mercoledì 28 novembre 2018

Lingua non porta pena: sul sessismo, tra Italia e Spagna

Un articolo di Gabriele Valle pubblicato sul sito della Treccani.

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La parola proposta da questo portale: amariglio. Aggettivo che sta per giallo pallido. Si trova nell'OVI. Si clicchi qui e alla voce ricerca, in alto a destra, si digiti il termine in questione.

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La lingua "biforcuta" della stampa

Allarmi bomba a Mosca: evacuata una stazione dei treni e 10 centri commerciali
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A parte l'uso improprio del verbo "evacuare", la concordanza è "sballata".


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Avvocatessa fa 
il saluto romano 
con una bimba 
in braccio


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 Correttamente:  Avvocata (con l' imprimatur dell'Accademia della Crusca)

Sapere.it (De Agostini):

· Il femminile regolare di avvocato è avvocata e così si può chiamare una donna che eserciti il mestiere di avvocato. È in uso anche avvocatessa, che però può avere tono scherzoso o valore spregiativo, come tradizionalmente hanno avuto diversi femminili in -essa. Alcuni poi preferiscono chiamare anche una donna avvocato, al maschile. Si tratta di una scelta che non ha basi linguistiche, ma sociologiche, e che comunque può creare, nel discorso, qualche problema per le concordanze.


martedì 27 novembre 2018

Il «socericida»


Uccide - d'accordo con la moglie - il suocero per impadronirsi della piccola azienda.
Questo titolo, di un giornalino di quartiere, ci ha fatto riflettere sul fatto che nel nostro idioma non esiste (se non cadiamo in errore) un sostantivo atto a indicare la persona che uccide il suocero o la suocera. Proponiamo, per tanto, ai vocabolaristi, di prendere in considerazione il neologismo "socericida".  Il vocabolo ci sembra ben formato: dal latino “socer” con l’aggiunta del suffisso “-(i)cida” (dal verbo latino “caedere”, ‘tagliare’, ‘uccidere’). Avremo, quindi, “il/la socericida”, con i rispettivi plurali “i socericidi”, “le socericide”.

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La lingua "biforcuta" della stampa

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I titolisti del giornale in rete "dovrebbero" sapere che - in lingua - esiste il normale (e correttissimo) femminile arbitra. Il titolo in questione presenta due strafalcioni: il citato "arbitro" (in luogo di arbitra) e la concordanza "invalida" con arbitro (maschile).
Anche qui la concordanza è "sballata": «La storia dell'assessore (invece di assessora) […] invalida […]».

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LA TV PUBBLICA


(Nella pagina interna [questo è il titolo della prima pagina] è sparita la voce "donna")
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Sarebbe interessante sapere se esiste anche una direttrice uomo. 


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domenica 25 novembre 2018

«Ma perché non lo dici nell'idioma di Dante?»



Una valanga di anglicismi che si potrebbero tranquillamente "tradurre" in lingua italiana. Qui.

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La parola proposta da questo portale e ripresa dal vocabolario De Mauro: salapuzio. Sostantivo maschile: uomo basso, saccente e libidinoso.

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La lingua "biforcuta" della stampa


Centocelle, nasce rete dei docenti antimafia
Mobilitazione per il corteo dell'1 dicembre

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Correttamente: del 1 dicembre
CRUSCA: Le indicazioni comprendenti anche mese e giorno sono introdotte modernamente da un articolo maschile singolare: «il 20 settembre 1870»". Per estensione, si può aggiungere che, nel caso di una data come 11/10/1989, l'articolo che vi si anteporrà sarà l' (seguendo la pronuncia della data: l'undiciottobre millenovecentoottantanove); stessa regola vale per le date che iniziano con 1: anche per queste, si considera il modo in cui tali date vengono pronunciate e quindi si scriverà il 1/2/2003 (cioè il primo febbraio duemilatré). Infatti, come specifica Serianni, "Per i giorni del mese si usa l'ordinale per il giorno iniziale [...], ma il cardinale per i giorni successivi, siano o non siano accompagnati dal giorno del mese [...]."

Lo strafalcione (dell'1 dicembre), nonostante la nostra segnalazione, fa ancora bella mostra di sé nella prima pagina romana di un giornale in rete.



