venerdì 24 marzo 2023

Le seti e le fami? Sì, non fanno una grinza (come usa dire)


Dal sito "linkiesta.it":

Non presentano il plurale i nomi astratti (coraggio), nomi di minerali (zolfo), nomi di malattie (varicella), nomi di prodotti alimentari (latte), nomi collettivi (prole), nomi come fame, sete.

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Sì, i nomi cosiddetti di massa (non numerabili) sono invariabili, non si possono pluralizzare, cioè, perché sono, per l'appunto, "non numerabili". Ma non è il caso di "fame" e "sete" (per non parlare di "latte": oggi ci sono vari tipi di latte; il sostantivo, pertanto, si può pluralizzare normalmente). La fame e la sete, dunque, possono prendere la normale desinenza del plurale: le fami e le seti. Vediamo, in proposito, il "parere" dei vocabolari che abbiamo consultato per quanto attiene al sostantivo fame. Il De Mauro, il Devoto-Oli, il Palazzi e il Treccani non specificano, il che lascia intendere che il termine in oggetto si può pluralizzare; il Garzanti, il Gabrielli e l'Olivetti attestano il plurale: le fami; per lo Zingarelli e per il DOP il plurale è raro. Solo il Sabatini Coletti (tra i vocabolari consultati) non pluralizza il sostantivo in esame. Quanto al plurale di sete non specificano il De Mauro, il Devoto-Oli, il Garzanti, il Palazzi, il Treccani, il DOP e lo Zingarelli, quindi si... pluralizza; attestano chiaramente il plurale il Gabrielli e l'Olivetti: le seti. Per il Sabatini Coletti è solo singolare. Diciamo e scriviamo, quindi, "le fami" e "le seti" senza tema di essere ripresi da qualche linguista "dissidente". 

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La lingua "biforcuta" della stampa

ISLAM

Ramadan, come funziona il digiuno osservato da un quarto del mondo

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In buona lingua: da un quarto della popolazione del mondo.

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IL LUTTO NELL'ARTE

Il pittore Franco Donati muore pochi giorni prima l'inaugurazione della mostra

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Sempre in buona lingua: prima dell'inaugurazione.

 

  

(Le immagini sono riprese dalla Rete, di dominio pubblico, quindi. Se víolano i diritti d'autore scrivetemi; saranno prontamente rimosse: fauras@iol.it)

giovedì 23 marzo 2023

Verbi "strani"

 


Come imparammo a suo tempo, a scuola, i verbi italiani si dividono in tre coniugazioni.  Appartengono alla prima i verbi il cui infinito presente finisce in "-are" (amare); alla seconda quelli il cui infinito finisce in "-ere" (credere); alla terza, infine, i verbi che terminano in "-ire" (sentire). 

     Alcuni, però, hanno una terminazione particolare in quanto si discosta da quella delle tre coniugazioni;  sono  verbi, che chiameremo "strani", il cui infinito presente finisce in "-arre", "-orre" e "-urre". Tra questi i piú comuni sono "trarre", "porre" e "condurre".  Come classificarli, dunque? A quale coniugazione appartengono? Tutti e tre alla seconda perché sono le forme contratte del latino "tràhere" (trarre), "pònere" (porre) e "condúcere" (condurre). 

    
A questi bisogna aggiungere "fare" e "dire" - entrambi appartenenti alla seconda coniugazione, nonostante qualche grammatico ("saccente") dissenta - perché anch'essi sono le forme sincopate dei verbi latini "facere" e "dicere". Qualche osservazione, ora, sui verbi (sempre della seconda coniugazione) "tacere", "piacere" e "giacere". 

