martedì 28 gennaio 2020

Osservazioni sull'uso corretto di alcune locuzioni della lingua italiana


Tutti i vocabolari consultati non contemplano il plurale di assolo (lo Zingarelli ammette le due opzioni: -lo e -li). Il DOP, oltre a registrare il plurale, fa un distinguo che riteniamo interessante e, quindi, da seguire.

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Ancora una volta ci preme ricordare che il verbo “arricchire” si costruisce con le preposizioni “di” o “con”. I “dicitori” dei notiziari radiotelevisivi assieme ai colleghi della carta stampata, imperterriti, continuano a utilizzare la preposizione “da”, che, ripetiamo, è scorretta inducendo, quindi, in errore gli ascoltatori e i lettori sprovveduti in fatto di lingua.

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Forse non tutti sanno (i sacri testi trattano l'argomento?) che molti avverbi diventano preposizioni quando sono preposti al sostantivo. Vediamone qualcuno: dentro (dentro la stanza), sopra, fuori, sotto, dopo, prima, dietro, davanti, senza, eccetto, presso ecc. È bene ricordare, inoltre, che una preposizione composta di piú parole si chiama modo prepositivo o locuzione prepositiva: per mezzo di..., insieme con, in luogo di ecc.

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Buonasera, come si sa, è un sostantivo femminile ed è una formula di augurio e di saluto. Diventa di genere maschile, però, se si sottintende il saluto: amici cari, vi preghiamo di accogliere il nostro piú cordiale buonasera.

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Ciò che stiamo per scrivere sarà censurato dai soliti gramuffastronzoli perché siamo contraddetti dai vocabolari dell'uso (tutti?), ma abbiamo dalla nostra parte il DOP. Intendiamo parlare dell'avverbio e sostantivo maschile "affondo". I vocabolari consultati non ammettono la grafia analitica "a fondo". Questa scrizione, invece, è "piú corretta" quando il vocabolo in questione è adoperato in funzione avverbiale: voglio studiare a fondo la questione. Come sostantivo si pluralizza normalmente: gli affondi. Il vocabolario Gabrielli, stranamente, lo ritiene invariabile.

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Quanto stiamo per scrivere - siamo certi - non avrà l’ «approvazione» di qualche linguista che dovesse imbattersi, per caso, in questo sito. Comunque...
Il sostantivo femminile “pena” che, a seconda del contesto, può significare “castigo”, “punizione”, “sanzione”, “tormento”, “compassione” ricorre in numerose locuzioni “francesizzanti” che in buona lingua andrebbero evitate, anche se “immortalate” negli scritti di autori classici. Vediamole. “Prendersi la pena di...” o “Darsi la pena di...”: Giovanni si dia la pena di rispondermi al piú presto. In buona lingua meglio: Giovanni si prenda la briga di (o locuzioni simili) rispondermi al piú presto; “Aver pena a...”: Luigi non avrà troppa pena a fare quel lavoro. Molto meglio: Luigi non avrà troppa difficoltà a fare quel lavoro; “Valer la pena di...”: Vale la pena di ignorare tutto ciò che dice. In lingua sorvegliata si dirà: Conviene, è meglio ignorare tutto ciò che dice; “A pena di...”: I trasgressori sono soggetti a pena di multa. Meglio: I trasgressori sono soggetti a una multa.

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 I sostantivi scrittoio e scrivania - anche se i vocabolari ci smentiscono - non sono l’uno sinonimo dell’altro; non si “potrebbero”, quindi, adoperare indifferentemente. Il primo termine indica lo studio, la stanza, cioè, dove si scrive. Deriva, infatti, dal tardo latino “scriptorium”, di qui l’italiano antico “scrittorio”. Lo “scriptorium”, dunque, era la sala del convento dove i frati amanuensi copiavano i manoscritti. La scrivania, invece, indica il tavolino, la tavola, il mobile per scrivere ed è un denominale provenendo da “scrivano”, il “tavolino dello scrivano”. Dovremmo dire, per tanto, volendo essere particolarmente pedanti, rispettando l'etimologia, “che il dr Pasquali si è recato nello scrittoio per prendere gli occhiali dimenticati sulla scrivania”.

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 A costo di attirarci le ire di qualche “linguista d’assalto” (e ce ne sono a iosa), vogliamo mettere in evidenza il fatto che - a nostro modo di vedere - gli aggettivi “adeguato” ed “equo”, nonostante la stretta parentela etimologica, non si possono considerare “perfettamente” sinonimi. Adopereremo l’aggettivo adeguato quando sta per “proporzionato”: occorre dargli un risarcimento adeguato (proporzionato) al danno subíto. Useremo “equo” quando quest’aggettivo significa “giusto”, “ragionevole”: tutti, per il loro lavoro, hanno diritto a un’equa (giusta) retribuzione. Scriviamo queste noterelle perché abbiamo letto, su un giornale locale, che “gli avvocati hanno chiesto al tribunale di dare una pena equa all’atrocità del delitto”. Ancora ridiamo.

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La lingua "biforcuta" della stampa

Caso sospetto a bordo: seimila crocieristi bloccati sulla nave in porto a Civitavecchia
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"Piú corretto": croceristi (senza la "i"), per la "legge" del dittongo mobile.


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"No, non sono Meghan Markle", storia di una sosia che non voleva essere famosa