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sabato 24 novembre 2018

Mi viene di... o mi viene da...?


Da "Domande e risposte" del sito Treccani

DOMANDA

Si dice: mi veniva di dire o mi veniva da dire? E qual è la regola?

RISPOSTA

Il verbo venire, seguìto dalla preposizione da, significa 'sentire l'impulso': mi viene da ridere, da piangere, da dire, da pensare. Non c'è una “regola”, siamo in presenza di un uso che si è consolidato nel corso del tempo.

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A nostro modesto avviso l'uso che si è consolidato nel tempo è un uso... errato. Se il verbo venire seguito dalla preposizione "da" significa "sentire l'impulso" la preposizione corretta da adoperare è "di". Si dice, infatti, "sento l'impulso di ridere", non *sento l'impulso da ridere. Le forme corrette sarebbero, dunque: mi viene di ridere; mi viene di piangere; mi viene di dire; mi viene di pensare. Attendiamo smentite da qualche linguista  "in navigazione", casualmente, su/in questo sito.

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La parola proposta da questo portale: bazzesco. Aggettivo che vale rozzo, grossolano, oscuro. Si veda anche qui.

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La lingua "biforcuta" della stampa


Cacciatore spara contro una siepe 
e uccide anziano di 72enne
 


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Nessun commento.

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Centocelle, nasce rete dei docenti antimafia
Mobilitazione per il corteo dell'1 dicembre

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Correttamente: del 1 dicembre

CRUSCA: Le indicazioni comprendenti anche mese e giorno sono introdotte modernamente da un articolo maschile singolare: «il 20 settembre 1870»". Per estensione, si può aggiungere che, nel caso di una data come 11/10/1989, l'articolo che vi si anteporrà sarà l' (seguendo la pronuncia della data: l'undiciottobre millenovecentoottantanove); stessa regola vale per le date che iniziano con 1: anche per queste, si considera il modo in cui tali date vengono pronunciate e quindi si scriverà il 1/2/2003 (cioè il primo febbraio duemilatré). Infatti, come specifica Serianni, "Per i giorni del mese si usa l'ordinale per il giorno iniziale [...], ma il cardinale per i giorni successivi, siano o non siano accompagnati dal giorno del mese [...]."







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venerdì 23 novembre 2018

«Sono stati interrati ogni tipo di veleni»


L'ordinanza firmata dalla sindaca Raggi per il Canalone e i dintorni. Nel suolo contaminato sono stati interrati, fino a otto metri, ogni tipo di veleni. I residenti della zona: "E' la nostra Terra dei fuochi"
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Gli amici lettori ci perdoneranno se insistiamo con gli strafalcioni che "imperversano" sulla carta stampata e no. Ma la stampa - lo abbiamo sempre sostenuto - deve divulgare le notizie rispettando le norme che regolano la nostra bellissima e musicale lingua italiana. Ciò, purtroppo, non avviene sempre (come dovrebbe essere) e il titolo - che abbiamo "copincollato" da un giornale in rete - è la "prova provata". Non si può fare l'accordo a senso con il sostantivo "tipo" perché non è un nome collettivo (*sono stati interrati [...] ogni tipo di veleni).  Correttamente, dunque: «(...) sono stati interrati (...) tutti i tipi di veleni»; oppure: «(...) è stato interrato (...) ogni tipo di veleni».


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giovedì 22 novembre 2018

La "somministrazione" dei quesiti


Per la serie la lingua "biforcuta" della stampa

Le prove si terranno a Roma, presso l’Hotel Ergife. 
Consisteranno nella somministrazione di 90 quesiti (qui)

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Povera lingua italiana, sempre piú calpestata dai massinforma (mezzi di comunicazione di massa)! Forse è il caso di "ricordare" a coloro che hanno redatto il titolo in questione che i quesiti non si "somministrano", quasi fossero dei medicinali. Vediamo, in proposito, ciò che dice il vocabolario Treccani in rete. In buona lingua diremo, quindi: «Consisteranno nel rispondere a 90 quesiti».



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mercoledì 21 novembre 2018

Perché "i portarossetti" no e "i portatovaglioli" sí?

