sabato 31 dicembre 2016

L'esercito? Si... esercita


Chi sa se i nostri amici lettori delle Forze Armate, dell'Esercito in particolare, conoscono l'origine linguistica dell'... esercito. È un termine, questo, che viene dal latino "exercitu(m)", participio passato del verbo "exercere", 'tenere fuori (dallo stato di riposo)'; quindi "far muovere". Sotto il profilo prettamente etimologico l'esercito, cioè il latino "exercitum", valeva, quindi, "(raggruppamento di uomini) tenuto in esercizio, addestrato, non a riposo". Gli appartenenti all'Esercito, insomma, stando all'origine del nome, sono sempre in... esercizio, non si riposano mai perché come dice il verbo "sono (mettono) in gran movimento". Interessante anche ciò che dice il Tommaseo-Bellini.

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La parola, di ieri, proposta da "unaparolaalgiorno.it": ghibellino.

venerdì 30 dicembre 2016

Smarronate giornalistiche doc

Riprendiamo la nostra "carrellata" su alcune smarronate che la stampa continua a "propinarci". Cominciamo (anzi  ri... cominciamo) dall'avverbio "meno", tremendamente errato, nelle frasi disgiuntive, nell'accezione di "no": la commissione deve decidere o meno se approvare l'emendamento. La forma italianamente corretta è "decidere o no". Non si decide "di piú " o "di meno". Si decide e basta. Quindi: si decide o no. Come il solito, molte cosí dette grandi firme cadono in questa  smarronata. A proposito, chi sono le "grandi firme"? Quelle che un tempo dal salotto di Maurizio Costanzo pubblicizzavano i loro libri tra un consiglio per gli acquisti e l'altro, cioè tra un aspirapolvere e un dentifricio? Ma andiamo avanti. Il "la", nota musicale, non si accenta mai. Un grande "opinionista" ha scritto che "il segretario del partito ha dato il là alle consultazioni". Il "là" - lo ricordiamo - si accenta solo quando ha valore avverbiale: fatti piú in là. Ancora. Il verbo impartire  significa "dare", "distribuire tra due o piú persone", non si può adoperare nell'accezione di "concedere". Il generale impartisce (cioè "dà") gli ordini; il presidente della repubblica, invece, concede la grazia, non la "impartisce". Ci è capitato di leggere anche questa orribile smarronata, scritta da una  "firma" che si picca di... fare la lingua. Ma forse voleva dire una "boccaccia linguistica".

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I lettori che ravvisino strafalcioni orto-sintattico-grammaticali in testi giornalistici possono scrivere ad albatr0s@libero.it. Gli "orrori" saranno pubblicati ed esposti al  “pubblico ludibrio”.


mercoledì 28 dicembre 2016

Far la barba al palo


I lettori sportivi, in particolare i "calciofili", dovrebbero conoscere questo modo di dire - ancora in uso, sia ben chiaro - che in senso figurato significa "trovarsi al limite di una situazione difficilissima e che può avere pericolose conseguenze, con il rischio di superare la 'barriera della legalità' ". L'espressione - e i lettori sportivi, dicevamo, dovrebbero conoscerla - si fa risalire al gioco del calcio: indica, comunemente, il passaggio della palla rasente il palo delle porte, con il gravissimo pericolo che vi possa entrare "danneggiando", in tal modo, il gioco della parte avversa. La locuzione, c'è da dire, ha anche un'altra origine - piú antica - che ci riporta al mondo contadino. Con tale espressione - nel gergo contadino - si indicava il tentativo di impossessarsi del terreno altrui spostando di poco, ma in continuazione, i paletti che delimitavano i confini dei diversi appezzamenti.
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La parola proposta da questo portale e ripresa dal Treccani è:  gutto.  Sostantivo maschile con il quale si indica un vaso d'argilla, di legno o di altro materiale. Si veda anche qui.