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Correttamente: un sosia (un, anche riferito a una donna). Vediamo, in proposito, ciò che scrive il linguista Aldo Gabrielli:
«Quante volte ho sentito frasi come queste: ‘Anna è la sosia di sua madre’, ‘Quell’attrice non è certo la sosia della Garbo’, parlando di due persone che si somigliano come due gocce d’acqua o non si somigliano affatto. E tutte le volte mi vien da dire: che erroraccio! Erroraccio perché? Ma perché sosia è un nome maschile, e maschio ha da restare, anche se da nome proprio una trasformazione l’ha già fatta diventando nome comune. Infatti questo Sosia, per chi non lo ricordasse, è il nome del servo di Anfitrione, nella famosa commedia di Plauto (…). Nella commedia plautina accade che un giorno Mercurio, mandato sulla terra da Giove, assumesse l’identico aspetto di Sosia, allo scopo di giocare alcune beffe diciamo piccanti all’infelice Anfitrione. Questo soggetto fu poi ripreso dal Molière nella commedia intitolata appunto ‘Amphitryon’, e il nome del servo, divenuto subito popolarissimo in Francia, da proprio si trasformò in comune, venendo a indicare persona somigliantissima a un’altra al punto da essere scambiata con questa. Noi riprendemmo il termine dal francese in questa accezione figurata verso la metà dell’Ottocento. Ma sempre come maschile, si capisce. Perciò dobbiamo dire ‘il sosia’, nel plurale ‘i sosia’, sia con riferimento a uomo sia con riferimento a donna. Non possiamo dare a Sosia una sorella dello stesso nome! Diremo quindi correttamente ‘Anna è il sosia di sua madre’, ‘Quell’attrice non è certo il sosia della Garbo’. Stona quel maschile accostato a un femminile? Ma stona forse dire ‘Anna è il ritratto, il doppione, il modello, lo stampo di sua madre? (…)».

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Ecco un verbo che pochi vocabolari dell'uso attestano: salamistrare. Che cosa significa? Fare il saccente, il saputello. Qui la coniugazione completa.




Scaricabile dalla rete, gratuitamente, cliccando qui.









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sabato 25 gennaio 2020

Sgroi - 36 - Gli Errori ovvero le "regole nascoste"


di Salvatore Claudio Sgroi *

         0. Cos'è l'errore
         Come ci è capitato più volte di sostenere, l'Errore è in primo luogo a) un uso linguistico, variamente diffuso generato da una Regola del parlante spesso inconscia, non sempre invero di facile identificazione da parte dello stesso linguista. L'Errore è nel contempo b) un uso, giudicato negativamente, in base a criteri, condivisibili o meno, che vanno però esplicitati e che non possono essere confusi con l'identificazione della Regola che ha generato tale uso.
        L'Errore in quest'ottica non è quindi un uso "sgrammaticato" ma un uso, giudicato negativamente sotto il profilo della "norma corretta", con una sua grammatica, da scovare.
         Ci proponiamo qui alla luce di tale definizione di analizzare come esercizio tre diversi tipi di "errori" al fine di evidenziarne la Regola inconscia che li ha prodotti e i criteri di valutazione alla base del giudizio di sanzione.
                   
            1. Esempio n. 1: Errore di concordanza
           In un bell'articolo giornalistico di uno storico della lingua dedicato all'ortografia, ci è capitato di leggere la seguente frase:
           "Diversamente interpunte, le due frase esprimono concetti diametralmente opposti, sono una il contrario dell’altra", -- con un evidente errore di concordanza (correttamente: "le due frasi").
            I giudizi di valore al riguardo possono essere diversi. Si tratta:
            a) di un "refuso" del tipografo,
            b) di un refuso nel file dello scrivente (più probabile, invero, del refuso del tipografo, vista la prassi della digitalizzazione dei propri articoli da parte di un autore),
            c) di ignoranza crassa dello scrivente (SE STUDENTE),
            d) di una "svista-lapsus" dello scrivente (SE PROF) (due pesi, in questo caso, e due misure).

 1.1. Normativamente: Errore popolare(ggiante)
           Si tratta certamente sotto il profilo normativo di un "errore" morfologico ("blu"), anche se non compromette la comprensione del testo, perché è tipico delle scritture popolari, dei semi-colti, che si configura come "popolareggiante" se presente occasionalmente, in scritti di utenti colti.

 1.2. Regola-1 (strutturale) e Regola-2 (dell'adiacenza)
           Tradizionalmente si direbbe che l'errore è dovuto all'ignoranza della Regola canonica [R-1] dell'accordo strutturale (il plurale dei nomi terminanti in -e è infatti in {-i}).
           Da un altro punto di vista, però, c'è da chiedersi quale sia la Regola-2 [R-2] che ha generato l'errore in questione con l'apparente invariabilità al plurale del termine frase. Il contesto mostra che si tratta di una regola definibile "sintagmatica" o "dell'adiacenza": le due -e precedenti in L-e du-e fras-e hanno determinato automaticamente, per attrazione, la scelta di -e anche in fras-e.

 2. Esempio n. 2: vs se stesso
           Secondo una regola scolastica tradizionale, il pronome (tonico) <sé> va accentato (con segnaccento acuto) per distinguerlo dalla congiunzione (atona) <se>, come altri omografi monosillabi (per es. l'avv. là vs l'art. la, ecc.), mentre nel sintagma <se stesso> (<se medesimo>); il segnaccento sul pronome non è più necessario, non essendo più confondibile con la congiunzione, senza dire che il pronome <se>; è diventato atono come proclitico: fonologicamente [ses'stesso].
          La [Regola-1a] alla base di tale grafia è una regola grafo-morfemica o grafo-semantica, che oppone cioè il pron. (<sé>) alla cong. (<se>).
           Va anche rilevato che il segnaccento su <> tonico ma non su <se stesso> [ses'tesso] atono è coerente con la regola ortografica generale dell'italiano che prevede obbligatoriamente il segnaccento sulle parole tronche (o ossitone), per es. bont-à, perch-é/ahim-è, fin-ì, per-ò, laggi-ù.
           Normativamente, si tratta poi di un uso corretto perché adoperato nelle scritture colte.
           (Inaccettabile quindi il giudizio del Garzanti-Patota 2013 per il quale <se stesso> "può anche, se pur meno correttamente, essere scritto senza l'accento").

 2.1. Sé(stesso)
           Luca Serianni nella sua istituzionale grammatica dell'italiano (1988, 19972) ha -- logicisticamente -- ritenuto la tradizionale [Regola-1a] ( vs se stesso) "senza reale utilità", una "inutile eccezione", e successivamente (2006) "una regoletta inutile e fastidiosa", da sostituire con l'unica forma con segnaccento: sé (stesso) [Regola-2].
          La [Regola-2] <sé(stesso)>è quindi una regola logicistica, suggerita da un'esigenza di "economia grafica".
          Sotto il profilo normativo, tale uso è corretto perché adottato in sedi colte, in alternativa all'uso della regola [Regola-1a].


