sabato 29 luglio 2017

I giramondo o i giramondi?


Il DOP, Dizionario di Ortografia e di Pronunzia, è il solo - tra i vocabolari che abbiamo consultato - a "legittimare" il plurale di giramondo (oltre all'invariabilità) ed è anche l'unico a definirlo solo sostantivo maschile. Gli altri dizionari non ammettono il plurale e lo attestano come ambigenere: il giramondo, la giramondo. La "garzantilinguistica.it", invece, stupisce:  non attesta il termine, digitando "giramondo" compare la voce inglese "globetrotter". Perché, dunque, il DOP, al contrario degli altri vocabolari, non "disdegna" il plurale di giramondo? Perché, secondo chi scrive, segue la regola della formazione del plurale dei nomi composti. Tale regola stabilisce che i nomi composti di una voce verbale e di un sostantivo maschile singolare formano il plurale regolarmente: il passaporto / i passaporti; il parafango / i parafanghi; il giramondo... i giramondi. Personalmente preferiamo lasciare il sostantivo invariato per un motivo di logica: il mondo è uno solo. Ma non è da censurare chi segue le indicazioni del DOP. Una  ricerca con Googlelibri dà un leggera preferenza alla forma plurale: 23.300 occorrenze per i giramondo e 23.700 per i giramondi.

Garzantilinguistica:
Risultati per giramondo
globetrotter

martedì 25 luglio 2017

Sgroi - La Crusca neo-sessista "con juicio"


