mercoledì 31 marzo 2021

Lo studente e lo studiante


 I vocabolari che abbiamo consultato attestano il lemma "studiante", lo stesso che studente, di uso prettamente letterario. Chi scrive, invece, farebbe un distinguo sull'uso "corretto" dei due lessemi. Adopereremo "studente", dal latino "studente(m)", participio presente del verbo "studere", studiare, quando il termine indica "chi frequenta un corso di studi medi o è iscritto a una facoltà universitaria" (Sabatini Coletti): studente di seconda media; studente di quinta ginnasiale; studente di architettura. Useremo "studiante", participio presente di studiare, allorché il sintagma sta per "studioso", cultore di una determinata scienza o personaggio: Giovanni  è uno studiante del Manzoni. Potremmo dire, insomma, che gli studenti non sempre sono "studianti" (che si applicano con zelo, soprattutto verso una determinata disciplina). E se non cadiamo in errore, il Tommaseo-Bellini è di questo avviso. Studiante si trova in numerose pubblicazioni. E sempre a proposito di studente, consigliamo di seguire le indicazioni del Palazzi: 
«È errore dire uno studente in lettere, in medicina, ecc.; dirai correttamente uno studente di lettere, di medicina».


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La lingua "biforcuta" della stampa

Pd, Debora Serracchiani eletta nuovo capogruppo alla Camera. La dem: "Passo avanti non per le donne, per il partito", Letta: "Con lei e Malpezzi ottima squadra".

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Correttamente: nuova capogruppo (la capogruppo, come la caposala).









Scaricabile, gratuitamente, dalla rete.

martedì 30 marzo 2021

I numerali composti con "uno": si accordano o no col sostantivo?


 L'argomento che trattiamo – ci sembra – non è… trattato a dovere dai cosí detti sacri testi: l'accordo dei numerali composti con "uno" (ventuno, cinquantuno ecc.).

Ciò è causa di molti dubbi anche in persone non sprovvedute in fatto di lingua. Vediamo, quindi, come dobbiamo regolarci.

Gli aggettivi numerali cosí composti sono invariabili se anteposti al sostantivo: ventuno quaderni, cinquantuno penne. È molto diffusa, in questo caso, la forma tronca (che noi sconsigliamo recisamente): quarantun persone, trentun bambini.

Se il numerale segue, invece, il sostantivo al quale si riferisce si concorda con quest'ultimo, ma nella forma singolare: uomini quarantuno, donne cinquantuna. Possiamo benissimo dire e scrivere, per esempio: «nel mio giardino ci sono: orchidee trentuna, ciclamini quarantuno, rose settantuna».

lunedì 29 marzo 2021

Due parole sulla "tassonomia" (2)


 Riprendiamo il discorso sulla “tassonomia”. In quelle noterelle avevamo dimenticato di dire che il termine è un prestito del linguaggio scientifico perché con tassonomia si intende una branca della storia naturale che studia la classificazione degli esseri viventi e dei fossili (dal greco “taxi”, collocazione e “nomía”, nome). La “tassonomia linguistica” si potrebbe definire, quindi, la scienza che studia il “sesso” dei sostantivi in base alla loro collocazione nei vari settori. In base a questa classificazione, contrariamente al “buon senso”, tendono a collocarsi nel genere femminile i nomi militari che indicano mansioni: guardia; ronda; pattuglia; sentinella e via dicendo. Ma perché proprio femminili dal momento che queste mansioni erano svolte, fino a qualche anno fa, esclusivamente dagli uomini?  

    Perché, fa notare il linguista Bruno Migliorini, il loro genere è dovuto al valore “astratto-collettivo” della funzione che questi sostantivi designano, valore che, per l’appunto, la tassonomia lo preferisce rappresentato dal femminile. Sono altresí di genere femminile i nomi di nozioni astratte, di discipline, di scienze: la bontà, la fiducia; la pace; la grammatica; la geografia, l’informatica (oggi tanto “di moda”); la passione; la collera ecc. Ma anche in questo “settore” non mancano le eccezioni come si può notare dal fatto che accanto a molti nomi femminili ci sono sinonimi maschili: allegria/buonumore; giustizia/diritto; discordia/disaccordo; passione/amore e altri che ora non ci sovvengono.