martedì 27 dicembre 2016

Ridursi alle porte coi sassi


Questo modo di dire - senza ombra di dubbio poco conosciuto fuori della Toscana - è stato "messo in atto" da ciascuno di noi, sia pure inconsapevolmente, almeno una volta nella nostra vita. Siamo sicuri, infatti, che qualche volta ci è capitato di esserci ridotti all'ultimo momento nello sbrigare una faccenda, tanto che siamo stati costretti a farla in fretta (e male) per il pochissimo tempo disponibile. "Ridursi alle porte coi sassi" significa, insomma, "fare ogni cosa all'ultimo momento". Cosí spiega quest'espressione il lessicografo  fiorentino Pietro Giacchi: «È un proverbio tutto fiorentino da ciò: gli abitatori di Firenze, specialmente quelli vicini alle porte, uscivano di città sulla sera d'estate per godere il fresco ad aria piú aperta. Alla un'ora si serravano le porte; ed il gabellotto, per risparmiare la crazia (moneta d'argento e di rame del valore di cinque quattrini, coniata all'epoca del granducato di Toscana, ndr) a chi era di fuori, avvertiva della chiusura battendo con un sasso sopra un'imposta della porta medesima. E quelli allora per essere a tempo se la davano a gambe». Potete asserire, cortesi lettori, di non esservi mai trovati in simili circostanze? Chi scrive, francamente, no.  

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REP TV / ACCADEMIA DELLA CRUSCA

'Coccardoso, pizzettiere, bacioso'
Boom segnalazioni dopo petaloso

(cliccare sul titolo)
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È un peccato che a un certo punto compaia, in sovrimpressione, la scrizione "... creatività LINGUSTICA...".




lunedì 26 dicembre 2016

L'aereo "era" decollato o "aveva" decollato?


Il Tu-154 era appena decollato da Sochi ed era diretto in Siria. Sul velivolo viaggiavano 84 passeggeri e otto componenti dell'equipaggio. Oltre a militari e giornalisti, anche Elizaveta Glinka, nota responsabile di una fondazione umanitaria. Putin ordina inchiesta

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Questo tragico sommario di un quotidiano in rete riporta alla ribalta il "problema" dell'ausiliare da adoperare con il verbo decollare nell'accezione di "involarsi", "prendere il volo". Qual è l'ausiliare corretto, dunque? Il verbo avere, come riportano i vocabolari con la "V maiuscolata". In proposito riproponiamo un nostro vecchio articolo.

Tremiamo al pensiero che un nostro conoscente o congiunto ha preso l’aereo che “è decollato da Milano ed è atterrato” a Roma un’ora dopo, come leggiamo sovente sulla stampa o sentiamo dai giornalisti radiotelevisivi: il velivolo “decollato”, cioè senza testa e quindi privo di guida, invade lo spazio aereo di una potenza straniera e viene colpito da un missile. Tremiamo – sarà bene precisarlo subito – per la nostra madre lingua, per l’uso errato dei verbi decollare e atterrare.
In lingua italiana il verbo decollare ha un solo significato, quello di “staccare il collo”, cioè “decapitare”; deriva, infatti, dalle voci latine “de” (prefisso di allontanamento) e “collum” (collo); alla lettera, quindi, “allontanare il collo”. Essendo transitivo può essere sia attivo sia passivo: i vandali decollano la statua posta sulla sommità della fontana pubblica; la statua è decollata dai vandali.
Decollare nell’accezione di “involarsi”, “prendere il volo” è, invece, un prestito dal francese “décoller”, formato con “de” (prefisso privativo) e “coller” (incollare), da “colle” (colla); alla lettera “scollare”, “staccare la colla”. L’aereo, quindi, quando decolla “stacca la colla” (da terra, in senso figurato) e prende il volo.
C’è da dire, però, che questo verbo è entrato di “diritto”, ormai, nella nostra lingua con il significato, appunto, di “involarsi” ed essendo usato intransitivamente richiede – come tutti i verbi intransitivi che indicano un moto fine a sé stesso – l’ausiliare avere: l’aereo ha decollato.
Analogo discorso per il verbo atterrare che ha due significati distinti: “gettare a terra” e “posarsi a terra”. Nel primo caso è transitivo con forma attiva e passiva: il portiere atterra il centravanti; il difensore è stato atterrato dall’attaccante. Nel secondo caso è intransitivo e richiede l’ausiliare avere: l’aereo ha atterrato.
Non diamo ascolto, per tanto, alle “malelingue” radiotelevisive: diciamo e scriviamo, correttamente, che l’aereo “ha” decollato e “ha” atterrato, anche se alcuni vocabolari ammettono l’uso dell’ausiliare essere con il verbo atterrare quando si riferisce a persone: “siamo” atterrati all’aeroporto di Fiumicino alle 18.30.




domenica 25 dicembre 2016

AUGURI


Un sereno Natale agli amici amanti dell'uso corretto dell'italico idioma

sabato 24 dicembre 2016

Qual è, insomma, si apostrofa o no? S.C. Sgroi


Dopo l'opinione del prof. Salvatore Claudio Sgroi, dell'Università di Catania, circa la correttezza del "qual'è"  (con l'apostrofo) ci piace riportare quella del linguista Luciano Satta, tratta da "La prima scienza".

