lunedì 21 ottobre 2024

Sofia e Lucia sono incinta

 


Viveva una volta, in un lontano regno - ai confini dell’universo - chiamato Grammatica, una parola molto speciale: Incinta. Costei risiedeva in un villaggio abitato esclusivamente da parole femminili e aveva un dono veramente speciale: portava con sé il miracolo della vita. Il nome che le era stato imposto derivava dal latino medievale "incincta" (non-cinta, incinta, alludendo, probabilmente, al fatto che le donne in stato di gravidanza non portassero la cintura). 

Un giorno, la giovane Incinta decise di esplorare il vasto mondo della lessicologia all’interno del regno. Mentre viaggiava si accorse che, nonostante il suo dono speciale, molti abitanti di Grammatica sembravano non capire come usarla correttamente, nel parlare e nello scrivere. Spesso, nei villaggi dei libri che attraversava e nei sentieri che percorreva sentiva dire che lei apparteneva alla schiera delle parole invariabili. Ciò la confondeva, e non poco, perché sapeva benissimo di essere come qualsiasi altra parola femminile, capace di trasformarsi, all’occorrenza, nella forma plurale. 

Lungo il suo viaggio incontrò una vecchia e saggia parola, Etimologia, che conosceva le radici di tutte le parole del regno. "Carissima Incinta," le disse Etimologia, "hai il sacrosanto diritto di essere declinata come tutte le altre parole. La confusione nasce, indubbiamente, dall'ignoranza e dalla diffusione di errori attraverso le generazioni." 

Etimologia le spiegò che, col trascorrere del tempo, molte persone avevano cominciato a trattarla come invariabile perché l'avevano vista adoperata così tanto, nella forma errata, da sembrare corretta (come accadde per Colluttorio, la cui grafia corretta è con una sola “t”: collutorio). Così nei villaggi più remoti e nelle abitazioni dove i libri non “erano di casa” le persone avevano cominciato a dire "le donne incinta" invece di "le donne incinte". Questo strafalcione si era cristallizzato e diffuso, creando un'illusione di correttezza. 

Per rimediare a questo “sfacelo linguistico”, la saggia Etimologia suggerì a Incinta di diffondere la grafia corretta. Insieme, organizzarono un grande raduno nella piazza principale dove tutte le parole del regno furono invitate. Con la voce gentile ma ferma, su un palco allestito per l’occasione, Incinta spiegò ai presenti, anzi alle presenti, la sua vera natura:

"Amiche mie carissime, io sono una parola come tutte voi, e come tutte voi posso essere declinata. Quando mi trovate in compagnia di altre donne, che hanno il mio stesso dono, chiamatemi Incinte." 

Le astanti applaudirono e capirono. Da quel giorno in tutto il piccolo regno si cominciò a usare Incinta correttamente: Giovanna è incinta; Sofia e Lucia sono incinte. La confusione, finalmente, venne dissipata, e nel regno di Grammatica tutte le donne incinte vissero felici e contente. 

Alla fine azzardiamo un proverbio che potrebbe interessare i paremiologi e "prendere piede": La donna incinta è come la luna, porta una nuova luce nel mondo.

 

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La lingua “biforcuta” della stampa

Elezioni

Moldova, passa per pochi voti il referendum per l’Europa. 

La presidente filo-occidentale Sandu va al ballottaggio: “Brogli pilotati da Mosca”

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Con il tempo – siamo fiduciosi – gli operatori dell’informazione impareranno ad adoperare i prefissi in modo corretto, cioè “attaccati” alla parola che segue: filooccidentale, meglio filoccidentale, con la crasi. “Filo-” e “crasi”.