   Per quanto riguarda il “sesso” degli alberi avevamo visto che questi tendono a collocarsi nel genere maschile, anche se non mancano numerosi alberi orgogliosi della loro “femminilità”: la vite; la quercia; la betulla; la palma; la sequoia; la magnolia. Per quanto attiene, infine, al genere del frutto degli alberi della vite, della palma e della quercia – l’uva, il dattero e la ghianda – è interessante notare che il loro nome non si forma dalla medesima radice del nome dell’albero come avviene, per esempio, per castagno/castagna; ciliegio/ciliegia e dunque il loro “sesso” non è stato vincolato dall’opposizione “albero” (maschile) / “frutto” (femminile), come prevede, di norma, la tassonomia. La vite, tra l’altro, ha conservato lo stesso genere del latino “vitis” perché nel passaggio dal latino al volgare (l’italiano) i parlanti l’hanno sentita – per il suo aspetto e per il tipo di coltivazione in filari e pergolati – piú come “pianta” che come “albero”. 

   Ed ecco spiegato anche il motivo per cui diciamo “la” vite e non “il” vite, pur trattandosi del nome di un albero. Tendono a collocarsi nel genere maschile – e concludiamo queste modeste noterelle – e sempre in base alla “legge tassonomica” i sostantivi indicanti preghiere perché molto spesso conservano il loro antico nome latino o lo affiancano a quello volgare, cioè all’italiano: il Credo; l’Angelus; il Gloria; il Te Deum; il Pater; il Requiem; il Salve. Quest’ultimo, talvolta, si può trovare anche nella forma femminile, come l’Avemmaria (che, però, è rigorosamente di genere femminile).



 

domenica 28 marzo 2021

La vigile o la vigilessa? La vigile, non v'ha dubbio

 


Nonostante le varie raccomandazioni delle... varie istituzioni i "massinforma" (operatori dell'informazione) continuano a scrivere "vigilessa" in luogo della forma corretta vigile (maschile e femminile) preceduto dall'articolo "la": la vigile Susanna Riccardini. Vigile, insomma,  come preside e presidente, nella forma femminile resta invariato e la "femminilità" è data dall'articolo che lo precede: la vigile, la preside, la presidente. Il suffisso "-essa", fanno notare i sacri testi grammaticali, ha una connotazione ironica, scherzosa o, peggio, spregiativa. Garzanti: «Il nome vigile, secondo le normali regole della lingua italiana, è maschile o femminile secondo se si riferisce a uomo o a donna: il vigile, la vigile. È in uso anche vigilessa, che però può avere anche tono scherzoso o valore spregiativo, come tradizionalmente hanno avuto diversi femminili in -essa».

Ecco un titolo di un autorevole e prestigioso quotidiano in rete:

La vigilessa sulla pedana di Sordi: "Amo i Led Zeppelin ma qui non si dirige a ritmo rock"


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La lingua "biforcuta" della stampa

ARTE

A Parma rinasce la Pilotta, uno dei musei più grandi del mondo

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Correttamente: al mondo. Non secondo la grammatica, in questo caso, ma secondo la logica: ci può essere qualcosa piú grande del mondo?


venerdì 26 marzo 2021

Due parole sulla "tassonomia"


 Si tranquillizzino i cortesi lettori, non abbiamo intenzione alcuna di angosciarvi trattando di tasse o della legge finanziaria, per questo bastano i vari radiotelegiornali che, implacabili, entrano nelle nostre case proprio quando avremmo un gran bisogno di rilassarci dopo una giornata faticosa, seduti davanti a una tavola imbandita a gustarci un buon piatto. No, state tranquilli.

Vogliamo parlarvi di un argomento che non tutti i sacri testi grammaticali riportano — essendo riservato agli addetti ai lavori — che va sotto il nome di tassonomia e che, ripetiamo, non ha nulla che vedere con le tasse.

La tassonomia, dunque, è quella branca della linguistica che si occupa del genere dei sostantivi in base alla loro appartenenza a questo o a quel settore delle classificazioni  delle nozioni comuni, in assenza di ogni riferimento a un genere reale: non c’è un motivo che potremmo definire logico per cui, ad esempio, i sostantivi oro e mano debbano essere di genere, rispettivamente, maschile e femminile, se non il fatto che il primo proviene dal neutro latino aurum e il secondo ha conservato il medesimo genere che aveva in latino.


Insomma, il genere vero e proprio dei sostantivi non è motivato in quanto corrispondente al sesso; occorre distinguere, quindi, il genere vero, reale da quello grammaticale, dovuto a una convenienza e privo, per tanto, di corrispondenza nel mondo extralinguistico.