Portarossettoportasapone,
 portaspazzolino e
portatovagliolo.
 Sul plurale di questi  sostantivi i lessicografi si accapigliano, sono concordi solo sul plurale dell'ultimo: portatovaglioli. Per quanto concerne gli altri tre si ripete il balletto: alcuni li ritengono invariabili, altri variabili e altri ancora, "pilatescamente", variabili o invariabili. Eppure sono etimologicamente uguali al portatovagliolo, sul cui plurale - ripetiamo - tutti concordano. Siamo in presenza di un mistero eleusino*. A costo di attirarci le ire dei "grandi linguisti" consigliamo a coloro che amano il bel parlare e il bello scrivere di pluralizzarli tutti e tre: portarossettiportasoponi e portaspazzolini. Cosí facendo si rispetta la norma che regola la formazione del plurale dei nomi composti di una voce verbale e di un sostantivo maschile singolare.


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Qualcosa e qualche cosa

Alcuni vocabolari classificano ‘qualcosa’ di genere femminile, altri di genere maschile, altri ancora di ambo i generi. Vediamo un po’ di fare chiarezza. Intanto è un pronome indefinito ed è la forma contratta di ‘qual(che) cosa’ e per il suo valore indeterminato è considerato di genere neutro, quindi maschile: qualcosa è stato fatto; qualcosa non è andato per il verso giusto. In grafia univerbata, come forma contratta di qualche cosa, è preferibile, dunque, consideralo sempre di genere maschile. Sarà tassativamente femminile, invece, in grafia analitica (scissa) (cosa, infatti, è di genere femminile): qualche cosa è stata fatta, qualche cosa non è andata per il verso giusto. In una parola sola (univerbata) gli alterati, che sono di genere femminile: qualcosina; qualcosetta; qualcoserella; qualcosellina; qualcosuccia.

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sabato 17 novembre 2018

La «manina»


Un articolo di Michele Cortelazzo, pubblicato sul sito della Treccani, sulle parole della neopolitica.

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La parola proposta da questo portale: calderno. Aggettivo che sta per soleggiato.


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La lingua "biforcuta" della stampa

Via da strade i nomi di chi firmò il manifesto della razza: pronti sette scienziati sostituti
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Questo titolo di un giornale in rete grida vendetta agli occhi di coloro che amano la lingua italiana. Perché? Perché non è corretto "i nomi di chi firmò". Il pronome chi è solo singolare e vale "colui/colei che", non "coloro che". Correttamente, quindi: il nome di chi firmò oppure i nomi di coloro che firmarono. Per l'uso corretto del pronome chi si veda questo collegamento. Sulla correttezza del titolo è sorta anche una discussione nel fòro linguistico Cruscate.

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L'orrore sintattico è stato segnalato alla redazione ma, finora, il giornale non ha apportato alcun emendamento. 

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mercoledì 14 novembre 2018

Sgroi - È corretto "molto peggiore”?


di Salvatore Claudio Sgroi*

"Si può dire 'molto peggiore'?", è un dubbio che assilla spesso il parlante e una domanda che ci viene spesso posta dai lettori.
Che in italiano si possa dire, anzi che si dica, Molto migliore , è un dato di fatto. Che l'espressione sia "corretta" è indubbio, comprensibile e diffusa com'è a livello pan-italiano e presente nell'uso di parlanti colti e incolti.
Invece, l'espressione più migliore, pur comprensibile e pur pan-italiana, è giudicata (giustamente) "errata" perché propria dell'italiano popolare dei parlanti incolti.
L'avv. 'molto' "seguito da un aggettivo qualificativo o da un avverbio di modo" -- ricorda il Dizionario di De Mauro 2000,  -- "ha valore superl.", citando gli ess. molto grande, molto bello, molto bene, molto giustamente". E si dice infatti anche grandissimo, bellissimo, benissimo, giustissimamente.
Lo stesso avv. 'molto', ricorda ancora il De Mauro, "ha valore rafforz." quando è "seguito da un avverbio" (per es. molto prima), o "da un comparativo", ad es. molto maggiore, molto più piccolo.
A questo punto se ne deduce che "molto maggiore" o "molto peggiore" non hanno valore "superl." (diversamente da "molto grande") ma hanno solo "rafforz." perché nessun parlante direbbe "*maggiorissimo" o "*peggiorissimo", o "*più piccolissimo", combinando cioè comparativo e superlativo. Per intensificare un aggettivo, il parlante può infatti scegliere tra comparativo e superlativo. Ma se sceglie il comparativo al massimo può rafforzarlo con "molto". Insomma, comparativo e superlativo non sono un matrimonio "da fare", data la loro incompatibilità.