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sabato 19 ottobre 2024

Luigi, col tempo, si è scafato

 


Ecco un termine regionale che, spurgato della sua “regionalità”, è entrato a pieno titolo nel lessico nazionale: scafato. Il vocabolo viene dal verbo "scafare" che in vari dialetti, soprattutto in quelli del Mezzogiorno, significa "riparare", "aggiustare" o "proteggere". Alcuni collegano il verbo solo al romanesco "scafa", guscio: liberare dal guscio (ipotesi più probabile). In origine, infatti, il verbo in oggetto si riferiva all'atto di liberare qualcosa dai difetti (dal "guscio"), rendendolo integro e funzionante. Col trascorrere del tempo il lessema si è evoluto acquisendo l’accezione di "liberare dall'inesperienza" o, anche, "rendere esperto". Una volta entrato nella lingua nazionale viene adoperato per designare una persona astuta, smaliziata, scaltra, una persona che ha acquisito una certa esperienza di vita e sa, quindi, come districarsi nelle varie situazioni. Una persona “scafata” ha imparato, insomma, dai propri errori e dalle passate esperienze, sviluppando una sorta di “saggezza pratica” che la rende capace di affrontare e risolvere qualunque problema. Vediamo qualche esempio: Il nuovo direttore è davvero scafato, sa come gestire le trattative più difficili con i sottoposti; dopo tanti anni nel settore del commercio Luigi è diventato un venditore scafato, conosce tutti i trucchi del mestiere; non provare a ingannare la nuova arrivata, è troppo scafata per cadere nella tua trappola

A questo punto azzardiamo due proverbi, che potrebbero essere presi in considerazione dai linguisti, in particolare dagli studiosi che si occupano di paremiologia: 

chi è scafato ha sempre la bussola in mano, vale a dire sa sempre come orientarsi e non si perde mai d'animo, anche nelle situazioni difficili, perché sa come affrontarle; lo scafato non cade due volte nella medesima buca.

 

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La lingua “biforcuta” della stampa

In un editoriale di un importante settimanale, a tiratura nazionale, abbiamo letto: La recente sua inclinazione verso la politica, con un annuncio di sostegno per Donald Trump, ha sollevato interrogativi. 

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Ci piacerebbe sapere come si fa/faccia a sollevare (da terra, questa l’accezione propria del verbo) gli interrogativi. In buona lingua italiana gli interrogativi si pongono, non si sollevano. Ma tant’è. Le cosi dette grandi firme...


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La giudice anti-protocollo è il capo delle toghe rosse

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Una concordanza orrendamente spallata (sic!): la giudice è il capo. Anche se “suona” male il femminile di capo è capa. Quindi: la giudice (…) è la capa (…).  

 

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Ai domiciliari i due che hanno ucciso a colpi di forbice il ladro di viale Cermenate: “No legittima difesa, ma anche loro erano sotto shock”

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In buona lingua: a colpi di forbici.




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venerdì 18 ottobre 2024

Scappare (e le sue "evoluzioni")

 


Il verbo "scappare" dal latino volgare ‘excapare’, composto con  il prefisso privativo "-s" (ex) e "cappa" (mantello), è un cosiddetto verbo (quasi) parasintetico (quasi, perché manca un suffisso) e quando è ‘nato’ significava, alla lettera, "togliersi il mantello", un gesto che si faceva per fuggire con maggiore rapidità, senza l’ingombrante cappa (mantello), per muoversi, quindi, più liberamente.

Con il trascorrere del tempo – come si sa – le parole possono evolversi cambiando di significato e il verbo scappare è una di queste. Vediamo le varie “evoluzioni”.

Fuggire - La più diretta e antica accezione, legata all'idea di togliersi la cappa per fuggire rapidamente da un pericolo o da una situazione sgradevole: scappiamo ché fra un po’ pioverà.

Essere fuori controllo - Con molta probabilità derivato dall'idea di qualcosa che sfugge alla presa, come un mantello che vola via col vento: la situazione ci sta scappando di mano.

Sfidare le aspettative - Adoperato in senso figurato per indicare qualcosa che accade inaspettatamente: nonostante fossi adirato mi è scappato un sorriso.

Fuggire dalla cattività – Accezione simile alla precedente: il detenuto è scappato dal carcere.

Morire – Quando una persona muore inaspettatamente o tragicamente: durante la manifestazione di protesta ci è scappato il morto.