        2.2. < vs se stesso> [ses'tesso]; <di se stesso> ['dise s'tesso]
        Per conto nostro invece, va ancora sottolineato che dal punto di vista fonologico, in particolare della fonologia metrica, il segnaccento in <sé stesso> [della Regola-2] ha il grave inconveniente di suggerire una duplice accentazione nel sintagma in questione ['ses 'tesso], con due accenti tonici contigui, che creano uno "scontro accentuale", da cui l'italiano con tante altre lingue rifugge (cfr. M. Nespor 2003 Fonologia, il Mulino pp. 242-57; M. Nespor - L. Bafile 2008, I suoni del linguaggio, il Mulino, pp. 194-97).
          Lo scontro accentuale è superato deaccentando "sé" nel sintagma trisillabico "se stesso" [ses'tesso]. E nel caso dei sintagmi preposizionali quadrisillabici "di/a/da/in/con/su/per/tra/fra se stesso" spostando l'accento nella sillaba precedente ['di ses'tesso] ecc. e creando così una valle accentuale.
          Sicché la grafia tradizionale <se stesso>, a parte la tradizionale opposizione grafo-morfologica [Regola-1a], sotto il profilo fonologico ha dalla sua una duplice motivazione fono-grafica e fono-ritmica.
           È infatti al tempo stesso anche una [Regola-1b] grafo-fonetica perché oppone il pron. tonico al "se" pron. diventato atono in [ses'tesso] in quanto proclitico, senza segnaccento perché appunto atono. Ed è  inoltre una [Regola-1c] grafo-ritmica perché non suggerisce alcuno scontro accentuale.

 3. Esempio n. 3: Errore onomastico        
           Nell'intervento del 17 gennaio nella sua rubrica "Lezioni d'italiano" del magazine 7 del "Corriere della Sera" G. Antonelli cita “le 3000 parole nuove di OSVALDO Lurati”, ricordato nel volumetto sui Dizionari di V. Della Valle (che fa parte della bella serie di testi da lui ideata sul lessico italiano, settimanalmente pubblicati dal menzionato "Corriere").
           L'autore delle 3000 parole nuove è però in realtà Ottavio Lurati non già "Osvaldo".
           Una svista, un "lapsus" di Antonelli o di Della Valle? Un riscontro (un pò pignolo) consente di escludere la correità di Della Valle. 
           La [Regola-1] alla base dell'uso istituzionale (corretto) "Ottavio Lurati" è quella anagrafica-bibliografica. Ma quale sia la [Regola-2] inconscia che ha generato la forma onomastica errata "Osvaldo" è impossibile da dire, se non chiedendo allo stesso Antonelli, o a uno psicanalista che col metodo delle libere associazioni sappia rivelare il meccanismo che ha agito nel subconscio dell'A.
           Formalizzando, come divertissement, si potrebbe scrivere: Ottavio: "Regola-1 ana-biblio-grafica" VS Osvaldo: quale "Regola-2 inconscia"? Sotto il profilo normativo l’errore del prenome può essere “grave” in quanto percepito dall’interessato come (parziale) negazione della sua identità.
           Concludendo, i tre ess. abbastanza diversi tra di loro condividono la proprietà comune di essere degli errori, riconducibili al meccanismo di una Regola soggiacente, da scovare ed esplicitare, con esiti diversi.


* Docente di linguistica generale presso l'Università di Catania

giovedì 23 gennaio 2020

Una menagrama? Per carità!...


Menagramo (che significa "iettatore"), come riportano i vocabolari, è un sostantivo invariabile, cioè si può riferire tanto a un uomo quanto a una donna: Giulio è un menagramo; Sofia è una menagramo. In alcune pubblicazioni "moderne"  si trova il femminile "menagrama". Chi ama il bel parlare e il bello scrivere si attenga a quanto riportano i vocabolari e aborrisca l'orrendo  e scorretto femminile "menagrama".



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La lingua "biforcuta" della stampa

Locri, 237 denunce per redditi di cittadinanza 'illeciti': tra i beneficiari possessori di Ferrari, ville e detenuti


Oltre 870mila euro di fondi pubblichi sono finiti a chi non aveva alcun diritto a percepire aiuti e sussidi: tutti denunciati

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Correttamente: beneficiati (hanno ottenuto un beneficio). Fondi pubblici. Diritto di meglio che "diritto a".

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Beneficiario e beneficiato - anche se i vocabolari attestano i due termini l'uno sinonimo dell'altro è consigliabile fare un distinguo: beneficiario, colui che può godere di un beneficio; beneficiato, colui che gode o ha goduto di un beneficio: Pasquale sarà il primo beneficiario del/dal provvedimento; Silvano è un beneficiato dal/del provvedimento.

 

lunedì 20 gennaio 2020

Complemento di pena o di colpa?


Da domande e risposte del sito Treccani:

Vorrei cortesemente sapere se nella frase "È stato condannato a dieci anni di carcere per frode", l'espressione "a dieci anni" è un complemento di pena o un complemento di pena più attributo. In altre parole, in detta frase l'aggettivo "dieci" ha valore di attributo? Grazie.

Risposta degli esperti

A dieci anni, nelle grammatiche per le scuole, si dà come complemento di colpa (ovviamente in dipendenza da un verbo come condannare). Su un altro piano, non confliggente, sta l’analisi logica, che nel sintagma preposizionale a dieci anni individua dieci aggettivo numerale come attributo del nome anni.

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Dissentiamo recisamente sulla risposta data dagli esperti. Siamo in presenza di un complemento di pena [pena: dieci anni di carcere]. Il complemento di pena è introdotto da un sostantivo retto da verbi che esprimono l'idea di condanna o di punizione (condannare, multare, punire ecc.) ed è preceduto, generalmente, dalla preposizione "a". Si riconosce perché risponde alle domande sottintese  "a quale pena?", "a che?" [a quale pena è stato condannato? A dieci anni di carcere]. Il complemento di pena, dunque, è totalmente diverso dal complemento di colpa che, come dice la stessa parola, indica la colpa di cui una persona è accusata. Dimenticavamo: il verbo condannare è "proprio" del complemento di pena, non di colpa [come nella risposta degli esperti].

