martedì 31 dicembre 2019

La riffa...


In occasione della fine dell'anno riproponiamo un nostro vecchio intervento sull'«origine linguistica» della riffa.


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La lingua "biforcuta" della stampa

Da un "autorevole" quotidiano in rete:

Cosenza, il prefetto Paola Galeone indagata per concussione: mazzetta da 700 euro

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Correttamente: la prefetta. "Sapere.it" (De Agostini): Il femminile regolare di prefetto è prefetta, e così si può chiamare una donna che eserciti il ruolo di prefetto. Alcuni preferiscono però chiamare anche una donna prefetto, al maschile. Si tratta di una scelta che non ha basi linguistiche, ma sociologiche, e che comunque può creare, nel discorso, qualche problema per le concordanze. Infatti: il prefetto (…) 'indagata'. Si veda anche qui.

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mercoledì 25 dicembre 2019

Buone Feste

Questo portale augura un felice Natale e un sereno anno nuovo a tutti gli amatori della meravigliosa lingua italiana.

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giovedì 19 dicembre 2019

Papa Francesco e l' "influencer di Dio"


Il numero XXI - 2019 della "Rivista italiana di linguistica e di dialettologia" ospita un articolo di Salvatore Claudio Sgroi, dell'Ateneo catanese: «Papa Francesco e l' "influencer di Dio"».

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lunedì 16 dicembre 2019

Avviso





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venerdì 13 dicembre 2019

Grammatico e linguista


Riproponiamo un vecchio intervento con il quale cerchiamo di spiegare la differenza che intercorre tra il grammatico e il linguista. Accontentiamo, cosí, il cortese lettore Massimo C. di Carbonia.

  I profani, coloro che non sono addetti ai lavori - come usa dire - ritengono che grammatico sia sinonimo di linguista e viceversa. In linea generale non hanno torto, anche se - come vedremo -  c’è una piccola sfumatura nel significato dei due termini.
     I vocabolari che abbiamo consultato non aiutano a capire questa sfumatura; alle voci in oggetto recitano: «grammatico, studioso di grammatica»; «linguista, studioso di lingua (o linguistica)». Al lemma grammatica leggiamo: «l’insieme delle norme che regolano la lingua». A questo punto è più che legittimo ritenere che grammatico e linguista siano termini concatenati tra loro e, quindi, sinonimi.
     Le cose, però, non sono così semplici. Per carpire la notevole differenza tra il grammatico e il linguista occorre considerare la lingua, di volta in volta, da due punti di vista diversi. Ora da quello normativo -  «è bene scrivere così» - Paolo Bianchi e non Bianchi Paolo; ora da quello storico-comparativo, seguendo i vari mutamenti che nel corso dei secoli hanno subito alcuni gruppi di parole e cercando di spiegarne i motivi storici, appunto.
     Il primo punto, il normativo, è quello che di regola si prefiggono i grammatici e i compilatori dei vocabolari: raccomandare certe forme e certi costrutti a preferenza di altri. Ordinando il buon uso i grammatici sono - con le dovute eccezioni - molto conservatori: le parole nuove sono, in genere, snobbate e biasimate esplicitamente.
     Particolarmente rigorosi, potremmo dire morbosamente attaccati alle norme, sono stati due secoli fa i così detti puristi. La loro morbosità, il loro attaccamento alle norme, procurò a quei valentuomini l’epiteto, ora scherzoso ora dispregiativo, di linguaioli.
Il secondo punto, il comparativo, è di pertinenza esclusiva della linguistica (o glottologia, i due termini hanno press’a poco lo stesso significato). La glottologia si rifà ai metodi maturati -  due secoli or sono - nello studio scientifico delle lingue, vale a dire il metodo comparativo e la concezione storica.
     Il glottologo (o linguista), insomma, osserva un particolare fenomeno linguistico (e lo compara con altre lingue): che l’aggettivo pronominale o possessivo, per esempio, di terza persona loro è invariabile. Una volta stabilito questo dato di fatto, cerca di darsene una spiegazione prendendo a confronto le forme più antiche, le voci dialettali, comparandole con le forme di altre lingue sorelle o affini.
     Il metodo storico ci permette di vedere come alcune forme etimologicamente errate si siano saldamente radicate nell’uso e siano da considerare, quindi, perfettamente in regola con la legge della lingua. Il metodo storico, insomma, dà ragione ai portabandiera del detto l’uso fa la lingua. Un esempio?
     Quando nel latino parlato — durante il periodo di transizione dalla lingua classica a quella volgare -  per formare il participio passato di debere, dovere, i parlanti hanno cominciato a dire debutum (donde l’italiano dovuto), invece della forma corretta debitum, hanno imposto l’uso scorretto che è diventato…  corretto. Hanno fatto un po’ come i bambini che dicono, per esempio, romputo e non rotto.
     Mentre oggi, però, in casi come questi, i genitori e la scuola correggono l’errore, negli ultimi secoli dell’Impero, ma soprattutto nel Medio Evo, questa reazione non c’è stata, o per lo meno non abbastanza vigorosa, e il latino ha dato luogo alle lingue neolatine e alle forme scorrette convalidate dall’uso.
     Abituati, per tanto, a esaminare fenomeni di questo tipo, i glottologi (o linguisti) hanno finito con l’assumere un atteggiamento d’indifferenza nei confronti della lingua: a considerare, per l’appunto, semplici cambiamenti quelli che i grammatici (in special modo i puristi) considerano delle vere e proprie corruzioni linguistiche.
     I grammatici, insomma, sono essenzialmente conservatori; i linguisti, invece, stanno alla finestra: indifferenti che l’uso antico prevalga sul nuovo o viceversa. Per concludere, è giusta questa distinzione di ruoli, questa separazione netta fra i due punti di vista? Non crediamo, perché come insegna il vecchio adagio latino in medio stat virtus.
Il rigore assoluto dei grammatici va temperato dalla giusta considerazione che tutte le lingue con il mutare delle generazioni cambiano anch’esse.
Viceversa non bisogna prendere alla lettera il punto di vista storico, vale a dire l’indifferente storicismo che la linguistica, e con questa i glottologi, potrebbe incoraggiare.
Anche per i linguisti e i grammatici dovrebbe esserci -  per il bene della lingua - un incontro sulla via di Damasco.

