lunedì 30 novembre 2020

Osservazioni... "verbali"


 
Il verbo paragonare - forse non tutti lo sanno - ha due distinti significati e si costruisce, per tanto, con due diverse preposizioni:  'con' e 'a'. Cominciamo con il dire che è transitivo e in quanto tale, nei tempi composti, prende l'ausiliare avere. Ma veniamo al dunque. Quando ha l'accezione di confrontare e simili richiede la preposizione con: caro amico, non puoi paragonare (mettere a confronto) il tuo lavoro con quello di Osvaldo. Nel significato di assomigliare è seguito dalla preposizione a: visto il tuo comportamento ti paragono un animale.

Due parole sul verbo "diffidare" perché non sempre è adoperato correttamente. Questo verbo, dunque, appartiene alla prima coniugazione ed è intransitivo. Significa "sospettare", "non fidarsi", "non riporre fiducia", "dubitare" e simili e si costruisce con la preposizione "di" (non "da", come si legge sempre sulla stampa): diffidate "delle" imitazioni, dunque (non "dalle"). Adoperato transitivamente acquisisce il significato di "intimare di compiere o non compiere una determinata azione": la polizia ha diffidato il malvivente a presentarsi  in questura ogni mattina per apporre la firma sul registro; il preside ha diffidato gli alunni a non fumare nelle aule e nei corridoi della scuola. È in uso anche la forma "diffidare da" (nel senso di "non compiere una determinata azione"): il preside ha diffidato gli alunni dal  fumare nelle aule e nei corridoi della scuola. A nostro avviso non è un uso da seguire.

Si presti attenzione ai verbi schiattare e schiattire, non sono sovrabbondanti, non sono, per tanto, l'uno sinonimo dell'altro. Il primo, della prima coniugazione, significa "scoppiare", "crepare" e simili. Il secondo, della terza e coniugato nella forma incoativa (con l'inserimento dell'infisso "-isc-" tra il tema e la desinenza), sta per "emettere brevi gridi" ed è sinonimo di "squittire".

Due parole sul verbo intransitivo vaporare, che nei tempi composti può prendere tanto l'ausiliare avere quanto l'ausiliare essere, ma non ad capochiam. Prenderà l'ausiliare avere quando sta per esalare vapore (quando è stato tolto il coperchio il liquido ha vaporato); l'ausiliare essere quando assume l'accezione di svanire (non è stato trovato più nulla: tutto era vaporato).

Incurvare e incurvire. Il primo verbo, della prima coniugazione, è transitivo e significa "rendere curvo": Giovanni, da solo, è riuscito a incurvare una grossa sbarra di ferro. Adoperato riflessivamente assume il significato  di "diventare curvo": Paolo si è incurvato sempre di piú. Incurvire, della terza coniugazione, è intransitivo e vale "diventare curvo" (come il primo adoperato nella forma riflessiva): con il trascorrere degli anni l'uomo incurvisce. In alcune persone del presente indicativo e del presente congiuntivo si coniuga con l'inserimento dell'infisso "-isc-" tra il tema e la desinenza.

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La lingua "biforcuta" della stampa

IL CONCORSO

Boom di candidature per 100 posti da netturbino: arrivate all'Ama 40mila domande

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Correttamente: posti di netturbino.

Treccani: 6. a. Impiego, ufficio che costituisce l’occupazione abituale e da cui si traggono, tutti o in parte, i mezzi di sostentamento: essere alla ricerca di un p.; trovare un p.; offrireprocurare un p.; avere un buon p., un ottimo p., un pmiseromodestoperdereconservare il p.; ci tengo al mio p.!; seguito dalla specificazione dell’impiegomettere a concorso trecento pdi maestroè vacante il pdi segretariodi redattore capo; anche con riferimento a cariche elevate: aspirare a un ppiù altosi sono presi i pmiglioriavereoccupare un pdi grande responsabilitàessere ai pdi comando. 



domenica 29 novembre 2020

Quale accento sul "che"?

 


Se non cadiamo in errore nessun sacro testo grammaticale in nostro possesso, a eccezione del Dizionario Grammaticale di Vincenzo Ceppellini, spiega che esistono due che accentati, uno con l'accento acuto l'altro con quello grave e cambiano di significato a seconda dell'accento.


Riportiamo dal Ceppellini:

«(Ché) con l'accento acuto è aferesi di perché. Congiunzione causale. Esempio: Me ne vado, ché non ne posso piú. Con l'accento grave (chè) si usa nelle esclamazioni per indicare meraviglia. Esempio: Chè! Non ti fermi un poco?; Chè!, te la prendi per così poco?».





giovedì 26 novembre 2020

Le scuole "riaprono" o "si riaprono"?