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L'orrore è stato emendato in seguito alla nostra segnalazione (e senza ringraziamenti…).


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domenica 19 gennaio 2020

L'invito di Giorgetti della Lega: "Tornare al mattarellum!" Il mattarellum? ma cos'è?


Dal dott. Claudio Antonelli riceviamo e pubblichiamo

  La "Leopolda" non è il nome di una casa di tolleranza, ma è l'ex stazione ferroviaria di Firenze dove Matteo Renzi raduna periodicamente la sua corte.

Il campo della riforma elettorale è denso di conati legislativi battezzati con un linguaggio non certo degno di un parlamento. Abbiamo ad esempio il Mattarellum (1993), dal nome del suo relatore: Sergio Mattarella. Vi è poi il celebre "Porcellum" (2005), marchingegno elettorale ideato da Roberto Calderoli e il cui nome evoca il Satyricon, i banchetti di Trimalcione e i lupanari della Suburra. Su di esso sono stati versati fiumi d'inchiostro e di liquame, senza che il comune dei mortali (incluso il sottoscritto) sia mai arrivato a capirci qualcosa.  Nel 2007 il Pd propose una legge elettorale, concepita dal politologo Salvatore Vassallo. Essa non fu approvata. Il feto fu comunque solennemente battezzato nel circo felliniano come "Vassallum". "Italicum" sembro' per un momento restituire una certa dignità al linguaggio dei politici grazie alla sua assonanza con "Imperium" e "Romanum". Ma fu solo un'illusione da nostalgici della grandezza di Roma e del fascio littorio. Il giudizio dei giuristi fu invece categorico e  mando'  tutto allo sfascio: “Italicum peggio del Porcellum!”. Nelle stanze del potere, degli inciuci e delle ammucchiate, si  procreo' quindi il "Democratellum", sistema di preferenze che, nato anch'esso morto, ando' a ingrossare l'alta pila di aborti legislativi in materia di riforma elettorale.

Le porcate sono all'ordine del giorno nella politica italiana e nel suo vocabolario. Quello dei politici è un gergo ammiccante da addetti ai lavori che si fanno sberleffi e versacci, sghignazzano e si giocano tiri mancini. Il gergo degli addetti ai lavori, per questo carattere fortemente  popolaresco, potrebbe dare per un attimo l'illusione della democrazia diretta. Una democrazia, invece, non tanto diretta quanto "di retto", quindi non alla maniera svizzera, ma romanesca.

È una babele linguistica in cui si agitano professoroni e guitti uniti dal linguaggio all'altezza di questa Italia da saltimbanchi. Siamo al livello di una "animal house" alla John Belushi, formato Trastevere. Ma occorre riconoscere che grazie a questo linguaggio da suburra il popolo ha l'illusione di essere entrato nella stanza dei bottoni. Peccato che un tal linguaggio, pieno di latinismi anzi di "latrinismi", lo avvicini solo a dei bottoni di braghetta...

A Napoli ci si serve dell'espressione "E' gghiuta a pazziella ‘mmane e’ criature", ossia "È finito il giocattolo in mano ai bambini" per indicare "l'uso inopportuno di una cosa di valore lasciata nelle mani di un incapace." Vi risparmio la variante molto piu' volgare del detto.

Queste pagliacciate linguistiche che riguardano un problema serio, chiave della democrazia: il sistema elettorale, dovrebbero farci piangere. Invece sollazzano un po' tutti.

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mercoledì 15 gennaio 2020

Sgroi - 35 - Manualistica d'eccellenza: "L'italiano contemporaneo" di Paolo D'Achille


di Salvatore Claudio Sgroi *

  1. L'evento editoriale
Manuale pionieristico già nel 2003, riedito nel 2006 e nel 2010, senza contare varie ristampe, L'italiano contemporaneo di Paolo D'Achille appare ora aggiornato e ampliato anche nel formato in quarta edizione (il Mulino, pp. 280).

Un testo universitario di Linguistica italiana fruibile, in virtù della sua notevole leggibilità, per chiunque voglia, senza particolari conoscenze specialistiche, prendere consapevolezza dei problemi dell'italiano di oggi. Un manuale "d'eccellenza", che introduce il lettore alla conoscenza ordinata e sistematica della lingua italiana di oggi, ma in maniera critica, senza banalizzazioni o appiattimenti della problematica.

Destinato agli studenti universitari il manuale è anche corredato di circa 130 Esercizi di verifica con domande e risposte multiple e chiave degli esercizi alla fine del volume.

Una ricca bibliografia ragionata, pur selettiva (pp. 263-70), garantisce scientificamente il contenuto del volume e fornisce nel contempo indicazioni per ulteriori approfondimenti.

L'Indice analitico (pp. 273-79) dei tecnicismi, passibile di inevitabili integrazioni, rende il manuale anche un'opera di puntuale consultazione. Auspicabile resta l'indice, se non dei nomi propri, delle parole e degli esempi variamente discussi a fondamento delle nozioni teoriche della disciplina.

 2. Tematiche del manuale
Il vol. è articolato in 11 capp. Il cap. I su "La lingua italiana oggi" riguarda il problema della sua collocazione nel "repertorio verbale" o "linguistico" italiano rispetto agli altri idiomi ("dialetti primari" [p. 197] e parlate alloglotte) col supporto di una Carta linguistica. E quindi traccia una caratterizzazione tipologica dell'italiano, dell'italiano standard (letterario), con una presentazione della sua 'architettura' ovvero della sua variabilità, sul piano diamesico (scritto-parlato-trasmesso con l'e-italiano), diacronico, diatopico (italiani regionali o "dialetti secondari" [p. 197] vs italiano standard (letterario) e it. neostandard o medio), diastratici (italiano popolare), diafasico (registri formali/informali, sottocodici, linguaggio giovanile).

Il cap. II è dedicato alla "Onomastica", toponomastica e antroponomastica, tradizionalmente trascurata nella manualistica.

La parte centrale del vol. riguarda l'analisi relativa a: (cap. III) "Lessico", (IV) "Fonetica e Fonologia", (V) "Morfologia flessiva", (VI) "Morfologia lessicale" ovvero formazione delle parole, (VII) "Sintassi", (VIII) "Testualità".