Anche gli aggettivi e pronomi tale e quale diventano tal e qual
 sia dinanzi a vocale sia dinanzi a consonante, sia al maschile sia al femminile. Ma sono elisioni o troncamenti ? Cioè, è ancora frequente l’uso di far cadere le vocali finali di queste due parole davanti ad altra parola che cominci per consonante?
Possiamo rispondere sì per 
tale, giacché, senza contare l’espressione fissa il tal dei tali, si usa dire ancora « Nel tal giornale c’è il tal fotoservizio ». E allora scriveremo tranquillamente senza apostrofo tal amico, tal impresa e così via.
Ma 
qual è piuttosto raro davanti a consonante, e suona antiquato. Perciò alcuni grammatici consigliano di restaurare la forma qual apostrofata: qual’e. La presenza di due vocali uguali non fa tollerare in questo esempio che si scriva quale è, salvo che non si voglia dare a quale un risalto particolare. Ma davanti ad altra vocale l’imbarazzo dell’apostrofo può essere eliminato scrivendo quale per intero: quale amore, quale odio. In ogni modo noi siamo a favore di qual è, senza apostrofo; torneremo sulla faccenda tra poco, nelle nostre consuete osservazioni. [...]
Ma vediamo in breve come se la cavano gli scrittori con l’apostrofo, e quindi con l’elisione e il troncamento. Essendo l’apostrofo un segno dei meno appariscenti, può accadere che molti errori siano in realtà sviste tipografiche e niente più; tuttavia li citeremo, nel dubbio assolvendo l’autore.
La disputa se si debba scrivere 
qual’è o qual è non è risolta né dalle grammatiche, né tanto meno dalla letteratura. Sono per l’apostrofo, fra gli altri, Federigo Tozzi, Mario Tobino, Tommaso Landolfi, Paolo Monelli, Bonaventura Tecchi. Non apostrofano invece Vasco Pratolini, Giuseppe Berto, Alberto Moravia, Goffredo Parise, Libero Bigiaretti.
Ripetiamo alla buona i termini della polemichetta; e prendiamo gli argomenti di due studiosi: Franco Fochi (fautore dell’apostrofo) e Bruno Migliorini (che non ce lo vuole).
Dice il Fochi che per 
quale « il troncamento è cosa del tutto finita, che appartiene alla storia, e non più all’uso della parola ». Egli prosegue citando il qual maraviglia di Brunetto Latini a Dante, che oggi più nessuno direbbe; e osserva che qual resta soltanto nel detto scherzosamente solenne Tal morì qual visse, in una o due espressioni come per la qual cosa. Ricordate le combinazioni con certo – in certo qual modo, un certo qual garbo, una certa qual mansione – egli insiste: « Ma ecco che qui mansione, di tre sillabe, preferisce la forma intera: "una certa quale mansione". E l’effetto aumenta con l’allungarsi del nome: "un certo quale spiritello", "una certa quale condiscendenza", ecc. ».Insomma, secondo il Fochi, essendo il qual tronco una cosa storicamente morta, c’è solo il quale da elidere; perciò, apostrofo.
E sentiamo Bruno Migliorini: « Che si scriva 
un uomo e non un’uomo, un enorme peso e invece un’enorme ingiustizia è una distinzione non fondata sulla fonetica ma sulla schematizzazione dei grammatici. Distinzione artificiale è perciò quella fra "troncamento" e "elisione", ma una volta che questa distinzione si accetti, ne discende come un corollario ineluttabile che si debba scrivere senza apostrofo tal è, qual è... ».
L’argomento del Fochi fa riflettere, è vero. Ma ha qualche punto debole. Anzitutto l’esempio 
un certo quale spiritello non è acconcio; diciamo quale spiritello e non qual spiritello solo perché è buona norma non troncare davanti a parola che cominci con s impura.
Inoltre il Fochi cita onestamente alcuni esempi di sopravvivenza di 
qual.
Aggiungiamo, pignoli, il diffuso « Qual buon vento ti porta? »; e quattro citazioni di scrittori: « E qual rispetto dal concessionario... » (Domenico Rea); « ...senza qual sacro pudore » (Riccardo Bacchelli); « Qual testimone veridico... » (Carlo Emilio Gadda); « ... qual più qual meno » (Virgilio Lilli). Queste nostre quattro citazioni, ne siamo certi, possono aumentare, anche se non di molto. E allora, è proprio morto il qual?
Ma il nostro discorso è un altro. Franco Fochi sostiene che si deve scrivere 
qual’è ma non condanna come errore qual è; insomma egli ha messo o rimesso di moda un’altra duplice grafia del patrio idioma. Con tutte le parole che si possono scrivere in due, tre, quattro modi, non ce n’era davvero bisogno.