Evitare - Proviene dall'idea di allontanarsi da ciò che è sgradevole o indesiderato: appena possibile scappo da quelle insopportabili riunioni.


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mercoledì 16 ottobre 2024

Sul verbo propinare

 


C'era una volta, nel bellissimo regno della Linguistica, una giovane fanciulla appassionata dell’italico idioma, Sofia. Questa era conosciuta e stimata in tutto il regno perché dava sempre consigli – a chi le chiedeva un parere – sul corretto uso della lingua di Dante. Un giorno, un giovane, Marco, le si avvicinò per porle una domanda che lo incuriosiva: "Ciao Sofia, mi puoi spiegare il significato del verbo 'propinare'? L'ho sentito usare in modo strano e in tutte le salse, come usa dire."

Sofia sorrise e, gentilmente, rispose: "Certo, Marco. 'Propinare' è un verbo molto interessante. Deriva dal latino 'propinare', che significa 'offrire una bevanda'. Questo verbo latino a sua volta proviene dal greco 'pro-pínein', dove 'pro' significa 'davanti' o 'prima' e 'pínein' significa 'bere'. ‘Propinare', quindi, si potrebbe dire che vale 'bere davanti a qualcuno' o 'offrire da bere'."

Marco annuì, ma aveva ancora dei dubbi: "Allora perché ho sentito dire 'mi ha propinato una storia noiosa'? Non ha senso. Sbaglio?"

"Comprendo la tua confusione," rispose Sofia. "In effetti, 'propinare' si può usare anche in senso figurato, ma bisogna prestare molta attenzione. Figuratamente si adopera per indicare qualcosa che viene offerto o imposto, spesso in modo sgradito, come raccontare una storia noiosa, appunto. Ma è importante ricordare, sempre, che il suo uso corretto è legato alle bevande."

"Ah, quindi sarebbe sbagliato dire 'mi ha propinato una notizia'?" domandò Marco.

"Esattamente," confermò Sofia. "È meglio evitare di usare 'propinare' per dare notizie o informazioni varie. In questi casi puoi adoperare verbi come 'fornire', 'dare', 'comunicare' e simili. Per esempio, puoi dire, correttamente, 'mi ha dato una notizia' o 'mi ha comunicato una notizia'."

Il giovane Marco, finalmente, capì la differenza: "Grazie di cuore, Sofia. Ora so come adoperare correttamente e propriamente 'propinare'."

Sofia, contenta, gli sorrise e disse: "Sono veramente felice che tu abbia imparato qualcosa di nuovo. Rammenta sempre di prestare la massima attenzione alle parole che adoperi e al loro contesto. La precisione, nella lingua, è molto importante."

Da quel giorno, Marco adoperò il verbo 'propinare' con maggiore consapevolezza e attenzione. E gli abitanti, tutti, vissero felici e contenti, nel regno della Linguistica, perché grazie a Sofia impararono a parlare e a scrivere correttamente, avendo molto rispetto per le parole.


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La lingua “biforcuta” della stampa

Vaticano

Esce il libro che papa Francesco aveva pensato di pubblicare dopo la propria morte

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Con tutta la buona volontà non riusciamo a capire come una persona deceduta possa pubblicare un libro. In lingua italiana, non cispadana: Esce il libro di papa Francesco, che aveva pensato di farlo pubblicare dopo la propria morte.



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martedì 15 ottobre 2024

Il referto e il reperto

 


C'erano una volta, nel regno della Lessicologia, due cugini: Referto e Reperto. Si somigliavano a tal punto che molto spesso venivano scambiati, ma avevano ruoli e caratteri decisamente diversi.

Referto era un giovane studioso, sempre con un libro in una mano e una penna nell'altra. Aveva il compito di documentare ogni evento, raccogliendo informazioni precise. Amava scrivere rapporti accurati, densi di osservazioni e, naturalmente, di conclusioni. I sudditi del piccolo regno sapevano che se volevano comprendere qualcosa a fondo dovevano, necessariamente, leggere i referti del giovane Referto.