mercoledì 11 dicembre 2019

Montare in bigoncia

Riproponiamo questo modo di dire perché abbiamo avuto una discussione di carattere linguistico con un nostro conoscente,"operatore dell'informazione", il quale non ha perso tempo ed è salito subito in bigoncia. 

Sapete perché si dice e cosa significa “montare o salire in bigoncia”? L’espressione fa il paio con quella piú conosciuta e adoperata, “salire in cattedra”, vale a dire fare il saccente, pretendere di insegnare tutto a… tutti. 
     Il modo di dire, vecchiotto, per la verità, ‘chiama in causa’ la bigoncia perché anticamente era il pulpito (o la cattedra) dal quale si parlava nelle università e nelle accademie. 
     La locuzione, anche se ‘stantía’, dovrebbe essere nota agli amici blogghisti toscani, visto che a Firenze è in uso – se non cadiamo in errore – la variante “favellare in bigoncia”.
     Aggiungiamo – da parte nostra, e a costo di essere tacciati di presunzione – che il detto calza a pennello ai soloni della carta stampata e no: pretendono di sapere tutto, soprattutto in fatto di lingua. 
     Non sanno, poverini, che molto spesso, per non dire sempre, la loro lingua è “biforcuta” e fa a pugni con la grammatica italiana e, a volte, anche con il buon senso (linguistico). E a proposito di buon senso (o buonsenso) abbiamo notato, con stupore, che il vocabolario Garzanti lo pluralizza.


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Tallonare

Siamo certi di non avere «l'approvazione» dei cosí detti linguisti d'assalto perché condanniamo l'uso del verbo "tallonare" in quanto è un gallicismo derivato dal francese talonner.  Ma tant'è. La nostra lingua è ricca di verbi "endogeni" che fanno alla bisogna, secondo i casi: incalzare, urgere, stare alle calcagna, inseguire, pressare, pedinare, rincorrere.

martedì 10 dicembre 2019

Perché "fauna" e perché "flora"?