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Il DOP, Dizionario di Ortografia e di Pronunzia, ammette entrambe le grafie marcando, però, "meno bene" la forma apostrofata. Sull'uso di "quale" è interessante vedere anche ciò che riporta il dizionario del Tommaseo-Bellini.



venerdì 23 dicembre 2016

La lingua della musica


Melomani, ecco il "pane per i vostri denti":




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La parola proposta da questo portale, ripresa dal Treccani: cuio. Sostantivo maschile: persona sciocca che vuol sembrare un genio.

giovedì 22 dicembre 2016

Il pro e il contra


Due parole sull'uso corretto delle preposizioni improprie "contra" e "contro". La prima, che vale "contro", non è piú nell'uso, resta solo nella locuzione "il pro e il contra" (la pronuncia della "o" deve essere aperta, "ò"), sebbene vada sempre piú affermandosi "il pro e il contro". In funzione di prefisso richiede il raddoppiamento della consonante che segue: contraccolpo, contraccambio, contraddanza, contravveleno ecc. Alcune forme semplici, cioè senza il raddoppiamento della consonante che segue, come, per esempio, contradire, sono tollerate ma da evitare in uno scritto formale. La seconda, contro, si unisce direttamente al sostantivo che segue, alcuni Autori la fanno seguire dalla particella "a" (ma in buona lingua non è un uso  da seguire): Luigi, infuriato, si scagliò contro i presenti; l'automobile, sbandando, finí  contro al muro. Con i pronomi personali si può far seguire dalla preposizione "a": contro me; contro a me. È preferibile, però, la preposizione "di": contro di me. Al contrario di "contra" non richiede mai il raddoppiamento della consonante che segue: contropelo; controcassa ecc.

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La parola, di ieri, proposta da "unaparolaalgiorno.it": isonomia.

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Alleviare


Si presti attenzione al congiuntivo presente di questo verbo, perché non tutti i vocabolari concordano. Alcuni mettono la doppia "i", una della radice e una della desinenza: che essi alleviino; altri una sola "i": che essi allevino. Si segua questa semplice "regola": i verbi con la prima persona singolare del presente indicativo in "-io" con la "i" non accentata perdono la "i" della radice davanti a desinenze che cominciano con "i": graffiare, graffi (non graffi-i); studiare, studi (non studi-i), studino (non studi-ino), alleviare, allevi (non allevi-i), allevino (non allevi-ino).

martedì 20 dicembre 2016

Il maccianghero non fa il digiuno


La parola, di ieri, proposta da "unaparolaalgiorno.it": digiuno.
E quella segnalata da questo portale: maccianghero. Aggettivo riferito a una persona dalle membra grosse e, in senso traslato, tozza, grossolana, goffa. Si veda anche qui.

lunedì 19 dicembre 2016

Ancora sulla lingua "biforcuta" della stampa


C'è  qualcuno, tra i nostri 25 lettori, disposto ancora ad accusarci di "maltrattare" gli operatori dell'informazione, in particolare quelli della carta stampata, a causa dei loro orribili strafalcioni? Se c'è, lo invitiamo a leggere il titolo di questo giornale in rete e - se ama l'uso corretto dell'italico idioma - tragga le conclusioni:
Sopralluogo delle associazioni con i tecnici del Comune: la scorciatoria è sul ponte dell'Acea