Un giorno, un medico del regno, il dottor Salvavita, chiese a Referto di scrivere un dettagliato resoconto su un paziente, al quale teneva moltissimo. Referto, con molta cura, esaminò il paziente, annotò i sintomi, i risultati delle analisi di laboratorio e, naturalmente, le conclusioni. Stilò, così, un documento dettagliato che poté essere utilizzato per curare il paziente al meglio. Tutti lodavano, insomma, Referto, che con il suo lavoro permetteva loro di avere una visione chiara e precisa delle varie situazioni.

Dall'altra parte del piccolo stato viveva Reperto, un avventuroso esploratore. Amava andare in giro alla ricerca di oggetti smarriti, antichi manufatti e tante altre cose. Ogni volta che trovava un oggetto, ritenuto interessante, lo portava al castello per mostrarlo a tutti. Era molto orgoglioso, Reperto, delle sue scoperte, sapendo che ogni oggetto trovato aveva una storia da raccontare.

Un giorno rinvenne un antico anello sepolto nel bosco. Lo portò al castello per mostrarlo al re e alla regina. I sovrani rimasero affascinati dall'anello e dalla storia che Reperto raccontò loro. "Questo è un vero tesoro", esclamò il re, "e grazie a te, Reperto, ora possiamo conoscere un pezzo del nostro passato."

Nonostante le loro differenze i due cugini erano consapevoli di essere complementari. Referto sapeva che i suoi rapporti erano fondamentali per capire e documentare i fatti, mentre Reperto sapeva che le sue scoperte erano le prove tangibili di ciò che accadeva ed era accaduto.

Una sera, mentre cenavano in un caratteristico ristorante del regno, Referto chiese a Reperto: "Sai perché ci chiamano così?"

Reperto sorrise e rispose: "Sì, lo so. Il nome che mi hanno imposto viene dal latino 'repertum', participio passato di 'reperire', che significa 'trovare'. Io trovo oggetti e li porto alla luce. Anche il tuo nome viene dal latino, vale a dire da 'refertum', participio passato di 'referre', che significa 'riportare'. Tu riporti le informazioni e le metti nero su bianco, come usa dire. Come vedi le nostre origini sono nobili, 'più nobili' di quelle degli altri patrizi perché discendiamo dal padre della nostra amata lingua italiana".

Referto annuì. "Esatto! Io documento e tu scopri. Assieme formiamo un duo perfetto."

E così, nel regno della Lessicologia, tutti impararono a distinguere i due cugini. Sapevano che se volevano capire e documentare qualsiasi cosa dovevano rivolgersi a Referto. Se invece volevano trovare e scoprire oggetti dovevano andare in cerca di Reperto. Grazie a loro il regno divenne famoso, prosperando nella conoscenza e nella scoperta.



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lunedì 14 ottobre 2024

Il dativo etico

 


C'era una volta, in un regno lontano, Grammaticus, ai confini del mondo, un giovane principe, Leonardo. Questi era corteggiato da tutte le fanciulle del reame. Ma il principe le ignorava tanta era la sua curiosità e il desiderio di imparare. Un giorno, nella biblioteca del palazzo reale, trovò un vecchio libro di grammatica che trattava di un misterioso dativo, chiamato “etico". Affascinato, volle saperne di più su questo caso grammaticale.

Il giovane principe, dunque, corse dal suo saggio maestro, l’anziano professor Verbum. "Mio maestro, cosa significa dativo etico, cosa è, insomma?"

Il professore sorrise e rispose: "Ah, il dativo etico! È un caso speciale della nostra grammatica che esprime un coinvolgimento emotivo o personale. Si chiama 'etico' proprio perché aggiunge una sfumatura etica o affettiva alla proposizione, sottolineando l'impatto dell'azione su chi parla."

Leonardo si grattò la testa, ancora confuso. "Potrebbe, professore, farmi un esempio?"

"Certamente," rispose l’anziano docente. "Prendi la frase 'mi hai rotto il vaso'. Qui la particella pronominale 'mi' non si riferisce a chi compie l'azione, ma a chi è emotivamente colpito dall'azione stessa. Il dativo etico sottolinea, in questo caso, il fatto che chi parla prova un dispiacere per il vaso che si è rotto."