Nei restanti capp. si ritorna alle varietà dell'italiano analizzandole sotto il profilo del canale di comunicazione: (cap. IX) "Le varietà parlate" (it. reg., it. neostandard, it. pop., it. dei giovani), (X) "Le varietà scritte" (it. letterario, prosa scientifica, saggistica, it. giuridico, burocratico, giornalistico, scritture esposte, it. delle canzoni, dei semicolti) e (XI) "Le varietà trasmesse" (mass media, telefono, pubblicità, internet, stampa on line, posta elettronica, chatlines, sms, messaggeria istantanea, social network).

 3. Approccio descrittivista, non puristico 
Da bravo storico della lingua (e linguista) D'Achille ben sa che "In generale, le innovazioni della nostra lingua non vanno valutate negativamente, anche perché il mutamento linguistico rientra nel normale divenire storico" (p. 255). L'approccio prevalentemente sincronico dell'analisi dell'italiano è perciò privo di tentazioni (neo)puristiche, presenti in altri storici della lingua.

Così per es. il piuttosto che col valore di 'oppure', dialettalismo di origine settentrionale (milanese), è ormai un 'ex-regionalismo' e indicato come tratto del "neostandard" (p. 202), per altri invece "ambiguo" e "improprio", ovvero non solo un «errore», ma «una stupidaggine», anzi un es. di «corruzione dell'italiano».

Descrittivista, si direbbe, anche riguardo all'uso nell'area meridionale (peraltro "non esclusivo") di verbi intrans. adoperati transitivamente come scendi il cane, esci la valigia (p. 204).

E ancora "i partitivi dei-degli-delle, ormai accettati anche dopo le preposizioni" (p. 112), per es. è uscito con dei compagni di classe, passava per delle strade, anche vado da degli amici, è stata assalita da dei rapinatori" (p. 112), con degli amici (p.33).

A livello fonologico l'assenza del segnaccento è individuata quale meccanismo della diffusione della pronuncia sdrucciola o piana di nomi stranieri etimologicamente tronchi, per es. Islam, mignon, Benetton, ecc. (p. 101).

 3.1. Usi stigmatizzati (it. pop.)
L'etichetta  "errori" (p. 228) è invece riservata all'"italiano popolare" (pp. 206-207, 227-30), marcato diastraticamente verso il basso (pp. 166-67), ovvero italiano "dei parlanti semicolti", per es. più migliore (p. 228), "forme improprie" vadi, stasse (p. 229), se saresti tu al mio posto, faresti la stessa cosa (ibid.); vadi, dasse dei "parlanti meno istruiti" (p. 126) ecc. Tra i "fattori diastratici" ci sono elementi detti 'marcatori' che sono propri solo delle fasce più basse" (p. 201). L'uso dell'ausiliare avere con i verbi pronominali per es. mi ho fatto un vestito nuovo è "marcato [...] come popolare" (p. 190). Nell'"italiano substandard e popolare" (p. 110) rientrano gli ess. un fans, un murales, gli euri, le dieci euro; "grafie come ciò, cianno, ciaveva ecc. non sono considerate accettabili (la prima, oltre tutto, coincide con quella del pronome ciò)" (p. 119).

Così nel caso della relativizzazione "nei registri più spontanei e informali, o nei livelli di lingua diastraticamente più bassi" (p. 166), per es. posso dirlo a Luigi che ci esco spesso insieme (ibid.), ovvero "relativizzazioni impossibili o difficili secondo il modello standard" (p. 167), es. Mario, che lui e suo figlio sono arrivati ieri sera, ci vorrebbe venire a trovare (ibid). O anche la donna che ho conosciuto suo marito l'anno scorso (p. 193) del parlato non standard.

Come "fenomeno esclusivamente parlato, specie popolare" (p. 191) è etichettata la "frase foderata" o "struttura a cornice" es. non ci sono più andato non ci sono.

Tra i "malapropismi" (p. 230) da segnalare discrezionalità 'discrezione' (p. 229), che invece nel linguaggio giuridico, documentato nel 1911, vale 'potere discrezionale' (De Mauro 2000).

A livello ortografico, "decisamente sanzionate come errori" sono le grafie stò, stà, fà, quà (p. 212); "e anche "; invero il sintagma (fonologicamente tronco) <un pò> rientra nel neo-standard, presente com'è presso scriventi colti.  "Viene spesso disattesa" si ricorda "Anche la regola scolastica che considera errore l'apostrofo" (p. 213) in qual'è (invero elisione e non apocope, dell'italiano neo-standard, nessuno dicendo "*di qual ragazza parli?", e peraltro in uso presso scriventi colti).

 3.1.1. Italiano popolare in regresso?
Rispetto ad "alcuni [che] considerano ormai una varietà quasi 'residuale' nell'attuale repertorio linguistico italiano" l'italiano dei semicolti, D'Achille puntualizza che "a nostro parere è meno raro di quanto si pensi" (p. 228) e "infatti ha raggiunto àmbiti nuovi quali la posta elettronica, i social e soprattutto la messaggistica sui cellulari" (ibid.), riprendendo il precedente cenno alla "recente emersione di questa varietà ["delle fasce meno istruite della popolazione", "italiano dei semicolti"] nel trasmesso" (p. 206).

 Rispetto a chi ottimisticamente sostiene che "l'italiano popolare è ormai uscito dal repertorio italiano" (p. 230), ribadisce opportunamente che "l'assenza di testi contemporanei in italiano popolare potrebbe essere solo apparente: anzitutto negli ultimi decenni, infatti, i semicolti sono divenuti sempre più spesso produttori di testi di tipo burocratico-amministrativo (con conseguenze facilmente immaginabili sul piano della chiarezza e della coerenza dei testi redatti); inoltre, la loro presenza è stata colta (...) perfino nelle nuove forme di scrittura in rete" (p. 230).

 3.2. Punteggiatura
Quanto alla punteggiatura (p. 181), si ricorda l'uso della virgola "tematica", dopo un soggetto "pesante" o "espanso", prescritta a scuola, ma che "non è affatto rara", es. Le circostanze che abbiamo ricordato già in tante occasioni<,> ci inducono alla prudenza. Non si accenna invece alla stessa virgola tematica con soggetti 'leggeri', per es. la carta, brucia; il professore, spiegò con molta chiarezza senza mai fermarsi (che altri giudicano "grammaticalmente non corretta").