Premesso ciò, solo l’uso e la tradizione linguistica, e non già una loro ipotetica femminilità o mascolinità stabiliscono, per esempio, che siano di genere femminile  tavola, fede, conchiglia e maschili, invece, teorema, vestito, orologio, indice. Come si può notare facilmente, quindi, non sempre le desinenze permettono di stabilire la sessualità del sostantivo.

E qui interviene, appunto, la  tassonomia, ossia — come dicevamo — l’appartenenza del nome a quel settore delle classificazioni e delle nozioni di uso comune. In base a questa classificazione tendono a collocarsi nel genere femminile i nomi dei frutti: la mela; la banana; la pesca; la ciliegia ecc. Al genere femminile dei frutti corrisponde, solitamente, il genere maschile dell’albero dal quale provengono: il melo; il pero e via discorrendo. Fanno eccezione i nomi dei frutti esotici che sono, per lo più, maschili: il mango; il cachi; l’ananas; l’avocado.

Si collocano, altresì, al genere femminile, prevalentemente, i nomi di isole, di città, di regioni, di stati, di continenti: la Sicilia; l’Africa; la Francia; la Torino; la Cosenza. A questo proposito è interessante notare il fatto che anticamente la sessualità delle città era determinata dalle desinenze: maschili le città il cui nome finiva in -o (il Palermo; il Torino; il Catanzaro); femminili le città che terminavano in -a (la Venezia; la Roma; la Genova). Non  mancano, in proposito, esempi letterari di grandi, ne citiamo uno per tutti, Alessandro Manzoni: «In un Milano, bisogna dirla, c’è ancor del timore di Dio» (Promessi Sposi, XVI, 48). E le città che finiscono in -i? Il mio Napoli o la mia Napoli?

Ecco, dunque, l’importanza della tassonomia. Si è stabilito che tutte le città, naturalmente con le dovute eccezioni (vedi Il Cairo), siano di genere femminile in quanto si sottintende che il nome della città sia preceduto dal sostantivo città: la (città di) Napoli; la (città di) Firenze; la Cuneo; la Ferrara.
L’argomento, gentili amici, è molto più vasto e non si può esaurire in poche righe. Questo è solo un “assaggio”. Ne riparleremo, eventualmente.

giovedì 25 marzo 2021

Attenzione alla "tautologia" (che non è un... tatuaggio)


 Un’indagine conoscitiva ha messo in evidenza che il novanta per cento delle persone fa un uso eccessivo della tautologia che, nella maggior parte dei casi, è un vero e proprio errore di grammatica oltre che di stile. Vediamo, dunque, che cosa è questa “tautologia” che non ha nulla che vedere con il… tatuaggio.

   Tautologia è parola che deriva dal greco e significa “ripetizione del già detto”.  È formata, infatti, da “tautò” (lo stesso) e “logos” (discorso); è la ripetizione, quindi, di vocaboli o di concetti identici o simili tra loro. “Indagine conoscitiva”, per esempio, è una tautologia che abbiamo adoperato a bella posta per introdurre questa nostra chiacchierata.

   Un’indagine, tutti lo sanno, si fa per  “conoscere”; aggiungere “conoscitiva” è uno spreco di inchiostro (o di voce) oltre che una ripetizione che in buona lingua italiana è da evitare. L’indagine (che, ripetiamo, di per sé è “conoscitiva”) può essere seguita da un aggettivo che specifichi da chi è promossa: indagine parlamentare, giudiziaria, ministeriale e via dicendo.

   Inutile dire che tutta la stampa e la maggior parte dei nostri burocrati ci propinano, a ogni piè sospinto, una sfilza di tautologie. Come i testi delle annunciatrici della radiotelevisione di Stato che ci ricordavano che le domande di partecipazione ai vari concorsi vanno presentate “entro e non oltre” la data stabilita nel bando. Entro non significa anche “non oltre”? Un notissimo critico cinematografico ci informa che il “protagonista principale” del film ha ricevuto l’Oscar per la migliore interpretazione. Il poverino, nella foga dello scrivere, ha dimenticato che “protagonista” significa “principale”. Un giovane cronista, sfornato dalla scuola di oggi dove non sappiamo, francamente, se i programmi prevedano ancora lo studio della grammatica e della sintassi, domanda a una giovane attrice esordiente “quali sono le prospettive per il futuro”. Forse c’è anche una prospettiva per il passato che in questo momento ci sfugge; sarà nostra cura informarci e se è cosí ve ne daremo conto nel nostro articolo “prossimo venturo”, come ci capita sovente di leggere o sentire. Prossimo non equivale a venturo?