Il giovane principe, finalmente, capì. "Il dativo etico, quindi, è come un tocco magico che rende le nostre parole più ricche di emozioni e di significati?"

“Proprio così, Leonardo," rispose Verbum, "è un modo per rendere la nostra lingua più vivida e personale. Un altro esempio: 'Mi dormi tutto il giorno'. Qui il 'mi' non sta significare che la persona ‘dorme per me’, ma che io ne sono coinvolto emotivamente.”

Il principe accennò un sorriso. "È come dire, pertanto, 'mi guardi che meraviglia', esatto? Dove il 'mi' indica il mio piacere nel vedere qualcosa di meraviglioso."

"Esattamente," confermò il professore. "Il dativo etico ci permette di esprimere le nostre emozioni, i nostri sentimenti in modo sottile e raffinato. È un tesoro del nostro idioma che pochi conoscono veramente."

Con il trascorrere dei giorni, Leonardo cominciò a ‘vedere’ il dativo etico dappertutto. In una conversazione con la sorella, la principessa Elena, se ne uscì: "Mi racconti sempre delle storie affascinanti." La principessa sorrise, contenta che Leonardo apprezzava veramente le sue storie.

Leonardo volle approfondire ulteriormente il suo studio e chiese a Verbum: "Professore, ci sono altre lingue che utilizzano un concetto simile a quello che esprime il dativo etico?"

Il professore rifletté per un momento, poi rispose: "Sì, Leonardo, ci sono. Per esempio, in latino esisteva un uso simile del dativo per esprimere un coinvolgimento personale. Lo stesso avviene in alcune lingue moderne, come il greco e il russo, dove ci sono costruzioni grammaticali che permettono di esprimere sfumature affettive simili."

Il giovane principe era estasiato. “Il dativo etico, pertanto, è una sorta di finestra sui sentimenti delle persone tramite le parole?"

"Esatto," concluse il professor Verbum. "È un modo per connettersi con gli altri a un livello più profondo, mostrando quanto siamo interessati alle loro azioni e alle loro parole."

E così, il principe Leonardo apprese l'importanza del dativo etico e come adoperarlo per aggiungere un pizzico di “magia emotiva” alle sue parole. Di tanto in tanto il giovane rampollo tornava dal suo grande maestro, sempre desideroso di scoprire nuovi segreti della lingua, sapendo che ogni nuova scoperta avrebbe arricchito il suo modo di comunicare, e, quindi, di relazionarsi con gli altri.



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domenica 13 ottobre 2024

Soppottiere! Chi era costui?

 


- Ciao Robertino, vieni qui. Oggi voglio parlarti di un termine antico, non più adoperato, che ho trovato, per caso, nel vocabolario Tommaseo-Bellini: 'soppottiere'. Sai cosa significa?

- No, non l'ho mai sentito prima. E forse non sono il solo a non saperlo. Cos'è?

- È un termine desueto, relegato nella soffitta della lingua, che significa 'presuntuoso', 'arrogante', ‘saccente’. È veramente curioso vedere come alcune parole, con l’andare del tempo, cadano in disuso e scompaiano dal nostro vocabolario corrente.

- Interessantissimo, papà! E da dove viene questo vocabolo?

- Riguardo alla provenienza ti rimando al dizionario etimologico di Ottorino Pianigiani, anche se non ritenuto fededegno da buona parte dei linguisti, se non da tutti. Tommaseo e Bellini hanno raccolto e documentato moltissime parole, comprese quelle meno usate, e 'soppottiere' è una di queste.

- Quindi soppottiere si riferiva a una persona che si comportava in modo presuntuoso, arrogante?

- Proprio così, figliolo. Immagina una persona che si ritiene superiore alle altre. Oggi un essere che si comporta come se avesse la cosi detta puzza sotto il naso lo chiameremmo 'presuntuoso' o 'arrogante', ma 'soppottiere' – mi sembra di capire – era un termine colorito usato nei tempi andati.