    
I suddetti verbi, dunque, presentano una particolarità che la maggior parte delle grammatiche non riportano: il raddoppiamento della consonante "c" - nonostante il tema o radice ne contenga una sola - in alcune persone del congiuntivo e dell'indicativo. Perché, dunque, questo raddoppiamento improprio? La motivazione è "storica" e va ricercata nel fatto che il nostro idioma è un "miscuglio" di dialetti. La prima persona plurale del presente indicativo e congiuntivo di 'tacere' (ma anche di 'giacere' e 'piacere') - noi tacciamo - ha subíto l'influenza del dialetto meridionale che - al contrario di quello settentrionale, veneto in particolare - tende al raddoppiamento delle consonanti. Si dica e si scriva, dunque, noi 'tacciamo' nell'accezione di "fare silenzio", nessuno potrà essere 'tacciato' (accusato) di ignoranza linguistica, anzi...

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La parola proposta da questo portale, non a lemma nei vocabolari dell'uso: burugliare. Verbo che sta per "fare rumore", "fischiare", "sibilare" e simili.


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mercoledì 22 marzo 2023

Qualche cosa e qualcosa: il loro uso corretto


 Alcuni vocabolari classificano ‘qualcosa’ di genere femminile, altri di genere maschile, altri ancora di ambi (sic!) i generi. Vediamo un po’ di fare chiarezza. Intanto è un pronome indefinito ed è la forma contratta (o sincopata)  di ‘qual(che)cosa’ e per il suo valore indeterminato è considerato di genere neutro, quindi maschile (in italiano): qualcosa è stato fattoqualcosa non è andato per il verso giusto. In grafia univerbata, come forma contratta di qualche cosa, è preferibile, dunque, consideralo sempre di genere maschile. Sarà tassativamente femminile, invece, in grafia analitica (scissa) (cosa, infatti, è di genere femminile): qualche cosa è stata fattaqualche cosa non è andata per il verso giusto. In una parola sola (univerbata) gli alterati, che sono di genere femminile: qualcosinaqualcosettaqualcoserellaqualcosellinaqualcosuccia.


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Sapete perché...

... la pietanza si chiama così?
Perché è un piatto che - nei secoli passati - si dava ai poveri per... pietà.

... la persona che cambia facilmente pensieri e propositi si dice volubile?
Perché – in senso figurato – può ruotare, girare, quindi cambiare (parere). Volubile è, infatti, il latino volubile(m), derivato di volvere (girare intorno, volgere) e, per tanto, mutevole, incostante.
Lo stesso volume inteso come libro, in origine, non era anch’esso un rotolo (di papiro) che si... avvolgeva? E una cosa che si avvolge, che ruota non... cambia?

... la scarsella, cioè la borsa in cui un tempo si riponeva il denaro, ha questo nome?
Perché viene proprio da scarso. È facile capire il significato ironico dato a quella piccola borsa che conteneva pochissimo denaro o addirittura nulla se il possessore era un mendicante.


 

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martedì 21 marzo 2023

Scendiletto e copritavolo: due pesi e due misure


S
aremmo veramente grati alla Redazione del vocabolario Treccani (in rete) se ci spiegasse per quale  motivo di carattere morfologico il suddetto vocabolario riporta il sostantivo "scendiletto" variabile (gli scendiletti) al contrario di "copritavolo" (i copritavolo), invariabile. Eppure ambi (sic!) i nomi composti sono formati da una voce verbale e da un sostantivo maschile singolare e i nomi così composti prendono la regolare desinenza del plurale. Perché, insomma, scendiletto "rispetta" la legge grammaticale e copritavolo no?

Treccani:

scendilètto s. m. [comp. di scendere e letto2] (pl. -i o invar.).

copritàvolo s. m. [comp. di coprire e tavolo], invar.

 

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La lingua "biforcuta" della stampa

L'accordo

Il Pantheon diventa a pagamento: biglietto da 5 euro per entrare nella basilica. Romani esclusi

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A pagamento si diventa? Senza parole!

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LO STUDIO

Il raffreddore comune dà ai bambini l’immunità contro il Covid

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Si è immune/i da qualcosa, non contro qualcosa. Correttamente: immunità dal Covid.