di Salvatore Claudio Sgroi *

 La "femminilizzazione" dei nomi di professione e delle cariche -- per intenderci, casi come la ministra, la magistrata, la presidente (della Camera, ecc.), la sindaca, la notaia, la rettrice (dell'Ateneo), la pro-rettrice, la direttrice (del Dipartimento), la dirigente (scolastica), la dottoressa, ecc. -- è ben presente, con diversa fortuna secondo i termini, non solo in italiano, ma in tante lingue del mondo. Ed è stata giudicata da uno storico della lingua come Pier Vincenzo Mengaldo (1994) "quasi una rivoluzione" linguistica.
Diverse al riguardo sono le reazioni da parte dei parlanti dinanzi a tali usi. In termini di "diritti e doveri linguistici" del parlante, direi 1°) che il parlante (maschio o femmina) ha sempre il diritto di dire  "questo o quel femminile non mi piace proprio", "non lo userò mai" ecc. Oppure il contrario.
 Suo dovere è però 2°) non dire che questa o quella forma al femminile è "errata", e che quindi chi la usa sbaglia, se non altro perché è sempre comprensibile. Né tanto meno egli può imporre il proprio uso (maschile o femminile che sia) agli altri.
Massima libertà d'uso quindi da parte del parlante e rispetto degli usi altrui diversi.
Nei rapporti con gli altri, il dovere della cortesia impone invece di adeguarsi all'uso voluto dal proprio interlocutore. E quindi "Signora Presidente" (o "Direttore") se questo è l'allocutivo desiderato dalla interlocutrice.
In una società in cui la donna è a vario titolo discriminata rispetto al maschio, o vittima (vedi i femminicidi), la teoria sessista della lingua -- giunta alla ribalta in Italia circa 30 anni fa -- ritenendo la lingua strutturalmente maschilista e anti-femminista, ha voluto mettere in primo piano l'immagine della donna, soprattutto nei casi in cui il termine di genere maschile denota non solo il maschio ma anche la donna, proponendo anzi imponendo il nome di genere femminile (la ministra e non il ministro se si tratta di una donna), come nei casi di cui sopra. Il limite del sessismo linguistico è quindi il suo carattere prescrittivista.
Qual'è la posizione assunta al riguardo dall'Accademia della Crusca, e dal suo dinamico presidente, Claudio Marazzini? Il lettore potrà apprenderlo scorrendo l'informatissimo volumetto in 8° col titolo mengaldiano «Quasi una rivoluzione», sottotitolo I femminili di professione e cariche in Italia e all'estero ( pp. 136).
Il volumetto è costituito da un agguerritissimo saggio di un giovane studioso, Giuseppe Zarra (pp. 20-120), relativo all'italiano, allo spagnolo, al francese, al tedesco e all'inglese, da tre interventi di C. Marazzini (pp. 5-12; 121-29; 131-34) e da una prefazione (pp. 13-17) di Yorick Gomez Gane. (Ma manca un indice degli esempi e dei nomi).
Il dilemma se è bene dire la ministra oppure il ministro riferito in entrambi i casi a una donna, lo scioglie il presidente della Crusca, che non potendo (ahimè) proporre una sola Regola, dinanzi alla varietà degli usi dei parlanti apparentemente ingovernabile, ne propone due, o per meglio dire una regola regolante con due Varianti.
 Marazzini afferma infatti di doversi "rassegn[are] all'oscillazione tra maschile non marcato [es. il ministro] e femminile [la ministra], fino a quando non ci sarà il netto prevalere di una forma sull'altra" (p. 133).
Intanto,  una "buona soluzione" (ibid.) è, afferma l'A., "adottare [i] il femminile quando abbiamo il nome [proprio] (La presidente Boldrini, La ministra Boschi), [ii] il maschile non marcato quando la carica è menzionata di per sé in atti ufficiali (La circolare del ministro, Il ministro decreta, maschio o femmina che sia)" (ibid.).
Potremmo definire questa posizione normativista, un "neo-sessismo 'con juicio'", rispetto al "vetero-sessismo" di altri studiosi (maschi o femmine), che vorrebbero in tutti i casi La ministra decreta, ecc..
A monte della teoria sessista della lingua, neo- o vetero- che sia, sta però un fraintendimento teorico della categoria grammaticale del "genere", etimologicamente inteso come segnalatore del sesso maschio-femmina del referente animato, animale (umano e non-umano),  peraltro antico retaggio della grammatica greco-latina.
Il genere grammaticale, malgrado l’etimo, indica invero solo secondariamente, e solo per i nomi animati il sesso (peraltro non senza incoerenze). La funzione primordiale è quella di obbligare tutti i nomi (animati e non) all’accordo, alla coesione morfo-sintattica, per facilitare la comunicazione (es. Il terremoto è stato (non: *è stata) terribile; Il presidente è stato eletto [non: *eletta]).
Ogni lingua può peraltro segnalare, se il parlante lo desidera, oltre il ruolo anche il sesso degli individui. Di fatto, il parlante ha quindi a disposizione due Regole. La Regola-1 per cui usa la forma non-marcata al maschile se vuol far riferimento solo al ruolo, senza badare al sesso. E la Regola-2 per cui usa il femminile se vuole esplicitare anche il sesso. E le due Regole possono essere compresenti in uno stesso testo. Nel volumetto  Parole ai giovani di Papa Francesco (della LEV) si leggono frasi con nomi maschili riferiti a maschi e femmine: per es. (i) "dobbiamo avere cura dei giovani cercando per loro lavoro"; il/la giovane è solo "chi è nell'età compresa tra la tarda adolescenza e la maturità", senza far riferimento al sesso; -- (ii) "Dobbiamo avere cura degli anziani" (di entrambi i sessi).
E accanto voci maschili (per maschi) e voci femminili (per femmine): per es. (i) nomi ambigenere "un giovane e una giovane", (ii) nomi mobili "(cari) ragazzi e ragazze", (iii) "un ragazzo e una ragazza",  (iv) nomi indipendenti "ogni uomo e ogni donna".
Qualcuno direbbe forse che il Papa è sessista? maschilista?, anti-femminista?