- Hai altri esempi, papà, di parole che non usiamo più?

- Certamente! Mi viene alla mente 'sollazzo', che una volta significava 'divertimento' o 'gioia', oggi è quasi scomparso dal linguaggio corrente.

- Il nostro idioma è davvero affascinante. Come possiamo riscoprire queste parole di stampo antico?

- Compulsando vecchi dizionari, opere letterarie e documenti storici. Alcuni vocaboli, inoltre, possono essere recuperati e riportati alla luce in contesti specifici, magari nella letteratura o nel teatro. Uno di questi potrebbe essere 'tolda', anche se non schiettamente di origine italica.

- Magnifico! È come scoprire un tesoro nascosto.

- Ricorda Robertino, ogni parola ha una storia a sé e scoprirla può arricchire il nostro linguaggio.

- Mi piacerebbe leggere qualche vecchio dizionario. Dove posso reperirlo?

- Puoi trovare i vecchi dizionari nelle biblioteche, oppure online in formato digitale. Molti di questi dizionari storici sono stati digitalizzati e sono accessibili gratuitamente. È un modo straordinario per esplorare la nostra lingua e vedere le sue trasformazioni.

- Che bello! Non vedo l'ora di scoprire altre parole perché, come hai detto, ogni parola ha una storia unica da raccontare.

- Esattamente. Non dimenticarlo mai. Chi sa, magari un giorno potrai usarle nei tuoi scritti e farle rinascere.


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La lingua “biforcuta” della stampa


Florin Raducioiu: “Le urla di Capello e le flebo misteriose prima della partita. Gli sfottò a Mai dire gol? Non segnavo perché avevo perso la testa per una fotomodella”

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Non ci stancheremo mai di ripetere che le “urla”, plurale di urlo, sono quelle degli esseri umani considerate insieme, collettivamente. Una singola persona emette gli urli. Correttamente, quindi, “gli urli di Capello”.




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venerdì 11 ottobre 2024

Sentire, udire, ascoltare: tre verbi, tre "ascolti" diversi

 


V
ieni qui, Pinuccio! Oggi voglio parlarti di tre verbi che noi tutti adoperiamo indifferentemente, ma hanno sfumature diverse: sentire, udire e ascoltare. Se vogliamo parlare e scrivere correttamente, dunque, dobbiamo prestare attenzione alle loro sottili differenze.

- Va bene, papà. Quali sono, dunque, queste differenze?

- Cominciamo con 'sentire', che è pari pari il latino sentire. Quando usiamo questo verbo ci riferiamo soprattutto alla percezione sensoriale. Per esempio, 'sento il vento sulla pelle' o 'sento un fruscio negli orecchi'.

- Quando dico 'sento la sirena dei vigili del fuoco' sto parlando della percezione del suono, quindi?

- Esatto, Pinuccio. Ora veniamo a 'udire' che è simile a 'sentire', ma un po' più specifico. 'Udire', dal latino audire, significa percepire un suono con l'orecchio, senza necessariamente prestare attenzione. Per esempio, 'ho udito un rumore nella stanza accanto'. Questa è una percezione “passiva”, si potrebbe dire.

- Capisco. Posso udire, pertanto, qualcosa senza prestare attenzione?

- Proprio così, figliolo. Passiamo ad 'ascoltare', anche questo dal latino classico auscultare. Quest’ultimo verbo implica intenzione e attenzione. Quando 'ascolti' qualcosa stai prestando attenzione a ciò che senti. Per esempio, 'sto ascoltando la lezione del professore'.

- Quindi quando sento la musica devo dire 'ascolto la musica' perché la mia attenzione è concentrata solo sulla musica?

- Esattamente. Ascoltare richiede uno sforzo attivo per comprendere e dare importanza a ciò che stai sentendo. È diverso da 'sentire' e 'udire' perché coinvolge la tua attenzione consapevolmente.

- Ora ho capito veramente! Sentire è percepire con i sensi, udire è percepire inconsciamente, quindi passivamente e ascoltare è prestare attenzione. Grazie, papino! Farò un figurone con i miei amici quando spiegherò loro queste differenze.