 3.3. "Prestiti" o "forestierismi", "angli(ci)smi" e calchi
Quanto ai "prestiti" o "forestierismi" (pp. 61, 66, 70-75, 146, 110) o "parole straniere" (pp. 62, 92, 205), o "esotismi" (pp. 70,73) o stranierismi, o doni stranieri, in particolare degli "angli(ci)smi" (p. 73) o "anglismi" (pp. 62, 74), nonché "calchi" di diverso tipo (p. 71), p.e. giovane ragazza (< ingl. young girl (p. 224), D'Achille sottolinea che essi sono dovuti al "prestigio" (pp. 61,74) e alla "superiorità" ed "egemonia" dell'angloamericano in campi diversi come lo sport, l'economia ecc.

E fa presente che la distinzione tradizionale, ─ logicistica ─, tra "prestiti di necessità e prestiti di lusso [...] non si regge dal punto di vista scientifico" (p. 61), anche perché "le parole straniere possono avere connotazioni diverse dalle corrispondenti voci italiane", così gay vs omosessuale (ibid.), news vs notizie (p. 74). Senza dire dei termini adottati da "i palazzi della politica", come stepchild adoption 'adozione del figlio del partner', care giver 'familiari assistenti', ecc. Alcuni stranierismi sono entrati peraltro, ─ ricorda ancora D'Achille (p. 63) con De Mauro 2014 ─, nel vocabolario di base dell'italiano (hobby, slogan, chat, spot, ok, okay, sexy, web, internet, cliccare, euro).

Epperò l'A. sottolinea anche che non è "affatto impossibile tradurre le parole inglesi" (p. 75), come "è stato dimostrato" da Giovanardi-Gualdo-Coco 20031, 20082. E, pur facendo egli parte del gruppo "Incipit", sensibile agli "anglismi incipienti" (p. 75) da sostituire (invero logicisticamente) "con parole o locuzioni più comprensibili e chiare" (ibid.), per es. hot spot 'centro di identificazione', smart working 'lavoro agile', non può non constatare che "le proposte avanzate solo raramente sono state accolte" (ibid.).

L'A. accenna anche al problema della sostituzione in blocco dell'italiano con l'inglese lingua internazionale: "Nel caso delle scienze 'dure' [...] bisogna invece rilevare come l'italiano sia oggi notevolmente insidiato dall'inglese, che è divenuto la lingua della comunicazione scientifica internazionale e che in certi settori sostituisce ormai largamente l'italiano nelle riviste scientifiche" (p. 221).

 3.4. Debolezze neopuristiche?
Qualche debolezza  neo-puristica affiora qua e là, per es. l'A. parla di "calchi passivi", nel caso di argomento invece di ragionamento, suggestione per suggerimento, evidenza per prova, non rari in [...] tipi di testo" propri delle 'scienze dure' (p. 221). Mentre l'aziendalese è "infarcito di anglismi" (p. 223).

Tra gli "errori" dell'it. pop. è inclusa l'accentazione persuàdere (p. 228), "ma pronuncia peraltro ─ egli riconosce ─ in estensione anche presso parlanti colti" (ibid.).

La pronuncia della parola macedonia Wikipedia "dovrebbe essere [vikipe'dia], [cioè pentasillabica] anche se oggi prevale quella inglese [wiki'pi:dja]" quadrisillabica (p. 245), ed è diffusa pure la pronuncia quadrisillabica più ortografica: [wiki'pe:dja] e [viki'pe:dja].

A proposito dei suffissati in "-ietà" (p. 136), si legge che il suffisso "si individua in esempi come complementarietà, interdisciplinarietà, che si sentono e si leggono spesso invece dei corretti complementarità, interdisciplinarità" (p. 136). Tali forme sono però documentate già alla fine '800 e all'inizio del '900 (1883 e 1929), e si tratta soprattutto di usi attestati in testi e scriventi colti.

Al "parlato substandard" (p. 189), e quindi normativamente errate, D'Achille riserva anche  forme analogiche quali intervenì 'intervenne' e soddisfava 'soddisfaceva', in cui il verbo non è più percepito come composto (inter-venire; soddis-fare) ma come semplice (interven-ire, soddisf-are); anche qui si tratta di forme invero attestate in testi e presso parlanti colti. Ma sono giudicate anche forme "indicative di nuove linee di tendenza" (p. 122) gli stessi ess. interven-ì, 'inter-venne', interven-irono 'inter-vennero', insieme con bened-iva 'bene-diceva' ("preferibile"), esig-ito 'esatto' (p. 123) e il retroformato redarre 'redigere' (ibid.).

 4. Il Congiuntivo 
D'Achille è lontano dalla fanta-grammatica del congiuntivo dipendente inteso come modalità o modo del dubbio, incertezza, un pregiudizio ancora duro a morire (pp. 124, 126, 164, 190, 215).

In più luoghi fa presente che "è il modo tipico delle frasi dipendenti, completive (voglio che tu ci venga, vorrei che tu venissi, credo sia vero), interrogative indirette (gli domandò se avesse freddo), relative limitative (cerco qualcuno che mi capisca), o introdotte da congiunzioni che selezionano appunto il congiuntivo, con valore concessivo, ipotetico, ecc." (p. 124).

Il congiuntivo "esprime dubbio o incertezza" (ibid.) solo nelle principali: venga!, entrino pure, non sia mai, volesse il cielo, magari fosse vero; "in grande espansione anche la sostituzione, di origine meridionale, del presente congiuntivo con l'imperfetto [...] in esortazioni, [...] (venisse pure!; partisse, una buona volta!; lo dicessero, se non vogliono venire) (p. 126).

Sotto il profilo normativo D'Achille osserva descrittivamente che "Il congiuntivo [...] tende a cedere il campo all'indicativo [...] nelle dipendenti completive e nelle interrogative indirette (penso che viene o verrà piuttosto che penso che venga; non sapevo chi era invece di non sapevo chi fosse) e nel periodo ipotetico ([...] se venivi ti divertivi)" (p. 190; e p. 125), se sapevo che l'esame era difficile studiavo di piú (p.33).

