Un assessore, intervistato durante una sagra di paese, dichiarò serissimo: “Valorizzeremo il soffritto.” Un applauso incerto. Qualcuno rise.
Fu il segnale. In alcuni ambienti si tornò timidamente ad "apprezzare", "potenziare", "dare risalto a". Valorizzare, stanco di portare tutto il peso del ‘dire bene delle cose’, riscoprì il piacere del contesto giusto.
E fu così che, reduce da mille convegni e opuscoli patinati, si guardò allo specchio lessicale e sospirò: “È ora di tornare alle origini.” Si tolse il mantello istituzionale, abbassò il tono e si sedette accanto a riscoprire e illuminare, pronto a dire meno, ma meglio. E se oggi qualcuno tenta di “valorizzare la pioggia”, almeno c’è chi sa ancora distinguere il cielo dalle parole.
***
Procedere, quale ausiliare?
Due parole sul verbo intransitivo “procedere”, che può prendere tanto l’ausiliare ‘essere’ quanto ‘avere’. La scelta dell’ausiliare, però, è legata al significato che si vuol dare al verbo. Si adopererà l’ausiliare ‘essere’ quando il predetto verbo sta per ‘derivare’, ‘proseguire’: tutto ciò è proceduto (derivato) dalla tua imperizia; si userà ‘avere’, invece, nel significato di ‘dar principio’, ‘dare inizio’, ‘agire’ e simili: dopo le discussioni hanno proceduto (dato inizio) alle votazioni.

Nessun commento:
Posta un commento