PS.: Dobbiamo dire, per onestà, che  lo strafalcione, dopo la nostra segnalazione, è stato prontamente corretto (è stato "in mostra", comunque, per un paio di giorni).
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La parola proposta da questo portale: burugliare. Verbo che sta per fischiare, sussurrare, sibilare e simili. Dal TLIO: BURUGLIARE v.
0.1 burugliando.
0.2 Etimo non accertato.
0.3 Fatti di Cesare, XIII ex. (sen.): 1.
0.4 Att. unica nel corpus.
0.6 N Forse da unificare con brogliare.
0.7 1 [Del movimento di un proiettile:] produrre un rumore.
0.8 Fabio Romanini 04.04.2002.
1 [Del movimento di un proiettile:] produrre un rumore.
[1] Fatti di Cesare, XIII ex. (sen.), Luc. L. 3, cap. 16, pag. 129.17: mise una palla di piombo di grossezza d'una mela di bosco ne la fonda e trasse: la palla n'uscío burugliando e fendendo l'aire, e ferío Tirreno sì nella testa, che ambedue li occhi l'uscirono de la testa. || Cfr. Fet des Romains, pag. 417.12: «li plons s'en ist bruiant».
[u.r. 18.12.2008]

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I lettori che ravvisino strafalcioni orto-sintattico-grammaticali in testi giornalistici possono scrivere ad albatr0s@libero.it. Gli "orrori" saranno pubblicati ed esposti al  “pubblico ludibrio”.

domenica 18 dicembre 2016

Il plurale di Babbo Natale


Raduno di 10mila Babbo Natale
la corsa per beneficenza a Madrid




Questo titolo che fa bella mostra di sé nella prima pagina di un "autorevole" quotidiano in rete grida vendetta al cospetto di coloro che amano il bel parlare e il bello scrivere. Perché? Perché coloro che amano l'uso corretto dell'italico idioma sanno benissimo che "babbo natale" si può, anzi si deve pluralizzare. In questo caso, poiché il Natale è uno solo, ma i babbi possono essere tanti, si mette la desinenza del plurale solo al primo elemento (babbo): tanti "Babbi (di) Natale". Alcuni autori, invece, pluralizzano entrambi i nomi: "Babbi Natali". In proposito diamo la "parola" all'Accademia della Crusca (si veda, in particolare, l'ultimo capoverso dell'articolo).

sabato 17 dicembre 2016

Un po' di "coraggio linguistico"


Invitiamo gli amici della carta stampata (e no), che spesso bacchettiamo per i loro orribili strafalcioni, che gridano vendetta al cospetto del Divino, ad avere un po' di "coraggio linguistico" nel femminilizzare i sostantivi indicanti professioni  fino a qualche anno fa riservate esclusivamente agli uomini. Lo spunto ci viene dato da un titolo che campeggiava sulle pagine di un giornale in rete: Padova, rugbista travolge l'arbitro donna: sospeso tre anni. Se invece di "arbitro donna" avessero scritto "l'arbitra", femminilizzando, appunto, il sostantivo arbitro qualcuno, forse, avrebbe gridato allo scandalo, ma avrebbero dimostrato, al contrario, di avere coraggio linguistico da vendere. Perché, dunque, "l'arbitra" dovrebbe scandalizzare e la sindaca, l'avvocata, la ministra, l'impiegata, la soldata, l'architetta e la sarta no? Si femminilizzino, quindi, tutti i nomi di professioni che riguardano le donne, naturalmente rispettando le norme grammaticali che regolano la formazione del femminile. Se non cadiamo in errore anche l'Accademia della Crusca è su questa linea. "L'arbitra", comunque, è già in rete e in qualche pubblicazione:

arbitra f sing


 plurale 
  arbitro  
  arbitri  
  arbitra  
  arbitre  

1.   femminile di arbitro

L'arbitra non è ancora arrivata

Di questa disputa sia arbitra la ragione


Guido Crainz - 2003 - ‎Anteprima

... come osservava Virgilio Lilli sul «Corriere della Sera»: Se non abolirete la legge sul divorzio - sembrano argomentare - le industrie verranno nazionalizzate; se non la abolirete, la polizia politica diverrà l'arbitra della vita dei singoli individui ..