   Ancora. A norma delle “vigenti leggi” l’imputato è stato condannato a cinque anni di reclusione: solo un giudice impazzito può applicare una legge che non è piú “in vigore” (vigente).

   Potremmo continuare ancora, ma non vogliamo tediarvi oltre misura; vogliamo solo ricordarvi, in proposito, che un giudice non “commina” una pena; la legge la “commina”, cioè la “prevede”.

mercoledì 24 marzo 2021

Dieci termini inglesi sostituibili con vocaboli italiani (secondo la Crusca)


 Dal sito "libreriamo" apprendiamo che l'Accademia della Crusca ha stilato un elenco di termini inglesi sostituibili con i rispettivi vocaboli italiani. Ci auguriamo che i "massinforma" (operatori dell'informazione) ne prendano atto...

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La lingua "biforcuta" della stampa

SIRIA

La strategia delle milizie filo-iraniane: acquistare case di lusso e terreni al confine con il Libano

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Correttamente: filoiraniane (meglio ancora filiraniane, con la crasi). I prefissi e i prefissoidi si scrivono uniti alla parola che segue. Filo- e crasi.






martedì 23 marzo 2021

Il plurale di "giramondo"?

 


Il DOP, Dizionario di Ortografia e di Pronunzia, è il solo — tra i vocabolari che abbiamo consultato — a legittimare il plurale di giramondo (oltre all'invariabilità) ed è anche l'unico a definirlo solo sostantivo maschile. Gli altri dizionari non ammettono il plurale e lo attestano come ambigenere: il giramondo, la giramondo. La "Garzantilinguistica.it", invece, stupisce: non attesta il termine, digitando giramondo compare la voce inglese globetrotter. Perché, dunque, il DOP, al contrario degli altri vocabolari, non disdegna il plurale di giramondo? Perché, secondo chi scrive, segue la regola della formazione del plurale dei nomi composti. Tale regola stabilisce che i nomi composti di una voce verbale e di un sostantivo maschile singolare formano il plurale regolarmente: il passaporto / i passaporti; il parafango / i parafanghi; il giramondo... i giramondi. Personalmente preferiamo lasciare il sostantivo invariato per un motivo di logica: il mondo è uno solo. Ma non è da censurare chi segue le indicazioni del DOP. Una ricerca con Googlelibri dà un leggera preferenza alla forma plurale: 23.300 occorrenze per i giramondo e 23.700 per i giramondi.

lunedì 22 marzo 2021

Il "linguaggio incestuoso"


 Quanto stiamo per scrivere – siamo sicuri – farà ridere molti sedicenti linguisti: se cosí sarà la cosa ci lascerà nella piú squallida indifferenza, certi della bontà di quanto sosteniamo. Si sentono e si leggono, molto spesso, frasi tipo "Giovanna è sposata con un figlio"; "Giovanni è sposato con una figlia". E allora? Direte.

Queste frasi ci fanno pensare a un incesto, un "incesto linguistico", potremmo dire. Sí, perché le frasi in oggetto richiamano, appunto, l'incesto: Giovanna ha sposato un figlio e Giovanni ha sposato una figlia.

Questo "incesto" si può evitare con l'aggiunta di una "e": Giovanna è sposata e con un figlio; Giovanni è sposato e con una figlia. Pedanteria? Giudicate voi, amici, amanti del bel parlare e del bello scrivere.

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Abbiamo scoperto, casualmente, che, nonostante non sia attestato nei vocabolari, esiste, o meglio esisteva, il verbo "insospettare". A nostro modesto avviso è di gran lunga preferibile al 'moderno' insospettire perché piú vicino al sostantivo dal quale deriva. Probabilmente questo verbo, fino a qualche secolo fa, apparteneva alla schiera dei verbi cosí detti sovrabbondanti (I e III coniugazione). Saremmo tentati di adoperarlo nel parlar comune, se non temessimo di essere tacciati di crassa ignoranza linguistica. Ma non è detto...

PS.: Dimenticavamo. Si dice insospettibile (insospettire) o insospettabile?

Perché, dunque, insospettare è stato cassato dal vocabolario?