"Il congiuntivo ─ ribadisce più avanti sempre descrittivamente ─ è normalmente usato in molte frasi dipendenti e resiste anche nelle completive (penso che i fatti si siano svolti in questo modo), nelle interrogative indirette (non sapeva chi fosse arrivato), nelle relative limitative (cerco un collaboratore che conosca bene la situazione)" (p. 215).

E ancora specificando i contesti d'uso: "almeno in dipendenza dei verbi di opinione, nelle interrogative indirette e nelle relative restrittive, il congiuntivo cede sempre più spesso (soprattutto nel parlato, e specie nelle varietà regionali centromeridionali) il campo all'indicativo" (p. 126).

"Il congiuntivo ─ aggiunge D'Achille ─ è però ancora usato, nelle frasi subordinate, nel parlato sorvegliato" (p. 190); ovvero "il congiuntivo [...] è considerato il modo tipico della subordinazione, il cui uso è proprio dello stile accurato" (p. 164).

La sostituzione morfologica del congiuntivo con l'indicativo - precisa ancora - è stata determinata da "elementi di debolezza" strutturale (p. 126), cioè dalla scarsa "identità morfologica" delle diverse desinenze del cong. combinata con la scarsa "salienza fonologica" legata a una sola vocale (p.e. am-i-no; tem-a-no, veng-a-no).

 5. Regola d'adiacenza
Tra i fenomeni della "sintassi del parlato" D'Achille ricorda  "mancati accordi di genere [...] spesso dovuti all'attrazione di elementi frasali interposti (l'importanza dell'argomento è stato adeguatamente sottolineato" (p. 192). "Fra i tratti sintattici tipici del parlato televisivo si segnala la frequenza delle concordanze improprie come una parte del territorio è stato evacuato" (p.239). A voler definire tale Regola in positivo si potrebbe dire che si tratta di una "Regola-2 di adiacenza" sintagmatica, opposta alla "Regola-1" paradigmatica dell'accordo proprio dell'italiano standard.

 6. Fonologia vs ortografia
Dal manuale il lettore apprende che nell'articolazione fonologica della sillaba il fonema /s/ preconsonantico chiude la sillaba e non apre la sillaba successiva, così cos-ta, pris-ma (p. 96) "a dispetto dell'ortografia, che prescrive nell'andata a capo di dividere co-sta)" (ibid.). Il che consente di capire che l'errore grafico degli studenti si spiega con la interiorizzazione inconscia della [Regola-1] fonologica opposta alla [Regola-2] artificiale dell'ortografia, valida peraltro nell'ortografia italiana, ma non in quella inglese o francese.

 7. Uso meridionale? No, settentrionale, anzi pan-italiano
Con riferimento all'oggetto (o accusativo) preposizionale animato, tipico dell'italiano regionale e popolare meridionale (pp. 19, 191, 192, 229), D'Achille cita tra l'altro l'es. ricordati di chiamare a mamma (p. 192).

Invece in non guardare [in faccia a] nessuno (ibid.), diffuso anche in altre regioni, l'accusativo preposizionale è solo apparente, nessuno dipendendo dalla locuzione preposizionale in faccia a, come dimostra la variante invece regionalistica e marcata non guardare [a nessuno] in faccia.

Pan-italiano è altresì il costrutto con l'oggetto preposizionale in prima posizione, es. a lui, non l'ho visto! (p. 192), a me, non mi convince (ibid.), "interpretabile come 'quanto a me' non mi convince'" che D'Achille considera "proprio del neostandard" (ibid.), mentre il logicistico me non mi convince se non assente è decisamente letterario, così in Pirandello e in Verga. Lo Zingarelli 2020 sub me riporta l'es. "(enfat.) rafforz. di 'mi': Ma me non mi mangerete, no! (G. Verga [I Malavoglia 1881])". Frasi come Luigi non l'hai convinto vs a Luigi non l'hai convinto (p.192) entrambe ess. di dislocazione a sinistra dell'oggetto nominale mediante ripresa clitica, sono interpretabili la prima con oggetto nominale dislocato semplicemente tematizzato, la seconda invece con oggetto nominale dislocato enfatizzato, in quanto parafrasabile con 'Quanto a Luigi, non l'hai convinto'.

 8. "Eccezioni" teoriche?
Ogni teoria comporta inevitabilmente delle "eccezioni" interpretabili come problemi che la stessa teoria deve ancora risolvere, a non dover ricorrere a una diversa teoria per la loro soluzione. Ma "l'eccezione" può essere anche solo "apparente" se risolvibile in realtà all'interno della stessa teoria, che conserva quindi la sua validità.

Riguardo alla regola della Prefissazione" (pp. 138-39) secondo cui il prefisso non può determinare "un mutamento di parte del discorso rispetto alla base" (p. 138), D'Achille ricorda d'accordo con la vulgata che "l'unica eccezione è costituita da anti- 'contro', che premesso a nomi può formare aggettivi: squadra antidroga, maniglioni antipanico" (ibid.), antirughe (ibid.), test antidoping (p. 67), o fari antinebbia, ecc. L'eccezione costituisce invero sempre un 'tallone d'Achille' per una teoria, ma può essere superata interpretando con più coerenza il fenomeno, ovvero se anti- anziché prefisso è interpretato come "confisso" (p. 138) cioè "elemento formativo di origine greca" (p. 53) o anche "latina" (p. 131) ovvero "element[o] delle lingue classiche" (p. 142), che dà a luogo a "composti" esocentrici (p. 139), cioè senza testa, e "anti-droga" non è certamente 'una droga'. Al pari di sottotitolo (p. 142), che non è un titolo ma si oppone al titolo, così in un giornale il sottotitolo di un articolo non è il 'titolo' dell'articolo ma sta sotto il titolo dell'articolo.