* Docente di linguistica generale presso l'Università di Catania












domenica 4 novembre 2018

Gli orchestrali? No, professori d'orchestra


Siamo smentiti dai vocabolari su quanto stiamo per scrivere, ma andiamo avanti per la nostra strada, convinti della bontà della tesi che sosteniamo. Intendiamo parlare del termine "orchestrale" che, a nostro avviso - al contrario di quanto riportano i vocabolari dell'uso - è corretto solo come aggettivo. Si legge e si sente dire, per esempio, "gli orchestrali della Scala hanno avuto tre minuti di applausi", dando a orchestrali la "patente" di sostantivo. Si deve/dovrebbe dire, invece, i "componenti", i "membri", i "professori d'orchestra". Orchestrale, infatti, è un aggettivo denominale provenendo, appunto, da "orchestra". Che è/sia un aggettivo lo conferma il suffisso "-ale". Questo affisso (anche "-iale" e "-uale), dal latino "alis", serve, infatti, per la formazione di aggettivi derivati da sostantivi che indicano uno stato, un'appartenenza, una condizione, una relazione: autunnale, collegiale, intellettuale ecc. L'orchestrale, dunque, non è  una persona che appartiene a un'orchestra? A nostro sostegno il Tommaseo-Bellini, che attesta il termine solo come aggettivo. Orchestrale, inoltre, non è a lemma nella "Lessicografia della Crusca" in rete né nell'OVI, Tesoro della Lingua Italiana delle Origini.
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Vogliamo vedere il significato "nascosto" di tre parole: rancio, rancido e gonna?  Cominciamo  con il primo che può essere, innanzi  tutto, sia sostantivo sia aggettivo. Nel secondo caso è l’aferesi di “(a)rancio”: color dell’arancia, quindi sta per “arancione”. C’è da dire, però, per “onestà linguistica”, che il suddetto aggettivo viene adoperato, per lo più, in poesia: difficilmente uno scrittore lo userebbe in una prosa. È anche aggettivo quando viene adoperato nell’accezione di “rancido”: quel formaggio è rancio, cioè rancido. Come sostantivo, invece, sta per “pasto dei soldati”. L’origine non è schiettamente italiana ma spagnola: “rancho” (‘stanzone di persone’). I militari non consumano i pasti in comune in uno “stanzone”?
Terminiamo occupandoci del capo d’abbigliamento femminile: la gonna. Quest’indumento, dunque, all’inizio, non era riservato esclusivamente alle donne in quanto indicava vari tipi di manti o di tuniche, maschili e femminili, diversi secondo il luogo o il tempo. Oggi è rimasto solo per l’abbigliamento femminile e sta a indicare la sottana delle donne lunga fino al ginocchio. Per gli studiosi di lingua il vocabolo, infatti, va connesso con “genu” (ginocchio) in quanto è un indumento che ricopre il… ginocchio.



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venerdì 2 novembre 2018

"Para", prefisso e sostantivo


Due parole due su un vocabolo omofono ma con distinti significati: "para". Quello più conosciuto - e, quindi, noto a tutti - è l'abbreviazione del sostantivo francese "parachutiste", paracadutista. Essendo un termine "accorciato" nella forma plurale resta invariato come tutti i sostantivi tronchi. Un altro significato, forse poco noto, è "caucciù brasiliano molto pregiato": scarpe con suola di para. Questo sostantivo è rigorosamente femminile e altrettanto rigorosamente solo singolare. Deve il nome a Parà, Stato brasiliano dove questa gomma è prodotta. Infine si adopera come prefisso con distinti significati, a seconda della sua "provenienza". Quando proviene dal greco "para-" serve a dare alla parola cui è "attaccato" il concetto di vicinanza nello spazio, affinità, somiglianza o anche contrapposizione: parastatale; paramilitare. I vocaboli così composti, nella forma plurale, possono o no variare la desinenza. Un buon vocabolario sarà di aiuto in caso di dubbi. Quando, invece, "para-" viene dal latino "parare" (riparare) aggiunge alla parola cui è anteposto il significato di "rimedio", "protezione": paracadute, parafulmini, paracalli, paradenti. Il verbo "parare" di cui "para", è un derivato, in questi casi veste la duplice... veste di "scansare" e "proteggere". Anche qui un vocabolario con la "V" maiuscola sarà di aiuto per l'eventuale plurale.