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Gli abitanti di Fiumicino, città in provincia di Roma, comunemente sono chiamati “fiumicinesi”. E con ciò?, vi domanderete. Nulla.  Vogliamo solo dire che, a nostro modestissimo parere, sarebbe meglio denominarli “fiumicinensi” per non confonderli con i “fiumi cinesi”. Il suffisso “-ense”, inoltre, è voce più “dotta” di “-ese”, come fa notare il “Treccani”: «-ése (o -ènse) [lat. -ēnsis]. – Suffisso derivativo di aggettivi che denotano appartenenza geografica a città (barese, bolognese, londinese, milanese, torinese, viennese), regioni (abruzzese, calabrese, piemontese, pugliese), nazioni (danese, francese, norvegese, portoghese).

Molto più raramente si tratta di appartenenza sociale (borghese, cortese, marchese). Dall’uso sostantivato di francese, inglese e simili per indicare lingue straniere si è sviluppato un valore ironico o spregiativo del suffisso in derivati, talora occasionali, che si riferiscono al tipo di linguaggio adoperato da particolari gruppi di persone (burocratese, computerese, giornalese, politichese).

Di uso più dotto, quando disponibile, la variante -ense (cuneense, eporediense)». Sotto il profilo etimologico il nome proviene dal latino “flumen micinum”, vale a dire piccolo fiume o "foce micina", piccola foce con riferimento al canale che funge da attracco per le imbarcazioni. È una proposta “oscena”? Non crediamo, anzi… i "fiumicinensi", forse, sarebbero contenti. Invitiamo le competenti "autorità toponomastiche" a prendere in esame la proposta.





 



 

sabato 20 marzo 2021

Sgroi - 101 - La femminilizzazione dei nomi e le regole della lingua italiana. A proposito di "direttore/direttrice d'orchestra"

 


di Salvatore Claudio Sgroi

 

1. Michele A. Cortelazzo: tempestivo intervento su "direttore d'orchestra" o "direttrice d'orchestra"?

Nel suo blog del 6 marzo Michele A. Cortelazzo, storico della lingua e già presidente della Associazione per la storia della lingua italiana (ASLI), ha tempestivamente commentato la puntualizzazione di Beatrice Venezi che, in occasione del Festival di Sanremo il 5 marzo, ha dichiarato ad Amadeus di voler essere presentata come "direttore d'orchestra" e non già come "direttrice d'orchestra".

   1.1. Contestazione n. 1: non imporre agli altri il proprio uso allocutivo

M.A. Cortelazzo da un lato ha riconosciuto che Beatrice Venezi è sì "libera di voler essere chiamata direttore d'orchestra", ma nello stesso tempo ha precisato che "non ha, naturalmente, il diritto di imporlo agli altri parlanti, che sono liberi di usare l'espressione che ritengono una più corretta".

 1.1.1. Liberi sì, ma la cortesia?

Ora, gli altri sono sì "liberi di usare l'espressione che preferiscono", quando però parlano della Venezi, andava ugualmente precisato. Se invece parlano con la Venezi (uso allocutivo), è buona educazione -- direi -- adoperare il titolo da lei indicato come "corretto", "appropriato", i.e. direttore d'orchestra, a non voler essere scortesi.

 1.2. Contestazione n. 2: "Le professioni hanno un nome preciso e nel mio caso è 'direttore d'orchestra' " 

M.A. Cortelazzo ha anche contestato in prima battuta l'argomentazione della Venezi secondo cui "Le professioni hanno un nome preciso e nel mio caso è 'direttore d'orchestra'", in quanto "quella di Beatrice Venezi è -- per Cortelazzo -- un'affermazione sbagliata".

La prova per dimostrare l'affermazione "errata" della Venezi apportata da Cortelazzo, è in realtà solo una -- peraltro preziosa -- ricerca delle prime attestazioni del composto largo direttrice d'orchestra, sulla scorta di archivi elettronici, che integra anche il Grande dizionario [storico] della lingua italiana di S. Battaglia, carente al riguardo. Cortelazzo, da agguerrito storico della lingua, data così l'espressione con vari ess. del 1851, 1858, 1874, 1904, 1921, 1938, 1939, 1951, 1969, 2005.

 1.3. Il direttore d'orchestra 2003, 2004

Sarebbe stato invero non meno utile datare l'espressione al maschile direttore d'orchestra riferito invece a una donna. Ricerca più onerosa perché il direttore d'orchestra, è molto più frequentemente adoperato per riferirsi a un uomo, e l'analisi semantica con discriminazione dei due referenti (maschio e femmina) richiede molta pazienza.