 

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domenica 19 marzo 2023

Sugli "i" e sugli "u" che accento ci va?


 Un lettore (abituale?) del nostro portale ha scritto questo commento in calce all'articolo "Il dizionatore":

Ma Cruscate non è quel sito di lingua italiana dove si scrive le i con l'accento acuto? E fu in quel sito che molti anni addietro, signor Raso, Le risposero che il dizionario inverso Giuliano Merz era inutile, giusto? Treccani: Nel caso in cui la vocale finale sia a, i, u, l’accento è per convenzione sempre grave, anche se la pronuncia non è né aperta, né chiusa: libertà, sarà, partì, colibrì, però, menabò, più, tabù.

Italianista

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Caro "italianista", si firma tale ma non lo è affatto! Se fosse un italianista doc saprebbe perfettamente (anche consultando i vari testi di fonetica, o fonologia, se preferisce) che le vocali "i" e "u" hanno un unico suono e per "convenzione linguistica", checché ne dica il Treccani, l'accento è acuto. Sempre da "italianista" avrebbe dovuto scrivere, correttamente, "... di lingua italiana dove SI SCRIVONO le i ...". Ma tant'è. Quanto a Giuliano Merzt è un docente universitario e se ha scritto il "Dizionario inverso" ci sarà stato un motivo. Per finire le segnalo questo articolo riguardo all'accento sugli u e sugli i.

 

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Spartitraffico: si pluralizza?

Tutti i vocabolari consultati attestano il sostantivo "spartitraffico", che indica - come si legge nel De Mauro in rete - una «linea bianca o struttura rialzata che divide una strada in diverse corsie convogliando il flusso del traffico», invariabile. Anche in questo caso - come in "malalingua" - non capiamo proprio la ragione per la quale non si può/possa pluralizzare. Nelle strade non ci sono numerose linee bianche o strutture rialzate che separano le corsie? Non ci sono, quindi, "piú" spartitraffici? Ma a parte questo "ragionamento", il sostantivo in oggetto non appartiene alla schiera dei nomi composti di una voce verbale (spartire) e di un sostantivo maschile singolare (traffico)? E i nomi cosí composti non prendono la regolare desinenza del plurale? Attendiamo gli strali dei soliti linguisti "d'assalto". Dimenticavamo: il DOP, Dizionario di Ortografia e di Pronunzia, riporta il plurale specificando, però, che è meno comune. Secondo chi scrive il sostantivo in oggetto dovrebbe restare invariato solo in funzione aggettivale: barriere spartitraffico.


 

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venerdì 17 marzo 2023

Il "dizionatore"

 


Segnaliamo alle amiche e agli amici di questo portale "Il Dizionatore", per una corretta pronuncia (ortoepìa). Potrebbe essere utile, sebbene per il sito "Cruscate" non sia molto affidabile.


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La lingua "biforcuta" della stampa

LITORALE LAZIALE

Sabaudia, il mare vip di Totti e Malagò senza chioschi e ombrelloni: via alla revoca delle concessioni ai balneari

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In lingua italiana la congiunzione correlativa con "senza" è "né". Correttamente, quindi, senza chioschi ombrelloni.

 

I nostri libri












 

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mercoledì 15 marzo 2023

Un po' di grammatica "spicciola"

 


Alcuni testi grammaticali classificano il verbo "struggere", forma aferetica di distruggere, fra quelli difettivi, privo, cioè, di participio passato e quindi dei tempi composti. No, amici, il participio passato - anche se di uso raro esiste (insieme, ovviamente, con i tempi composti coniugati con l'ausiliare avere): strutto. Con uso figurato sta per "tormentarsi" per il dolore, il desiderio, la nostalgia ecc.