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La lingua "biforcuta" della stampa

Manovra
Rincari sigarette in vista. Assunzioni agevolate per i 110 e lode, fondi per 900 specializzandi in medicina 
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Se non cadiamo in errore - e fino a prova contraria - ci si laurea in medicina (e chirurgia) e ci si specializza in qualche branca (pediatria, cardiologia, chirurgia, ortopedia ecc.). Stando al titolo una qualsivoglia laurea ti dà la possibilità di specializzarti in medicina. Non è cosí, naturalmente.


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Callo, singolare di "calli" (vicoli, viuzze ecc.)


A proposito del singolare di callo (vicolo ecc), stupisce il constatare che il linguista Poldo (commenti all'articolo "A zonzo per i calli del paese") mostri di non conoscere il Battaglia (= Grande diz. della lingua it.) Torino, Utet, che nel vol. II 1962 lemmatizza come variante di "calle" ‘sentiero’, la voce callo2 ‘via, strada’ con un es. di G. Boccaccio tratto dalle “Rime. Caccia di Diana” (1330-1334): “E quest’è ‘l bianco e meritato  callo, / quest’è il diletto del giusto appetito, / che degno canta sul beato ballo”. Lo stesso Battaglia spiega il sing. CALLO ‘sentiero’ ricavato “dal plur. maschile "calli" (sing. callo)”.


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giovedì 1 novembre 2018

A zonzo per i calli del paese


Se qualche lettore scrivesse che domenica scorsa è stato "a zonzo per i calli del paese" (visitato) sarebbe immediatamente ripreso da qualche saccente pseudolinguista. "I calli?!," ma stai scherzando?!". "I calli - amico - è il plurale di callo, cioè l'ispessimento della pelle in alcune zone del corpo, soprattutto dei piedi, sottoposte a forti pressioni. Volevi dire vicoli, viottoli?". Bene. Se  mandasse questo sedicente linguista a farsi benedire avrebbe tutte le ragioni di questo mondo. Perché "i calli" - plurale di callo (viottolo, sentiero, vicolo) - ha tutte le carte in regola (anche se questa voce non è molto adoperata). Callo, dunque, è una parola polisemica (piú significati), anche se questa polisemia non è segnalata nei vocabolari dell'uso; non riportano, infatti, callo nell'accezione di "sentiero" e simili. Nel significato di "ispessimento cutaneo" è il latino "callus", in quello di "sentiero", "viottolo", "viuzza" "cammino"e simili è sempre il latino, ma l'etimo è diverso: "callis". Il principe degli scrittori, Alessandro Manzoni, nelle "Tragedie" immortala calli nel significato di "viottoli": «Per calli sconosciuti». Vogliamo correggerlo? Non sbaglierebbe - il lettore -  neanche se dicesse che è stato in giro per "i calli" di Venezia. "Calle", infatti, è un sostantivo maschile e femminile*: il calle/i calli; la calle/le calli. Dante lo usa al maschile: «Tu proverai... come è duro calle / lo scendere e 'l salir per l'altrui scale» (Paradiso, XVII). Nell'uso comune prevale, però, per quanto attiene alle strade della città della laguna, la forma cristallizzata femminile (le calli). 

*Per il Tommaseo-Bellini è solo maschile
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Callus, calli (II declinazione latina) = pelle dura
Callis, callis (III declinazione latina) = sentiero, viottolo

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La parola proposta da questo portale: bastracone. Sostantivo maschile: uomo grosso e forzuto. Si può usare anche al femminile: bastracona.


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