* Docente di linguistica generale presso l'Università di Catania





Autore tra l'altro di
--Per una grammatica ‘laica’. Esercizi di analisi linguistica: dalla parte del parlante (Utet 2010);
-- Scrivere per gli italiani nell'Italia post-unitaria (Cesati 2013);
--Dove va il congiuntivo?  (Utet 2013);
     -- Il linguaggio di Papa Francesco. Analisi, creatività e norme grammaticali (Libreria Editrice Vaticana 2016)




mercoledì 19 luglio 2017

La crasi e l'agglutinazione


Nella rubrica di lingua dell'Espresso abbiamo riscontrato una "svista" prontamente segnalata all'articolista.

«Il solleone invece è una crasi, cioè una parola nata dalla fusione di due parole preesistenti».

---------------

Gentile Prof.ssa,

nel suo articolo "Parole estive" è incorsa in una "svista" che andrebbe emendata. Solleone non è una crasi ma una agglutinazione.

Si veda anche qui e qui.


***

Due le parole  proposte da questo portale:  glottogonía e petricore. La prima, ripresa dal Treccani, è un sostantivo femminile con il quale si indica lo studio e l'osservazione sulle origini delle lingue e del linguaggio umano. Per approfondimenti si veda qui. Con la seconda si designa il classico "odore" di pioggia dopo un periodo di siccità.






lunedì 17 luglio 2017

Sgroi - L'edizione millesimata dello "Zingarelli 2018"



di Salvatore Claudio Sgroi *

 Immancabilmente, anche quest'anno (2017) la Zanichelli ha lanciato, col titolo in copertina lo Zingarelli 2018 (pp. 2690), l'edizione "millesimata" (i.e. 'annualmente rinnovata') del Vocabolario della lingua italiana di Nicola Zingarelli, a cura di Mario Cannella e di Beata Lazzarini, con una équipe di 300 collaboratori.

Il DVD-Rom che correda il dizionario contiene tra l'altro anche due monumenti della lessicografia storica italiana: il Vocabolario della Crusca (1612) e il Dizionario della lingua italiana di Nicolò Tommaseo e Bernardo Bellini 1861-1879 (8 voll.).

Il 2017 è però per lo Zingarelli un anno storico in quanto, giusto 100 anni fa, usciva a dispense (1917-1921) la prima edizione del Vocabolario «compilato» da un solo autore per la Bietti. E c'è da augurarsi, magari per il prossimo anno, una digitalizzazione di tale edizione da affiancare agli altri due dizionari nel DVD.

Un dizionario è come una "foto" degli usi della lingua infinita di una comunità di parlanti, che vengono così riconosciuti e legittimati nella loro identità culturale. E non può non essere selettivo. Un limite teorico e pratico, questo, di cui l'utente deve tener conto se non vuole andar incontro a delusioni lessicografiche. E nello stesso tempo per non sottovalutare la propria competenza linguistica, superiore e a un tempo inferiore a quella di un dizionario.

Lo Zingarelli registra ben 145mila voci. Definizioni, distinte mediante numerazione, ed esempi (oltre 12.000 quelli letterari di 133 autori dal '200 a Dario Fo) con 45mila locuzioni e frasi idiomatiche, -- sono lo zoccolo duro del dizionario.

Per dare una idea della struttura della lingua il dizionario indica altresì 964 (preziose) schede di «sfumature di significato», ovvero di sinonimi analizzati nelle loro definizioni pur senza esempi (per es. in filosofia assioma è principio evidente, postulato principio non evidente; in religione dogma è principio "indiscutibile").

E ancora ci sono 9.300 «sinonimi», 2.000 «contrari» e 2.500 «analoghi» (p. 9 «cfr.» ma l'accezione è omessa) alla fine del lemma.

Le (utilissime) 118 tavole di «Nomenclatura» ne fanno anche un dizionario analogico (cfr. aeromobile).

E non mancano Appendici di sigle, nomi personali, geografici, abitanti, locuzioni latine (pp. 2635-88).