- Bene figliolo. Sono contento che tu abbia capito la differenza. Usare correttamente questi verbi ti aiuterà a esprimerti meglio e riceverai i complimenti dei tuoi insegnanti.


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 La lingua “biforcuta” della stampa

L'emergenza

Volo Colonia-Roma, turbolenze e attimi di panico: “L’aereo ballava tra pianti e urli. Un uomo si è sentito male”

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Correttamente: tra pianti e urla.  

Urlo essendo un nome "eteroclito-eterogeneo" ha due plurali: urli e urla. Il femminile plurale, però, contrariamente a quanto riportano alcuni vocabolari, si usa solo per "le urla" dell'uomo in senso collettivo. Insomma: gli urli di Maria ma le urla di Giovanni, di Maria e di Pietro. È errato, per tanto, dire o scrivere "le urla della vittima risonavano in lontananza"; in questo caso, anche se si tratta di una persona, bisogna dire "gli urli" perché non c'è la "collettività". Anche per quanto riguarda il plurale di "grido" il discorso è lo stesso. I soliti vocabolari riportano: le grida per indicare quelle degli uomini; degli animali sempre gridi. Non è proprio cosí, come abbiamo visto.



 














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giovedì 10 ottobre 2024

Nel regno delle Magiche Mani

 


C’
era una volta, in uno stupendo castello del lontano regno delle Magiche Mani, un gruppo di scrittori molto apprezzati. Tra loro c’erano due amici inseparabili, Marco e Serafino, i quali avevano deciso di scrivere un libro insieme. Una volta finito e stampato vollero comunicarlo al mondo intero: “Quest’opera è stata scritta a quattro mani!”

Nel piccolo regno, però, c’era un folletto, Censorino, noto a tutti per la sua ironia tagliente. Quando sentì l’annuncio di Marco e Serafino, non poté trattenere una fragorosa risata: “A quattro mani? Ma se siete solo in due! Avete forse quattro mani ciascuno?” esclamò, ridacchiando.

I due, un po’ confusi, risposero: “Beh, è solo un modo di dire. Significa che abbiamo lavorato insieme.”

Censorino, con un sorriso malizioso, decise di fare uno scherzo ai due inseparabili amici. La notte seguente, mentre Marco e Serafino dormivano, il folletto ricorse alla sua magia per far comparire altre due mani su ciascuno di loro. Quando i due si svegliarono rimasero sbalorditi nel vedere i loro nuovi arti.

“Perdiana, che cosa è successo?!”, gridò Marco, agitando le sue quattro mani.

“Non lo so, ma sembra che ora possiamo davvero scrivere a quattro mani!” rispose Serafino, non celando una certa emozione e meraviglia.

I due scrittori decisero, quindi, di sfruttare la situazione e cominciarono a scrivere un altro libro anche con le nuove mani. Presto, però, si resero conto che avere quattro mani non era così vantaggioso come sembrava. Gli arti aggiunti si muovevano autonomamente tracciando sul foglio una teoria di parole illeggibili .

Disperati, i due amici andarono a cercare Censorino, immaginando essere lui il responsabile dell’aggiunta delle mani, per chiedergli di togliere l’incantesimo. Quando lo trovarono il folletto li accolse con un sorriso divertito. “Allora, come va la scrittura a quattro mani?” chiese, trattenendo a stento le risate.

“Per cortesia, amico Censorino, toglici queste mani ingombranti! Non riusciamo a scrivere nulla di sensato!”, lo supplicarono i due amici.

Il folletto, vedendo che avevano imparato la lezione, decise di aiutarli. Con un tocco di magia le mani aggiunte scomparvero di colpo e Marco e Serafino tornarono persone normali. “Ricordatevi,” li ammonì Censorino, “che l’espressione corretta è ‘scrivere a due mani’ quando gli autori sono due; a ‘quattro mani’ si dice di due persone che suonano sullo stesso pianoforte. Non importa quante mani avete, ma come usate quelle che avete.”