Con relativa pazienza ho pescato in "Google books ricerca avanzata" una terna di esempi di direttore d'orchestra riferito a una donna, risalenti al 2004 (ma la ricerca andrebbe certamente approfondita), successivi quindi all'ottocentesco direttrice d'orchestra:

 (i) "Testimonianze su Carmen Càmpori in occasione della Tavola Rotonda sul volume

'Carmen Càmpori : una donna direttore d'orchestra', a cura di L . Navarrini Dell'Atti, Firenze, Consiglio Regionale della Toscana - Commissione, Olschki 2004" (in Il saggiatore musicale, p. 231);

(ii) "prima donna direttore d'orchestra Ethel Leginska [1886-1970]"    ;

(iii) "un sito web che promuove la donna direttore d'orchestra" (entrambi in Storia di una "novità": la direzione d'orchestra al femminile. Atti della Giornata Internazionale di Studi, Firenze, 19 giugno 2003, Consiglio regionale della Toscana, Commissione regionale pari opportunità donna-uomo, 2004, pp. 117, 290).

 

1.4. Criterio di correttezza/erroneità: l'uso piú antico è quello corretto?

Alla luce di quanto sopra, sembrerebbe allora che il criterio implicito di correttezza adottato da M. Cortelazzo è/sia quello dell'uso più antico (direttrice d'orchestra), qui risalente alla seconda metà dell''800. Ma la (retro)datazione non può costituire, ribadisco, una prova per dimostrare l'erroneità di una forma.

 2. Le regole di formazione del femminile in italiano

Se in un'ottica sincronica e strutturale teniamo conto del micro-sistema di regole di femminilizzazione in italiano, l'esempio direttrice (d'orchestra) rientra nella classe dei [I] "nomi mobili" con [I.a] suffisso pieno, ess. attore/attrice, direttore/direttrice, accanto a quelli con [I.b] suffisso zero, per es. bimb-o/a, cavall-o/a. Ma esiste anche la classe dei [II] "nomi ambigeneri" ess. il/la dirigente, il/la presidente, il/la prof (maschio il maschile, femmina il femminile). E la classe [III] dei "nomi promiscui unigeneri" sia "non-umani" ess. il serpente, la volpe, sia "umani" ess. la guida, la spia, la star, entrambi cioè con referenti sia maschi/uomini che femmine/donne.

 2.1. Le regole dei nomi di professione o cariche pubbliche

Nel caso di nomi di professioni o cariche pubbliche, per es. deputat-o, ministr-o, dirett-ore, presidente, i parlanti oscillano -- per ragioni ideologiche -- tra il ricorso alla classe dei [I] "nomi mobili" con due generi grammaticali e due referenti l'uno 'maschio' l'altro 'donna' ess. deputat-o/a, ministr-o/a, dirett-ore/rice, o alla classe dei [II] "nomi ambigeneri" per es. il presidente/la presidente da un lato e dall'altro alla classe dei [III] "nomi promiscui unigenere", ess. il deputato, il ministro, il direttore, il presidente con referente sia 'uomo' che 'donna'.

Detto in altre parole, i parlanti con uno stesso termine possono applicare, a scelta, tre regole:

la [Regola-1] del "nome mobile", con due generi per es. s.m. il deputato, il ministro, il direttore vs s.f. la deputata, la ministra, la direttrice, ecc.

o la [Regola-2] del "nome ambigenere" per es. il presidente vs la presidente, il ministro vs la ministro, in cui si fa riferimento' sia a) al 'ruolo di parlamentare, ecc.' sia al sesso 'maschio' in un caso e 'femmina' nell'altro;

e la [Regola-3] del "nome promiscuo unigenere", con riferimento a entrambi i sessi, maschio e femmina, ess. il deputato, il ministro, il direttore, il presidente riferito a 'uomo' o 'donna', in cui si focalizza solo il 'ruolo', mentre il sesso rimane non-specificato, ovvero "promiscuo".

L'applicazione della [Regola-3] del "nome promiscuo unigenere" è preferita dai parlanti-donne che vogliono sottolineare il loro ruolo professionale, azzerando il riferimento al sesso femminile.

 2.2. "Corretta" la scelta della [Regola-1] del "nome mobile" e "scorretta" la scelta della [Regola-3] del "nome promiscuo unigenere"?

Non è quindi giustificato etichettare quale "corretto uso del genere grammaticale", come sostiene invece M.A. Cortelazzo, solo la [Regola-1] del "nome mobile", ovvero l'espressione direttrice d'orchestra. E per converso giudicare scorretto l'uso di chi, donna, invece -- per precise ragioni ideologiche -- preferisce la [Regola-3] del "nome promiscuo unigenere", e dire direttore d'orchestra.