Tutti conosciamo il significato di fauna e di flora, se non altro basta aprire un qualsivoglia vocabolario della lingua italiana, il Devoto-Oli, per esempio e leggere: «Fauna, il complesso delle specie animali proprie di un determinato ambiente o territorio»; «Flora, il complesso delle piante spontanee o largamente coltivate in un determinato territorio». 
     Ma donde derivano questi nomi? Vediamolo assieme. 
     La fauna è pari pari il latino Fauna, nome della figlia di Faunus (Fauno), genio benefico delle campagne, dei monti e del bestiame. Questo genio era venerato soprattutto dai pastori, che lo ritenevano dio del gregge in quanto allontanava i lupi. Era raffigurato con orecchie appuntite, piedi di capra e corna. 
     Anche flora è il latino Flora, nome di una dea che i nostri antenati Romani veneravano come regina della primavera e di ogni fiore (latino florem), quindi di tutte le piante.


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La lingua "biforcuta" della stampa

ll mezzo, linea 708 ha preso fuoco in via Vinicio Cortese, nella periferia sud ovest. Il conducente aveva fatto scendere l'unico ospite. Non si segnalano feriti né intossicati

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Da quando coloro che usano i mezzi pubblici si chiamano "ospiti" e non piú passeggeri?

domenica 8 dicembre 2019

Ancora sul femminile dei sostantivi che indicano le professioni

Nonostante le raccomandazioni della prestigiosa Accademia della Crusca, i grandi "dicitori" radiotelevisivi e i grandi "scrittori" della carta stampata continuano, imperterriti, a bombardarci di strafalcioni linguistici tipo la ministro. Noi non ci stancheremo mai di condannarli. La sola forma corretta è la ministra. Vediamo, dunque, come si forma il femminile ortodosso.
     Le parole terminanti in -o, -aio/-ario mutano in -a, -aia/-aria: architetta, avvocata, chirurga, commissaria, ministra, prefetta, primaria, sindaca.
     Le parole terminanti in -sore mutano in -sora: assessora, difensora, evasora, revisora.
     Le parole terminanti in -iere mutano in -iera: consigliera, portiera, infermiera.
     Le parole terminanti in -tore mutano in -trice: ambasciatrice, amministratrice, direttrice, ispettrice, redattrice, senatrice.
     I sostantivi terminanti in -e/-a non mutano, ma chiedono l'anteposizione dell'articolo femminile: la custode, la giudice, la parlamentare, la presidente, la ciclista.
Come sopra per i composti con il prefisso capo-: la capofamiglia, la caposervizio
     Le forme in -essa vengono conservate solo per quelle cristallizzate da tempo: dottoressa, professoressa.  Non diremo, quindi, la "presidentessa", l' "avvocatessa" e simili. Per quanto attiene ai sostantivi maschili 

in "-e" diventano femminili  cambiando solo l'articolo: il giudice / la giudice. 
     Quelli in "-o" prenderanno la desinenza "-a" del femminile: il deputato / la deputata, il ministro / la ministra, il soldato / la soldata. Interessante ciò che dice il Treccani circa il suffisso "-essa".


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Due parole sul complemento di distanza perché non tutti i "sacri testi" lo riportano. Il complemento di distanza, dunque, lo dice la stessa parola, indica la... distanza che intercorre fra due persone o fra due cose. Si costruisce direttamente, senza l'ausilio di una preposizione. È introdotto dal verbo "distare" o dall'espressione "esser lontano": la scuola dista (è lontana) cinquecento metri dall'abitazione di Francesco. Adoperato in posizione assoluta richiede, tassativamente, la preposizione "a": la chiesa è a pochi metri dalla casa di Luigi.

sabato 7 dicembre 2019

Libri "utili"

Libri che possono dissipare dubbi orto-sintattico-grammaticali:

Scaricabile dalla Rete, gratuitamente, cliccando qui.

giovedì 5 dicembre 2019

Le parole della neopolitica


Un articolo di Michele Cortelazzo pubblicato sul sito della Treccani.