La variabilità del lessico a livello sincronico (geografico, comprensivo degli elvetismi (p. 3), situazionale, settoriale, registri, ecc.) è indicata mediante opportune «abbreviazioni» e «simboli» (pp. 4-5). Con un rombo sono contrassegnate le parole dell'«italiano fondamentale» (p. 5), ovvero le «circa 5500 parole di uso più frequente» (p. 3).

Una scelta da "nostalgici" della lingua d'antan sono le oltre 3000 «parole da salvare» precedute da un fiore, in quanto scartate a favore di sinonimi più comuni.

La storia del lessico è ricavabile dall'etimologia (diacronica) che segue il lemma, nonché dalle date di prima attestazione del primo significato del termine. Questa edizione si avvale di retrodatazioni e di nuove datazioni, inevitabilmente tacite e non documentate. La datazione di ogni significato, sul modello del DELI di Cortelazzo-Zolli (edito dalla stessa Zanichelli), omessa per «economicità» (pp. 10-11), avrebbe invero comportato un notevole impegno redazionale.

L'etimologia sincronica tende invece ad essere omessa per ragioni di spazio, o perché si presume nota al parlante comune.

La componente normativa-prescrittiva, decisamente di stampo tradizionale, è presente in «Note» che accompagnano i lemmi (per es. una amalgama («scorretto»), qual'è, redarre («da evitare», ecc.).

Questa nuova edizione registra circa 1000 parole o significati nuovi. Il lettore può verificare, anche come utile esercizio cognitivo, il livello di adeguatezza del proprio dizionario confrontando parole e significati presenti in testi che gli capita di leggere. Manca per es. l'espressione lingua di plastica, mentre c'è il tecnicismo plastismo (1993) (o cliché), mancano italiano neostandard (o medio), il punto G, ma ci sono frasi fatte, iperfrequenti, per es. "essere con l'acqua alla gola", "minestra riscaldata", "blitz (di polizia)", "sottoposti al vaglio degli inquirenti", "indagini a 360 gradi", "il lato B (di una donna) «(est., scherz.' fondoschiena')», "essere fuori di testa", "(pubblicità) virale", ecc. Passibili sì di generare fastidio nel lettore e quindi "denunciati" da Rosario Coluccia nella sua rubrica Parole al sole del «Nuovo Quotidiano di Puglia». Ma in quanto frasi fatte punti di riferimento sicuri per i nativofoni e, se note per es. ad un italofono straniero, indizio anche di una buona competenza della lingua.

Una novità dello Zingarelli sono le 115 definizioni a volte "sorprendenti" d'autori eccellenti (già nella precedente edizione). Il che fa dello Zingarelli un testo di lettura (e non solo di consultazione). Alla brillante definizione scientifica di Lingua di Claudio Marazzini si contrappone per es. quella tutta ideologica di Dialetto di A. Camilleri ad usum delphini con la presupposizione dell'affinità pirandelliana: «Cominciai a chiedermi perché l'italiano non mi bastava e studiai come Pirandello faceva parlare i suoi personaggi».

E fa riflettere la definizione, in realtà relativistica, di obiettività di E. Mentana: «Se sei obiettivo sai anche di non essere depositario della verità: puoi inquadrare la realtà che vedi, ma fuori campo resta sempre qualcosa che non sei riuscito a cogliere [...]». Ecc.