Ovvero, le donne, per ragioni opposte, e per me -- laicamente -- legittime scelgono ideologicamente chi la [Regola-1] del "nome mobile" (es. la direttrice) o la [Regola-2] del "nome ambigenere" (es. la presidente) per sottolineare in primo luogo l'essere donna e poi il proprio ruolo, chi invece la [Regola-3] del "nome promiscuo unigenere" (es. il direttore) per focalizzare il proprio ruolo sociale rispetto alla propria identità sessuale azzerata.

In entrambi i casi, non andrebbe dimenticato che la funzione in prima istanza del "genere grammaticale" dei nomi (animati e non-animati) è quella di contribuire alla coesione morfo-sintattica dell'enunciato.

 3. Criteri della correttezza normativa

Per riprendere, infine, il nodo normativo dell'uso errato, da non confondere col problema storico della datazione o con la individuazione delle Regole strutturali, il criterio pertinente, più volte in questo blog (e altrove) ricordato, è quello dell'uso esclusivamente popolare, cioè dei parlanti semi(n)colti o della incomprensibilità di un uso: condizioni che non si realizzano affatto nel caso di "direttore d'orchestra" in bocca a Beatrice Venezi.

                                             

Sommario

1. Michele A. Cortelazzo: tempestivo intervento su "direttore d'orchestra" o "direttrice      d'orchestra"?

1.1. Contestazione n. 1: non imporre agli altri il proprio uso allocutivo   

1.1.1. Liberi sì, ma la cortesia?

1.2. Contestazione n. 2: "Le professioni hanno un nome preciso e nel mio caso è 'direttore d'orchestra' "

1.3. Il direttore d'orchestra 2003, 2004


1.4. Criterio di correttezza/erroneità: l'uso piú antico è quello corretto?

2. Le regole di formazione del femminile in italiano

2.1. Le regole dei nomi di professione o cariche pubbliche


2.2. "Corretta" la scelta della [Regola-1] del "nome mobile" e "scorretta" la scelta della [Regola-3] del "nome promiscuo unigenere"?

3. Criteri della correttezza normativa




 

                                                                                                                    

venerdì 19 marzo 2021

Tutti a pranzo


 Alcuni amici blogghisti ci hanno scritto pregandoci di trattare - nelle nostre noterelle - argomenti... culinari: pranzo, cena e colazione, naturalmente sotto il profilo “etimo-linguistico”. I nostri amici sostengono di aver consultato - alla bisogna - buona parte dei vocabolari a loro disposizione non trovando, però, piena soddisfazione. Apriamo, dunque, un qualsivoglia vocabolario alle voci in oggetto (pranzo e cena) e leggiamo: cena, il pasto della sera, dal latino “cena”, ‘pasto principale’, ‘pranzo’; al lemma pranzo: il pasto principale che di solito si fa sul mezzogiorno, dal latino “prandium”. In effetti c’è un po’di confusione in quanto il “pasto principale”, vale a dire il ‘pranzo’ si trova anche alla voce cena. Pranzo e cena, dunque, sono sinonimi? Nient’affatto. Vediamo come stanno le cose dando la parola a Giuseppe Pittàno.

Sulla terminologia conviviale l’incertezza e la confusione sono oggi  abbastanza grandi. Per capire qualcosa sarà bene rifarci un po’ alla storia. Gli antichi romani distinguevano nettamente tra colazione del mattino (‘ientaculum’), il pasto di mezzogiorno (‘prandium’, una specie di refezione a base di roba fredda e di avanzi che si consumava senza neppure sedersi) e il pasto principale (‘cena’), ricco di portate che assumeva spesso l’aspetto di un vero e proprio banchetto. La cena iniziava di solito alle 3 del pomeriggio e si protraeva fino a notte inoltrata. Naturalmente la cena era l’occasione migliore per incontrarsi con gli amici, per discutere , per aggiornarsi sui problemi politici, culturali, economici e per assistere a spettacoli. Crollato lo splendore di Roma, la cena perdette col tempo il suo prestigio e il pranzo di mezzogiorno divenne il pasto principale. Quando nacque la lingua italiana, la colazione indicava il breve pasto del mattino, il pranzo il pasto principale della giornata e la cena la frugale consumazione serale. Nacquero di qui anche le determinazioni di tempo, ‘dopo pranzo’ per indicare il pomeriggio e ‘dopo cena’ per indicare le ore della sera. Questo l’uso comune. Nell’uso particolare, invece, le cose variano da regione a regione. Nelle zone industriali, ad esempio, il pranzo meridiano ha perduto il suo significato di pasto principale, poiché molti consumano in fretta qualcosa sul posto di lavoro o alle tavole calde e solo alla sera le famiglie si riuniscono intorno alla tavola; la cena è tornata cosí a diventare il pasto principale della giornata e va pan paino assumendo il significato di pranzo. Si sposta quindi l’ordine delle parole per cui la colazione è il pasto di mezzogiorno, il pranzo è il pasto della sera e la parola cena è ormai usata per indicare una riunione conviviale a tarda ora: la cena di S. Silvestro, una cenetta tra amici, ecc. A scanso di equivoci, nei casi particolari, sarà bene dire: ‘vi aspetto a pranzo per le 13.00’, oppure: ‘vi aspetto a pranzo per le 21.00’.

