Alcuni
grammatici sostengono che il verbo “dire”, finendo in “-ire”, appartenga/appartiene
alla terza coniugazione, come “finire”. Non è affatto vero. Dire si classifica
fra i verbi della seconda coniugazione – come “temere” – in quanto è la forma
sincopata del latino “di(ce)re”. Altri ancora ritengono che il predetto verbo
sia bene adoperato solo nel suo significato proprio: “esprimere con la voce”,
quindi “proferire”. E dove sta scritto? Per il suo significato generico “dire”
è adoperato frequentemente al posto di altri verbi piú propri e determinanti
come, per esempio, “soggiungere” e “rispondere” ma non per questo il suo uso è
errato.
Potrà
sembrare inverosimile, ma molti uomini soffrono di “disturbi uterini”. Sono quelli
affetti da “isterismo”, che in senso proprio è una “turba provocata da disturbi dell’utero”, dal
greco “hystèra” (utero). Ippocrate riteneva, infatti, che questa malattia di
tipo nevrotico, provenisse dall’utero che se infiammato poteva spostarsi per
tutto il corpo e giungere all’altezza della gola, provocando, in tal modo, un
repentino senso di soffocamento con esagitate reazioni motorie. Il termine,
quindi, è entrato nel linguaggio scientifico con l’accezione a tutti nota.
Molto spesso si fa seguire il
verbo "nascere" dall'aggettivo "nuovo": è nato un nuovo gruppo industriale. È evidente che si nasce nuovi, non vecchi.
In casi del genere nuovo sta per altro. Perché non sostituire nuovo con altro e dire o scrivere, per esempio: è
nato un altro gruppo industriale?
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La parola proposta da questo portale e non a lemma
nei vocabolari dell'uso: hara.
Sostantivo femminile, tratto dal latino "hara(m)", con il quale si
indica un "recinto per maiali", un porcile, insomma. Termine di uso
prettamente letterario.