I pronomi personali soggetto "canonici", vale a dire "egli", "ella", "essa", "essi", "esse"  - forse non tutti lo sanno -  devono essere sostituiti obbligatoriamente, secondo i dettami della legge grammaticale, dai fratelli "lui", "lei", "loro" in alcuni casi.
Vediamoli succintamente:
    1) quando il pronome personale soggetto è in funzione di predicato: se io fossi stato lui (non egli) mi sarei comportato diversamente; 
   2) dopo "neppure", "anche", "neanche", "nemmeno", "pure": neanche loro (non essi o esse) erano a conoscenza del problema;
   3) nelle esclamazioni: beato lui (non egli)!;
   4) nelle proposizioni in cui risulta evidente una contrapposizione fra persone: tu piangi, lui ride!;
   5) dopo le congiunzioni "come" e "quanto", ossia nei complementi di paragone: siamo scioccati quanto loro;
   6) quando il verbo della proposizione è rappresentato da un gerundio o da un participio: uscito lui, è tornata la calma;
   7) quando il pronome personale si trova fra "ecco" e il pronome relativo "che": ecco lei che si ritiene la bellezza personificata! ;
   8) quando il pronome personale ha una funzione di rilievo, e in questo caso si pone dopo il verbo: mi faccia la cortesia, glie lo (sic!) dica lei!;
    9) in alcuni costrutti ellittici del verbo: chi ha parlato? Lei.

Crediamo di fare cosa gradita ai gentili lettori, che seguono le nostre modeste noterelle, spendere due parole su una… parola che può essere tanto avverbio quanto sostantivo: dintorno. Quando è in funzione avverbiale, con il significato di “intorno”, “da ogni parte”, “tutto in giro”, si può anche scrivere con la “d” apostrofata (d’intorno): gli sedevano tutti dintorno/d’intorno per festeggiarlo. Quando, invece, è in funzione di sostantivo e vale “vicinanza”, “luogo vicino”, la grafia deve essere tassativamente univerbata e si usa, per lo piú, nella forma plurale: i dintorni di Roma; il mio amico abita nei dintorni.



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martedì 14 marzo 2023

Burro: quale plurale?


C
i siamo imbattuti, casualmente, nel sito "Grammatica italiana" e abbiamo scoperto che non si può fare il plurale di burro in quanto "nome di massa". Ci spiace ma dissentiamo totalmente. Burro si può pluralizzare normalmente. Il plurale si trova in numerose pubblicazioni. Vediamo, in proposito, il "verdetto" dei vocabolari consultati. Dizionario Olivetti: burri; Sabatini Coletti: non specifica (quindi si pluralizza); Garzanti: burri; De Mauro: non specifica (quindi si pluralizza); Gabrielli: non specifica (quindi si pluralizza); Sapere-Virgilio: burri; DOP: non specifica (quindi si pluralizza); Palazzi: non specifica (quindi si pluralizza); WordReference.com (Dizionario della lingua italiana - Le Monnier): burri; Devoto-Oli: non specifica (quindi si pluralizza); Treccani: non specifica (quindi si pluralizza); Zingarelli: non specifica (quindi si pluralizza). Alla luce dei su citati vocabolari possiamo dire, pertanto, "i burri", senza tema di essere tacciati di ignoranza.

 

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La lingua "biforcuta" della stampa

PROVINCE

OSTIA

Vandali distruggono l'antico Luna Park: rubato il sogno dei bambini a due passi dal mare

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OSTIA

Violentata a 16 anni dai cugini del fidanzato. La procura: "Processate il calciatore e il pugile"

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Non c'è nulla da fare! I responsabili di questo quotidiano romano (che "fa opinione", a detta di alcuni) nonostante le prove, fornite tempo fa, insistono nel ritenere il quartiere litoraneo di Roma un comune a sé stante. Le notizie del quartiere sono, infatti, attestate sotto la testatina "province". A questo punto sarebbe interessante conoscere il nome del primo cittadino di questo fantomatico comune italiano.



  

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