E visto che siamo in tema culinario perché non parlare anche della merenda che si deve... meritare? Dal verbo latino “merere” (guadagnare, meritare) discende, infatti, il nome di quel piccolo pasto pomeridiano che si dà ai fanciulli: “merenda” (cose che si debbono meritare).

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La parola proposta da questo portale, presa dal Treccani: geobio. Sostantivo maschile con il quale si designano gli esseri viventi che popolano l'universo.





Qui la recensione dell'Ordine dei giornalisti.


giovedì 18 marzo 2021

Italiano? No, arabo


  Spesso parliamo "arabo" e non ce ne rendiamo conto. Il nostro idioma è ricco di arabismi entrati a pieno titolo nel nostro patrimonio linguistico. L’arabismo, in linguistica, è ogni parola o espressione araba o di origine araba entrata nell’uso comune del nostro idioma, solitamente con modificazioni della grafia e della pronuncia sì da adeguarsi perfettamente ai sistemi  grafici e fonetici della nostra lingua.

    Non crediamo sia il caso di dilungarci sui motivi storici che hanno favorito l’ingresso degli arabismi nella lingua; tutti, più o meno, li conosciamo: le Crociate, la dominazione araba in Sicilia, i rapporti commerciali. Ciò che interessa in questa sede è stabilire il fatto che i contatti con la cultura araba, quindi con la lingua, vanno dal IX al XV secolo, con punte elevatissime nei secoli XI e XIII, per scomparire definitivamente in età moderna. Vediamo un breve elenco di termini arabi che adoperiamo inconsciamente, sperando di non tediarvi.

    Gli arabi, dunque, ci hanno dato vocaboli marinareschi come ammiraglio, darsena, arsenale, aguzzino (il guardiano degli uomini addetti ai remi nelle imbarcazioni); molti nomi di piante: spinaci, carciofo, albicocco, melanzana, arancio, limone; termini commerciali: tariffa, magazzino, dogana, gabella, fondaco; parole astronomiche e geografiche: scirocco, almanacco, nadir, libeccio, zenit; nomi di stoffe: cotone, giubba; termini di misure: quintale, risma, rotolo; vocaboli vari quali alcole, zecca, zafferano, facchino, divano, ragazzo, marzapane e un termine caro agli sportivi: bagarino.

    Ancora: talco, ambra, alambicco, elisir, antimonio. Dimenticavamo di dire che scriviamo anche in... arabo: i numeri (le cifre) non vi dicono nulla?

 Abbiamo piluccato qua e là fra i più comuni arabismi senza preoccuparci di indicare la data del loro ingresso nella lingua italiana perché le attestazioni, molto spesso, sono incerte.


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La parola (quasi sconosciuta) proposta da questo portale, presa dal Treccani: cicindello. Sostantivo maschile con il quale si indica una piccola lucerna.

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La lingua "biforcuta" della stampa

La diatrtiba nella comunità del Biellese: padre Cencini ribatte alle accuse di Bianchi. In campo per la mediazione i cardinali Versaldi e Zuppi

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Correttamente: ribatte le accuse (non alle). Dizionario Sabatini Coletti: ribattere

[ri-bàt-te-re] v. (coniug. come battere)

·         v.tr. [sogg-v-arg]

1 Battere qlco. un'altra volta o ripetute volte: r. un chiodo

2 Riscrivere a macchina un testo: r. una pagina

3 Respingere qlco., rimandarlo indietro: r. la palla

4 fig. Contraddire un'affermazione: r. le accuse; con l'arg. sottinteso, replicare: è sempre pronto a r.