 



venerdì 16 dicembre 2016

Il brindisi



PAROLE RITROVATE: BRINDISI
La parola ci è arrivata dallo spagnolo, ma ha origini germaniche: erano i temuti Lanzichenecchi, infatti, ad alzare il bicchiere pieno pronunciando le parole ich bring dir’s, ovvero “lo porgo a te”. Una formula di saluto, insomma, equiparabile al latino prosit. Perché da sempre, e ben prima che qualcuno inventasse gli aperitivi, nel mondo si festeggia bevendo in compagnia. À vôtre santé.
 (a cura di Alessandro Masi, dal supplemento Sette del Corriere della Sera)
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Le "parole ritrovate" pubblicate sul sito della "Società Dante Alighieri", ci ha richiamato alla mente un nostro vecchissimo articolo nel quale cerchiamo di spiegare, con dovizia di particolari, la nascita linguistica del "brindisi". Si clicchi qui.

P.S.: Peccato che il prof. Masi sia inciampato nel francese: votre, aggettivo, non prende l'accento circonflesso sulla "o".


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In un "test" per "saggiare" la conoscenza della lingua italiana, preparato dall'Accademia della Crusca e pubblicato sul quotidiano la Repubblica, abbiamo riscontrato un orrore che grida vendetta al cospetto di Dante: la terza persona singolare del presente indicativo del verbo "essere" ha l'accento acuto in luogo di quello corretto grave (è). Speriamo che dall'Aldilà non se ne accorga il prof. Giovanni Nencioni, che anni fa, proprio dalle pagine dell'Accademia della Crusca, condannò l'uso errato dell'accento acuto sulla "e" verbo. Ecco il "test":


La nascita dei grandi quotidiani ha contribuito nel nostro Paese alla diffusione dell’italiano postunitario. Quali tra questi giornali oggi in edicola é il più antico?

giovedì 15 dicembre 2016

«Mancare un venerdí»


Gentilissimo dott. Raso,
mi piacerebbe conoscere il motivo per cui si dice "mancare di un venerdì" riferito a una persona un po' strana, bizzarra. Nel dizionario dei modi di dire del "Corriere della Sera" in rete  ho trovato il "significato" ma non il "perché si dice", faccio il copincolla: «essere una persona strana, eccentrica, stravagante, bizzarra, che ragiona in modo tutto particolare, a volte incomprensibile o non condiviso dalla maggioranza. Anche apparire poco normali, e per estensione, essere pazzi».  Spero in lei. La ringrazio anticipatamente e mi complimento per il suo meraviglioso libro, "un tesoro di lingua", dal quale sto imparando molte cose.
Cordialmente.
Osvaldo A.
Cesena
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Cortese Osvaldo, l'origine del modo di dire non è chiara, si fanno solo delle ipotesi. Io ne azzardo una. L'espressione (si dice anche "mancare un giovedí") potrebbe trarre origine dal fatto che il venerdí  (e il giovedí) è il giorno "centrale" della settimana; mancando questo giorno la settimana sarebbe incompleta e, quindi, non "sana". Una persona alla quale "manca un venerdí" - in senso figurato - è, per tanto, una persona incompleta, non sana sotto il profilo psicologico.

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La parola, di ieri, proposta da "unaparolaalgiorno.it": dicevole.
E quella segnalata da questo portale e non "lemmata" nei vocabolari dell'uso: eutecnia. Sostantivo femminile con il quale si intende l' «arte dell'insegnamento». Si veda anche qui.

mercoledì 14 dicembre 2016

Mettere il fodero in bucato

Il ragionier Trombini fu chiamato di corsa dall'usciere addetto al pubblico: un signore, stanco dell'estenuante attesa (e della lunghissima fila), aveva cominciato a mettere a soqquadro la sala dove la gente si accalcava per poter accedere agli sportelli. «Corra ragioniere - gridò il commesso -  una persona del pubblico "ha messo il fodero in bucato"». Il direttore dell'agenzia non capí, lí per lí, il linguaggio del suo dipendente: «costui è impazzito», pensò. Poi si accorse che un pazzo, in effetti c'era, era la persona del pubblico che aveva dato in escandescenza rompendo tutte le suppellettili. L'usciere voleva dire, infatti, che una persona era improvvisamente impazzita e usò quel modo di dire un po' desueto, per non dire quasi sconosciuto. "Mettere (o avere) il fodero in bucato" significa, dunque, impazzire. Ma come è nata questa locuzione? È presto detto. Nei tempi andati si chiamava "fodero" una sorta di sottana fatta di pelliccia e la stessa pelle concia di qualche animale per foderare i vestiti. Ora mettere una pelliccia ('fodero') in bucato è da pazzi in quanto, si sa, si rovinerebbe. In passato, probabilmente, qualche donna deve averlo fatto se ciò ha dato origine al modo di dire.