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Simile e dissimile

Si presti attenzione a questi due aggettivi perché si costruiscono in modo diverso. Il primo significa "analogo", "quasi uguale", "somigliante" e richiede la preposizione "a" (semplice o articolata): il tuo orologio è simile al mio; a volte acquisisce il significato di "siffatto", "tale": non avrei mai pensato a un simile (siffatto) gesto. Il secondo significa "diverso", è composto con il prefisso "dis-" (che indica 'negazione') e si costruisce con la preposizione "da" (semplice o articolata): il tuo comportamento è dissimile (diverso) da quello di tuo fratello.

mercoledì 4 dicembre 2019

Il polisemico presepio

Cominciamo con il dire che si può... dire tanto presepe quanto presepio; la prima è forma prettamente aulica (presepe). Forse non tutti sanno, però, che questo termine oltre a indicare la rappresentazione della nascita di Gesù Cristo ha anche altri significati, che riprendiamo dal Treccani in rete: dal lat. praesepium o praesepe «greppia, mangiatoia», comp. di prae- «pre-» e saepire «cingere, chiudere con una siepe (lat. saeps saepis)»]. – 
     1. a. Propriam. (ma ant.), la stalla o la mangiatoia in essa situata: Vattene, agnello pieno di talento, Caro al presepio e al capo dell’armento (Giusti); anche in senso fig., con sign. affine a quello fig. di greppia: i fuchi, ingorde bestie e pigre Che solo intente a logorar l’altrui, De le conserve lor si fan presepi (Caro). In partic., secondo il Vangelo di Luca (2, 6-16), la mangiatoia ove fu deposto Gesù alla sua nascita, e insieme la grotta in cui essa si trovava: in poveri Panni il Figliol compose, E nell’umil presepio Soavemente il pose (Manzoni). 
     b. Nell’uso com., rappresentazione plastica della nascita di Gesù che si fa nelle chiese e nelle case, nelle festività natalizie e dell’Epifania, riproducendo scenicamente, con figure formate di materiali vari e in un ambiente ricostruito più o meno realisticamente (talora anche anacronistico), le scene della Natività e dell’Adorazione dei Magi: fare, preparare il p.; le figurine del p.; un p. in cartapesta, in terracotta, in legno dipinto; un p. di ceramica faentina; un p. napoletano del Settecento; l’iconografia bizantina del p.; p. animato, in cui è dato movimento alle figure mediante congegni meccanici; p. vivente, in cui agiscono persone vere che rappresentano la scena della Natività. Più genericam., ogni rappresentazione iconografica della nascita di Cristo. 
     2. Nel culto di Mitra, lunga panca, simile a una mangiatoia, che si stendeva lungo le pareti della sala ipogea di culto; anche, denominazione delle varie recinzioni della sala stessa. 
     3.Negli stabilimenti industriali, prima che venissero istituite le camere di allattamento e gli asili nido, locale in cui durante le ore lavorative venivano accolti e custoditi i bambini lattanti delle operaie. 
     4. In astronomia, nome (nell’uso pop. anche greppia o mangiatoia) di un ammasso stellare visibile a occhio nudo come una grossa nebulosa, situato tra le stelle delta e gamma della costellazione del Cancro.

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Il plurale di girotondo?  Girotondi


Sarebbe interessante conoscere i motivi che hanno indotto Francesco Sabatini e Vittorio Coletti ad attestare - nel loro vocabolario - come invariabile il sostantivo girotondo. È l'unico dizionario - tra quelli consultati - che non ammette il regolare plurale girotondi. Mistero eleusino. Il sostantivo in oggetto, secondo la "legge grammaticale", si pluralizza normalmente perché è un nome composto di un sostantivo maschile singolare (giro) e un aggettivo (tondo). Esiste anche il plurale, raro, giritondi.

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La lingua "biforcuta" della stampa

Boom monopattini ecologici ma fuorilegge

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Non abbiamo l'avallo dei vocabolari e dei linguisti "doc", ma a nostro avviso fuorilegge, in questo caso, va scritto in due parole: fuori legge. I monopattini non sono dei banditi o dei fuorilegge. Sono "veicoli" fuori (della) legge, vale a dire illegali.


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Al Gran galà irrompe Ferrero: l'urlo da ultrà dopo il gol della sua Samp
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Correttamente: gran gala (senza l'accento sulla "a"). DOP, Dizionario di Ortografia e di Pronunzia:







martedì 3 dicembre 2019

La pazienza: si ha o si porta?