Da quel giorno, i due amici proseguirono il loro sodalizio letterario scrivendo altri libri e ogni volta che qualcuno chiedeva loro delle nuove pubblicazioni rispondevano, con un sorriso: “Quest’opera è stata scritta a due mani ma anche con… due cuori.”














In una recensione di questo libro si legge che è stato scritto "a sei mani".




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martedì 8 ottobre 2024

Il cretino e il fesso

 


La nostra lingua è ricchissima di parole omofone (che hanno il medesimo “suono”) e omografe (che si scrivono nello stesso modo) ma con significato completamente diverso. Alcune di queste parole hanno cambiato di significato nel corso dei secoli, come nel caso di cretino che ha mutato il significato originario di “cristiano” in quello di “stupido”, “sciocco”. Può sembrare irriverente ma è proprio così: in Provenza l'alpigiano era ritenuto, forse più a torto che a ragione, un “povero cristo”, un “crétin”, un “povero cristiano”, talmente sempliciotto da essere considerato uno scemo, uno stupido. La voce “cretino”, dunque, nell'accezione nota a tutti non è schiettamente italiana ma francese.

Diverso è il caso di fesso, con due significati ben distinti. Se apriamo un qualsivoglia vocabolario alla voce in oggetto, leggiamo: “rotto”, crepato per il lungo” (un vaso fesso, cioè rotto); “imbecille”, “stupido”. Che relazione intercorre tra l'imbecillità e la rottura, visto che il termine ‘fesso' presenta queste due accezioni? Apparentemente nessuna. Proviamo, però, a risalire all'etimologia. Nel significato di ‘rotto' fesso non è altro che il participio passato (con valore aggettivale) del verbo “fendere” (tagliare, spaccare, oppure ‘attraversare cosa fitta e folta': fendere la folla, fendere l'acqua); nel significato, invece, di ‘stupido', ‘imbecille', ‘sciocco' è voce napoletana derivata da “fessa”, cioè da vulva. Chissà perché, nell'opinione popolare, gli organi genitali sono sempre stati sinonimi di stupidità. La “fessa”, comunque, non è una piccola fessura del corpo? Ecco, quindi, la relazione che – a nostro personale parere – intercorre tra il fesso, inteso come ‘rotto' e il fesso nell'accezione di ‘stupido'.


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domenica 6 ottobre 2024

Complementi: agente e causa efficiente. Come riconoscerli?

 


Il complemento d’agente e quello di causa efficiente sono, molto spesso, causa di dubbi in quanto entrambi hanno il verbo di diatesi passiva, sono introdotti dalla preposizione “da” e rispondono alle domande sottintese “da chi?”, “da che cosa?” Riconoscerli, quindi, non è sempre facile. Vediamo, pertanto, le differenze, fondamentali, che li distinguono e ci permettono di individuarli.

Il complemento d’agente indica la persona o l’animale che compie l’azione (anche se impropriamente, perché il verbo è passivo), è introdotto dalla preposizione semplice o articolata “da” o dalle locuzioni “da parte di chi”, “per opera di chi”: il malvivente, dopo un lungo inseguimento, è stato catturato dai carabinieri; lo studente modello è stato premiato dal preside.

Quello di causa efficiente designa la cosa inanimata o l'evento naturale, causa dell’azione: la finestra è stata aperta dal vento; il cavalcavia è stato distrutto dal terremoto. Ma come facciamo a riconoscerli immediatamente? Basta trasformare la frase con il verbo passivo in attivo: se il complemento diventa il soggetto della frase attiva si può individuare il tipo di complemento: lo studente modello è stato premiato dal preside>il preside ha premiato lo studente modello (complemento d’agente); la finestra è stata aperta dal vento>il vento ha aperto la finestra (complemento di causa efficiente).

Tutto chiaro? Non sappiamo, onestamente, se tra le innumerevoli riforme scolastiche i programmi prevedo(a)no ancora lo studio dell’analisi logica. Ma leggendo gli articoli dei giornalisti, sfornati dalla scuola di oggi, sembrerebbe proprio di no. 














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