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All'incontrario

Al contrario o all’incontrario? In buona lingua è preferibile la prima forma. La seconda, anche se corretta, ai nostri orecchi suona popolare. È sconsigliabile inoltre, perché come spiega Pietro Fanfani, «una preposizione articolata (all’) non può reggere un’altra preposizione (in) anche se fusa con la parola che segue (contrario)». Sotto il profilo semantico vale nel senso contrario, all’opposto, a rovescio e simili: Giulia, per la fretta, si mise il giubbino al contrario. È anche sconsigliabile, come molti fanno, usare questa locuzione con un significato che, propriamente, non ha: invece. Chi ama il bel parlare e il bello scrivere non dica, per esempio, “ti avevo detto di non uscire e, al contrario, sei uscito”. Dirà, correttamente, “ti avevo detto di non uscire, e invece sei uscito”.


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Da un quotidiano in rete:


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Amici, amanti della lingua italiana, vi "suona" la concordanza (laureata e ministro)?

(Nella pagina interna il titolo è diverso)


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I lettori che ravvisino strafalcioni orto-sintattico-grammaticali in testi giornalistici possono scrivere ad albatr0s@libero.it. Gli "orrori" saranno pubblicati ed esposti al  “pubblico ludibrio”.


martedì 13 dicembre 2016

Essere un uomo di soldo...


... vale a dire una spia, un informatore. La locuzione si adopera soprattutto nei confronti di una persona corrotta o corruttibile; disposta a commettere qualunque nefandezza in cambio di denaro. L'origine è intuitiva: anticamente era definito "uomo di soldo" il soldato, in particolare il mercenario, che per il "soldo" combatteva contro chicchessia, senza alcun ideale.

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Be' - forma "apocopata" dell'avverbio bene, adoperata nelle esclamazioni e nelle interrogazioni, si scrive con l'apostrofo, non con l' h finale: be', come è andato l'esame?
Cotto e cociuto –  entrambi i termini sono participi passati del verbo cuocere. Il primo si adopera in senso proprio: il risotto è cotto; il secondo si usa in senso figurato con l’accezione di indispettito e simili: la tua osservazione mi è cociuta ( mi ha indispettito).


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La parola che segnaliamo e che ci piacerebbe fosse rimessa a lemma nei vocabolari: smelia. Sostantivo femminile con il quale si indicava una donna saccente e smorfiosa.

lunedì 12 dicembre 2016

L'abiatico e il bastracone

La parola, di ieri, proposta da "unaparolaalgiorno.it": abiatico.
E quella segnalata da questo portale e non "lemmatizzata" nella quasi totalità dei vocabolari dell'uso: bastracone. Sostantivo maschile con il quale si indica un uomo grosso e trascurato nel vestire e nel comportamento. Si veda anche qui.

domenica 11 dicembre 2016

Comma e capoverso


Cortese dott. Raso,
anch'io, come la lettrice di Trento, desidero ringraziare lei e il suo editore per l'opportunità che avete dato agli appassionati di lingua di consultare e scaricare gratuitamente dalla rete un libro che definire "indispensabile" è riduttivo. Le scrivo, anche, gentile dottore, per un chiarimento: comma e capoverso sono sinonimi? I vocabolari che ho consultato non mi sono stati d'aiuto perché non spiegano la differenza tra i due termini dando l'impressione, appunto, di trovarci davanti a due sinonimi. È cosí? A "lume di naso" non mi sembrano sinonimi. Può, gentilmente, illuminarmi in proposito?
Grazie e cordiali saluti.
Mario S.
Carbonia

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Gentile Mario, ha ragione, i dizionari non fanno chiarezza. Ho trattato l'argomento moltissimo tempo fa. Le copio-incollo il mio articolo.