Il verbo portare significa - se consultiamo un qualsivoglia vocabolario - reggere, trasportare, indossare, recare, tenere e simili.
     Molto spesso, però, per contaminazione del francese, si usa come verbo tuttofare in luogo di verbi piú appropriati quali, per esempio, avere, sentire, dimostrare, serbare, prestare, indurre: portare odio, portare rispetto, portare pazienza.
     In buona lingua italiana si dirà: serbare odio, mostrare rispetto, avere pazienza. Si sentono e si leggono anche frasi tipo portare avanti una rivendicazione, portare avanti un discorso, portare avanti una lotta, portare una strategia e simili. Sono frasi, queste, non errate ma prive di buon gusto.
Il nostro idioma è ricco di altri verbi piú appropriati e piú incisivi atti a esprimere il medesimo concetto, ovviamente caso per caso. Vediamone qualcuno: sviluppare, promuovere, proporre, sostenere, condurre ecc.
     Nelle frasi su riportate diremo meglio, quindi: sviluppare (non portare avanti) un discorso; seguire (non portare) una strategia; condurre (non portare) una lotta.

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 L'angiarro

 Gli amici lettori che seguono le nostre noterelle, con molta probabilità, non si saranno mai imbattuti nel termine sopra citato.
     Il vocabolo, infatti, non è registrato nei comuni vocabolari non essendo un termine schiettamente italiano ma un arabismo entrato nella nostra lingua. Lo registra il Tommaseo-Bellini,  però. Ma cosa significa? Lo "domandiamo" allo stesso Tommaseo.

domenica 1 dicembre 2019

L'accattapane (mendicante) si pluralizza?

I vocabolari che abbiamo consultato (De Mauro, Devoto-Oli, Garzanti, Treccani, Palazzi, Olivetti, "Sapere.it") all'unisono attestano il sostantivo accattapane (cioè il mendicante, l'accattone, il pezzente) tra i nomi invariabili: l'accattapane / gli accattapane. No, il sostantivo in oggetto si pluralizza normalmente: gli accattapani. Perché ? Perché appartiene alla schiera dei nomi composti formati con una voce verbale e un sostantivo maschile singolare. I nomi cosí composti, dunque, prendono la normale desinenza del plurale: passaporto / passaporti; parafango / parafanghi; accattapane / accattapani. È composto, infatti, con il verbo accattare ('chiedere con insistenza') e il sostantivo pane. Resterà invariato solo se riferito a un femminile: Lorella e Vanessa sono proprio delle accattapane. Ma: Luigi e Giuseppe sono degli accattapani. Saremo lieti di condividere con il Gabrielli  gli eventuali  strali che dovessero arrivarci dai linguisti "ufficiali". Il dizionario Tommaseo-Bellini sembra darci ragione. La forma plurale, accattapani, si trova in alcune pubblicazioni ottocentesche.


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Appena - avverbio e congiunzione che riguarda un'azione già compiuta e conclusa. È scorretto, o per lo meno improprio, l'uso con un futuro semplice perché l'azione ancora non è stata compiuta e conclusa. Non diremo, per esempio:  "Ti telefonerò *appena arriverò" ma "ti telefonerò quando arriverò" (non appena sarò arrivato).

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"In questione", "essere in questione", "porre in questione" espressioni adoperate con le accezioni di cui si tratta, si parla, trattarsi, trattare, a nostro modesto avviso sono dei gallicismi da evitare in buona lingua italiana. Diremo correttamente, quindi, l'argomento di cui si parla... (non l'argomento in questione). Ma tant'è.


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La parola proposta da questo portale e non a lemma nei vocabolari dell'uso: smelia. Sostantivo femminile con il quale si indica una donna smorfiosa, saputella, saccente.


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La lingua "biforcuta" della stampa

Urne aperte fino alle 23. Alle 12 affluenza al 7,3%. È la quinta volta che i cittadini scelgono se dividere l'amministrazione: l'ultima non ci fu il quorum e per tre volte vinse il no
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Correttamente: nell'ultima.


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Abu Dhabi, a Hamilton l'ultimo Gp. Secondo Verstappen, la Ferrari di Leclerc è terza ma sub judice

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Correttamente: sub iudice (con la "i" normale). Nel  latino classico non esisteva la "J". Treccani: sub iudicesub i̯ùdiče› locuz. lat. (propr. «sotto il giudice»), usata in ital. come avv. Si veda anche qui.

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Coloro che ravvisino strafalcioni orto-sintattico-grammaticali (e "concettuali") in articoli giornalistici possono inviarli a questo portale (fauras@iol.it). I testi "incriminati" saranno pubblicati ed esposti al pubblico ludibrio.