* Docente di linguistica generale presso l'Università di Catania

Autore tra l'altro di

--Per una grammatica ‘laica’. Esercizi di analisi linguistica: dalla parte del parlante (Utet 2010);

-- Scrivere per gli italiani nell'Italia post-unitaria (Cesati 2013);

--Dove va il congiuntivo?  (Utet 2013);
-- Il linguaggio di Papa Francesco. Analisi, creatività e norme grammaticali (Libreria Editrice Vaticana 2016)










sabato 15 luglio 2017

Anti-italiano? No, antitaliano (o antiitaliano)

Riproponiamo un nostro vecchio intervento sul corretto uso del prefisso perché - come potete vedere - la stampa continua a disattendere - per "snobismo" o per ignoranza? - le norme che lo riguardano:  "Proposta fuori dalle regole". La replica: "Ha pregiudizio anti-italiano"

Pregiatissimo Direttore, visto che il suo “blog” è interamente dedicato ai problemi del nostro bell’idioma, mi permetta di scrivere questa lettera aperta indirizzata a tutti coloro che amano il bel parlare e il bello scrivere.

Mi presento. Sono il prefisso Ante e la mia funzione l’ “annuncia” la stessa parola: ‘fissato prima’. Il prefisso, dunque, come dicono i miei biografi, vale a dire i grammatici, è ciascuna di quelle parolette, solitamente avverbi o preposizioni, che si mettono prima (dal latino “prae”, innanzi e “fixus”, fissato) della radice di una parola per modificarne tutto o in parte il significato. Io, quindi, sono una parolina che modifica il significato di un vocabolo e in quanto tale discendo – come quasi tutti i prefissi – dal greco o dal latino. Io, in particolare, posso vantare una doppia “cittadinanza linguistica” nel senso che, secondo i vocaboli che modifico, posso essere ora latino ora greco.

Sono latino, Ante, quando assumo il significato di “prima”, “avanti” e modifico la parola in senso temporale o spaziale: anteguerra (“prima” della guerra); anteposto (posto “prima”). Godo della cittadinanza ellenica, Anti (non Ante), quando acquisisco il significato di “contro” o “di fronte” e modifico la parola alla quale sono premesso in senso, diciamo “battagliero”: antidroga (“contro” la droga); anticostituzionale (“contro” la costituzione). La cittadinanza greca (antì) è quella che preferisco, per la verità, in quanto mi offre la possibilità di sbizzarrirmi con un numero di parole pressoché illimitato. Dimenticavo di dire, però, che non debbo essere confuso con il latino “ante” il quale, in alcune parole, per “legge linguistica” muta la desinenza “e” in “i”: antibagno, anticamera. Per essere estremamente chiari, insomma, quando acquisisco la cittadinanza greca sono sempre Anti: anticomunista (“contro” il comunismo); allorché assumo la cittadinanza latina posso essere ora Ante ora Anti: antefatto (“prima” del fatto); anticamera (“prima” della camera).

Ciò che mi preme sottoporre alla vostra attenzione, gentili amici, ed ecco il motivo della lettera aperta, è il fatto che non gradisco essere attaccato alla parola che precedo tramite il trattino. La cosa mi manda letteralmente in bestia. Il prefisso, qualunque prefisso, si unisce direttamente alla parola. Coloro che scrivono anti-inflazione, per esempio, dovrebbero scrivere, per coerenza linguistico-ortografica, “ante-nato”; “anti-patia”; “anti-papa”. Non vi pare? Pedanteria? No, semplice ragionamento.

E sempre a proposito del mio uso corretto – e dell’uso del prefisso in genere – mi piace ricordare a coloro che, come me amano la lingua, che mi manderanno in visibilio se avranno l’accortezza di ricorrere alla crasi ogni volta che ciò è possibile. Ma cos’è questa crasi? Molti, forse, sentono questo termine per la prima volta. La crasi, dunque, è la fusione di due parole in una, in modo che l’ultima vocale della prima parola si unisca alla prima dell’altra; è, in parole povere, la fusione di due suoni vocalici in uno: medievale per medioevale; fuoruscito per fuoriuscito. Negli esempi sopra citati la vocale “o” di medio si è fusa con la vocale “e” di evo; la “i” di fuori si è fusa con la “u” di uscito. Tutte le persone che intendono rispettare le norme grammaticali devono attenersi alla crasi, come raccomandano i maggiori glottologi.. Scrivete, dunque, antitaliano, non “antiitaliano” o, peggio ancora “anti-italiano”. Lo stesso discorso vale anche per i miei colleghi prefissi che preferiscono la crasi là ove è possibile: filoisraeliano è meno elegante della forma “crasica” filisraeliano; filindiano è più bello di filoindiano. La crasi, insomma, dà ai vostri scritti un tocco di classe. E io alla classe ci tengo.