Moltissime persone, anche quelle “addette ai lavori”, fanno una gran confusione tra il “capoverso” e il “comma” con la complicità – non si può sottacere – di buona parte dei vocabolari che non brillano, certamente, per chiarezza. La confusione, molto spesso, nasce dal fatto – e anche questo non si può sottacere – che, nell’uso comune, l’inizio di un capitolo di un libro, di un articolo di giornale, viene chiamato sia comma sia capoverso. No, i due termini non sono per niente sinonimi e i vocabolari, come dicevamo, non aiutano a capire. Ecco, infatti, cosa scrivono due dizionari “di prestigio” (che non citiamo per carità di patria) alla voce “comma”: ciascuna delle parti in cui è suddiviso un articolo di legge, corrispondente a ciascun capoverso. Stando così le cose si ha l’impressione, per l’appunto, che capoverso e comma siano l’uno sinonimo dell’altro. Nient’affatto, ripetiamo. L’unica “chiarezza” viene dal vocabolario della “Treccani”: ognuna (ma sarebbe meglio “ciascuna”, ndr) delle suddivisioni di un articolo di legge, rappresentata tipograficamente da un accapo, in modo che il primo comma corrisponda al “principio”, il secondo comma al primo capoverso e così via. Vediamo, ora, cosa scrive lo stesso vocabolario alla voce “capoverso”: nelle citazioni di leggi, regolamenti, contratti (…) si chiamano primo, secondo, terzo capoverso e così via le suddivisioni dell’articolo corrispondenti rispettivamente al secondo, terzo, quarto comma, spettando al primo comma il nome di “principio”. Ed eccoci al dunque, gentili “navigatori”: l’inizio di un articolo, erroneamente detto primo capoverso, si chiama, in realtà, “principio”, mentre il secondo capoverso è il… primo.
E sempre in tema di “confusione linguistica”, vediamo l’uso corretto della preposizione impropria “dietro”: dietro “a” o dietro “il”? La suddetta preposizione, insomma, si unisce direttamente al sostantivo tramite l’articolo o si fa seguire dalla “a”? Dietro “la” chiesa o dietro “alla” chiesa? Entrambi i costrutti sono corretti, anche se quello “più corretto” è il primo in quanto riflette fedelmente la costruzione latina dalla quale la preposizione “dietro” discende. Se vogliamo parlare e scrivere in ottima lingua italiana diremo, per tanto, dietro “la” casa, non dietro “alla” casa. La legge grammaticale ci obbliga, invece, a ricorrere alla preposizione “a” (semplice o articolata, naturalmente) quando nella frase è espresso un concetto (anche in senso figurato) di moto a luogo: corre sempre dietro “alle” fantasticherie; va sempre dietro “alla” moda. La stessa legge linguistica ci impone di far seguire “dietro” dalla preposizione ‘di’ (dietro di) quando nella proposizione è presente un pronome personale e non sia espresso, però, un concetto di moto a luogo: lasciò dietro “di” sé una grande meraviglia; dietro “di” noi si udivano le urla della folla. Ma, attenzione: correva dietro “a” lui cercando di non farsi notare. In questo caso adoperiamo la preposizione “a” (non ‘di’) in quanto nella frase su citata, pur essendoci un pronome personale, è chiaramente espresso un concetto di moto a luogo.
Con “dietro” si costruiscono inoltre – e concludiamo questa “chiacchierata” – numerose espressioni burocratiche che in buona lingua italiana sono da evitare perché tremendamente errate (con buona pace dei soliti soloni della lingua). Non si dica, ad esempio, “dietro sua richiesta” ma, correttamente, “a sua richiesta”; non “dietro versamento”, ma “all’atto del versamento”; non “dietro quanto è stato detto”, ma “secondo quanto è stato detto”; non “dietro il vostro interessamento”, ma “per il vostro interessamento”. Potremmo continuare, ma non vogliamo tediarvi oltre misura. Sta a voi, cortesi amici, seguire o no i nostri modestissimi “consigli per la lingua”.

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Forse non tutti sanno che "tranquillare" sarebbe da preferire al piú comune "tranquillizzare". È, infatti, pari pari il latino “tranquillare”. Tranquillizzare ricalca il francese ‘tranquilliser’. Il "tranquillante" che cosa è se non il participio presente sostantivato di tranquillare? Qualcuno dice: "dammi un tranquillizzante"?