D'Achille sottolinea altresì che prefissi e suffissi "costituiscono morfemi legati e non parole autonome" (p. 131) e poi che "mentre i suffissi non sono mai autonomi, taluni prefissi sono divenuti aggettivi o anche nomi (super, ex)" (p. 138). Anche qui l'eccezione dell'autonomia dei prefissi è solo apparente, perché ex s.m./f. è in realtà "abbreviazione" o "accorciamento" (p. 146) del prefissato ex-[marito/moglie], ex-[ragazzo]'. E analogamente super s.f. è abbreviazione di 'super[benzina]'. Così come auto s.f. non è un  confisso diventato s.f. ma accorciamento "da auto(mobile)" (pp. 143, 146), e analogamente auto s.m. "da auto(bus)".

Ancora: "diversamente da molti suffissi, ─ si legge ─ i prefissi si possono normalmente anteporre a parole appartenenti a parti del discorso diverse. Esistono però alcune eccezioni: per esempio il prefisso negativo s- si aggiunge ad aggettivi e a verbi (inizianti per consonante [...] s-contento, s-gelare, s-caricare) ma non a nomi" (p. 138). Anche in questo caso l'eccezione è presunta, c'è per es. s/conoscenza (nel De Mauro 2000 e in Zingarelli 2020).

A livello fonologico, "sono lunghe le vocali toniche in sillaba aperta" (p. 98), per es. /'a:mo/, /'ka:ne/, ma sono brevi le "vocali accentate finali di parola" cioè in sillaba aperta nelle parole tronche es. /per'ke/; il che sembrerebbe una eccezione. E sono ancora "brevi quelle toniche in sillaba chiusa" es. /'kar.ne/, /'kan.ne/ e "tutte le vocali atone" (p. 98). L'eccezione delle tronche brevi è solo apparente. In realtà, le parole tronche determinano il raddoppiamento fonosintattico, es. /per'kep.'parti?/ perché parti?, sicché con le parole tronche va ipotizzata la presenza di una consonante finale silente (più che una tendenza "naturale" p. 94) che si realizza assimilandosi alla consonante della parola successiva, chiudendo la sillaba pertanto con vocale breve: "perchéC + parte" [per'kep-'parte], sillaba tonica chiusa come in /'kar.ne/.

 9. Tipologia delle dipendenti
Sul modello tradizionale che distingue la principale "autonoma" (p. 163) dalla macroclasse delle "dipendenti" o "secondarie" o " subordinate" (ibid.), D'Achille inserisce il modello triadico più moderno distinguendo la principale "autonoma" (ibid.) rispetto alla dipendente con ess. di finale (con per + inf.), di causale (con siccome) e di relativa (con che), ─ dalla principale non autonoma se reggente "certe subordinate dette 'completive', la cui soppressione renderebbe la frase reggente priva di senso compiuto" (p. 164), con esempi di una interrog. indiretta (es. Giuseppe non sa se parteciperà al concorso) e di una oggettiva. (es. gli esperti non prevedevano che la situazione sarebbe diventata così critica).

Le "dipendenti" alla fine terminologicamente si distinguono in (i) "completive" (i.e. (s)oggettive e interr. indirette), o  "argomentali", (ii) "relative" di tipo limitativo/restrittivo (non eliminabili) senza virgola ed 'esplicative/appositive' (eliminabili), precedute dalla virgola (pp. 165-67, 181) e (iii) "circostanziali" o "avverbiali", il cui termine è tralasciato, per es. le gerundiali (p. 164), ecc.

 10. Dialettalismi: da "regionalismi" a ex-regionalismi e voci pan-italiane. E Regionalismi non dialettalismi
L'italiano regionale è l'italiano che risente dei dialetti a cui "si è sovrapposto, soprattutto sul piano fonetico e su quello lessicale" (p. 31).

"I dialettismi passano alla lingua per lo più attraverso l'importante mediazione delle varietà regionali, ─ sottolinea D'Achille ─ che quindi tendono ad adattarli al sistema fonosimbolico (e grafico) dell'italiano che non sono immediatamente riconoscibili dal punto di vista formale" (p. 76; cfr. anche pp. 66, 200). Così dialett(al)ismi o voci di origine dialettale quali pizza (p. 75), grissini, cassata, mafia (p. 76) o anche pagare il pizzo, si diffondono a livello pan-italiano perdendo la loro connotazione di regionalismi e diventando di fatto ex-regionalismi.

Ma non mancano peraltro neppure regionalismi che non sono dialettalismi perché non risalgono al sottostante dialetto, per es. sconoscere 'ignorare', riassuntare 'riassumere', stranizzare 'restare meravigliato', stranizzarsi 'meravigliarsi': regionalismi siciliani, non riconducibili al dialetto siciliano.

 11. Per concludere
Il lettore si trova insomma dinanzi un testo che gli consentirà non solo di acquisire conoscenze nuove sulla grammatica e gli usi dell'italiano contemporaneo (p.e. verbi intransitivi in inergativi e inaccusativi pp. 121, 154, oppure: soggetto/predicato; tema/rema; dato/nuovo p. 153-55) , ma anche di aggiornare e verificare le proprie conoscenze metalinguistiche, mettendo a confronto la propria competenza linguistica e metalinguistica, scolastica o meno, con un patrimonio di conoscenze scientifiche rilevante, peraltro non definitivo e in continua evoluzione.

 Sommario
   1. L'evento editoriale 
            2. Tematiche del manuale
     3. Approccio descrittivista, non puristico (piuttosto che, scendi il cane, esci la valigia, con dei compagni, Islam, mignon, Benetton)
          3.1. Usi stigmatizzati (it. pop.)  
       3.1.1. Italiano popolare in regresso?
      3.2. Punteggiatura
      3.3. "Prestiti" o "forestierismi", "angli(ci)smi" e calchi
             3.4. Debolezze neopuristiche?
       4. Il congiuntivo
       5. Regola d'adiacenza
       6. Fonologia vs ortografia
       7. Uso meridionale? No, settentrionale, anzi pan-italiano (non guardare [in faccia a] nessuno, a lui, non l'ho visto!
       8. "Eccezioni" teoriche? (anti-: prefisso o confisso?; sottotitolo; super, ex; s/conoscenza vs conoscenza; /per'ke/
       9. Tipologia delle dipendenti
      10. Dialettalismi: da "regionalismi" a ex-regionalismi e voci pan-italiane. E Regionalismi non dialettalismi
      11. Per concludere





* Docente di linguistica generale presso l'Università di Catania