Ringraziandovi sentitamente della vostra cortese attenzione, vi porgo i miei più cordiali saluti. Il vostro amico

Ante

***

Gentili amiche e cortesi amici, sedetevi comodamente in poltrona e procuratevi un cardiotonico (ne avrete senz'altro bisogno) prima di aprire il collegamento che vi segnaliamo.



***
Per la serie "la lingua biforcuta..."




-----------------

 Forse è il caso di "ricordare" ai titolisti che Sabaudia è una cittadina del litorale pontino (Latina), non romano.
-------
L'orrore geografico è stato emendato. Che i redattori si siano imbattuti in questo sito?

*
Sempre sulla "lingua biforcuta della stampa"

Centocelle, in fiamme un autodemolitore 
nube nera sul quartiere e 3 feriti

---------------------------
Correttamente: Un'autodemolizione


Dal Treccani (non da chi scrive):
autodemolizióne s. f. [comp. di auto-2 e demolizione]. – Propr., demolizione di autoveicoli (vecchi o inservibili); comunem. il termine viene usato, per lo più al plur., per indicare officine o centri che provvedono alla raccolta e alla demolizione (con eventuale riutilizzazione delle parti ancora valide) di autoveicoli in disuso.

autodemolitóre s. m. [tratto da autodemolizione]. – Chi esercita il mestiere, o comunque opera nel settore di attività dell’autodemolizione.

Ma non finisce qui. Sempre lo stesso quotidiano scrive: È la terza volta che uno sfasciacarrozze, nell'ultimo mese e mezzo, prende fuoco [...]. Speriamo che il poveretto non abbia riportato gravi ustioni.

Sempre dal Treccani:
fasciacarròzze s. m. e f. [comp. di sfasciare2 e carrozza], invar. – Nell’Italia centr., chi acquista autoveicoli fuori uso per demolirli e rivenderne i rottami e le parti ancora utilizzabili come pezzi di ricambio; equivale a demolitore di auto o autodemolitore.


Ancora:

 Nonostante il tetto ai compensi introdotto nel 2014 lo stipendio dei mandarini italiani è superato solo dagli australiani. Intanto una pioggia di ricorsi blocca la pubblicazione dei patrimoni.

-------------------

In lingua italiana il termine "mandarino" - come fa notare il Treccani - è adoperato per lo più in senso spregiativo.

 mandarino1 s. m. e agg. [dal port. mandarim, alteraz. del malese mantri, a sua volta dal sanscr. mantrin- «consigliere»]. – 1. s. m. a. Termine usato un tempo dagli stranieri per designare i funzionarî civili e militari dell’Impero cinese: la casta dei mandarini. b. Per estens., con riferimento ad altri paesi e in senso per lo più spreg., personaggio potente e influente, e in partic. alto funzionario che vorrebbe conservare e far valere a ogni costo i privilegi più esclusivi della sua carica. 2. agg. Lingua mandarina, espressione con cui era indicato il principale dialetto della Cina, parlato a Pechino e in gran parte del paese; durante l’Impero fu lingua burocratica e letteraria, usata dalla corte e dai mandarini.



----------------------------------------------------------------------------------

AVVISO



Nei mesi di luglio e agosto, per motivi non dipendenti dalla nostra volontà, questo portale sarà "aggiornato" saltuariamente. Ci scusiamo con le amiche e con gli amici che seguono con assiduità le nostre modeste noterelle e auguriamo loro una serena estate.