 


Riproponiamo un nostro vecchio intervento, pubblicato su Il cannocchiale, sull'uso "corretto" del verbo riaprire a proposito della riapertura delle scuole.

 Pregiatissimo Signor Direttore, 

   confidando nella sua ormai nota e cortese disponibilità, la preghiamo di pubblicare sul suo prestigioso  “blog” la lettera aperta che le inviamo perché i lettori – amatori della nostra meravigliosa lingua italiana – possano venire a conoscenza della costituenda A.N.Pa.Vi.G.I. (Associazione Nazionale Parole Vittime Giornalisti Ignoranti) per la salvaguardia e l’onorabilità delle parole vittime dell’ignoranza linguistica di taluni giornalisti. Con il termine parola si intende, naturalmente, ciascuna delle nove parti del discorso non adoperate in modo corretto da chi, per il suo mestiere, dovrebbe essere dispensatore di cultura linguistica.

    Coloro, quindi, che si ritengono danneggiati dal cattivo uso del loro nome potranno scrivere – una volta espletate le formalità di legge per la costituzione dell’Associazione – alla nostra Amministrazione la quale, sentito il parere dei probiviri, provvederà a mettere alla gogna gli autori dell’ “atto criminoso”.

 Promotori dell’iniziativa sono i verbi Iniziare, Riaprire e Presiedere, quest’ultimo – grazie al suo nome – assumerà la presidenza dell’Associazione. I predetti verbi, dunque, ritenendosi i piú calpestati dalla stampa scritta e parlata, hanno deciso – con la presente lettera – di fare chiarezza, una volta per tutte, sul loro corretto impiego.

  Cominciamo con il verbo Iniziare il quale, essendo solo transitivo, non può essere adoperato intransitivamente come, invece, possono essere usati i colleghi Cominciare e Incominciare. Iniziare, insomma, significando  “dare inizio” ed essendo, appunto, esclusivamente transitivo, deve essere introdotto da un soggetto animato che compia l’azione, cioè che  “dia inizio” a qualcosa. È tremendamente errato, per tanto, scrivere (o dire) frasi tipo “domani la Camera inizia la discussione sulla proposta di legge presentata dai capigruppo”, come ci ‘propina’ la stampa a ogni piè sospinto. Come può la Camera, soggetto inanimato, compiere l’azione del “dare inizio”? Cosa fare, allora? Semplice, si ricorre alla particella  “si” e si forma un  finto passivo: domani alla Camera   “si inizia”....

   E veniamo a Riaprire, lasciando al neopresidente Presiedere il compito di chiudere questa lettera. Riaprire, lo dice la stessa parola, significa  “aprire di nuovo” e può essere tanto transitivo quanto intransitivo pronominale (riaprirsi). E qui sta il punto. È intransitivo pronominale quando vale "riprendere una attività" e simili e in quanto tale deve essere sempre accompagnato con la particella... pronominale. È un grossolano errore dire, per esempio, il cinema chiude alle 17.00 e riapre alle 21.00. Si deve dire, correttamente,  “si riapre” alle 21.00. Alcuni vocabolari sostengono, in proposito, la tesi secondo la quale quando  “riaprire” sta per  “riprendere la normale attività” si può adoperare da solo, senza la particella pronominale: quando ‘riaprono’ le scuole?

     No, amici, non seguite questi esempi forvianti. Si deve dire, in forma corretta: quando ‘si riaprono’ le scuole? Diamo ora la penna, per la conclusione, al presidente Presiedere.

Amici carissimi, io sono – contrariamente a quanto credono i piú – un verbo propriamente intransitivo e in quanto tale devo essere seguito dalla preposizione  “a”: presiedere ‘a’ una cerimonia. Alcuni, quando vogliono mettere in evidenza il mio riferimento all’esercizio diretto e immediato di una carica, mi adoperano con significato transitivo: presiedere ‘un’ congresso. È un uso, questo, che tollero; in buona lingua italiana, però, è da evitare.

      Grati della vostra attenzione, vi salutiamo e ringraziamo il Direttore della sua squisita ospitalità.

I promotori della

A.N.Pa.Vi.G.I.

mercoledì 25 novembre 2020

L'importanza della scrittura manuale

 



Un interessante articolo di Rosario Coluccia, pubblicato sul sito della Crusca, sull'importanza della scrittura manuale. 






Un bel libro che ci porta alla scoperta di numerosi modi di dire della lingua italiana, noti e meno noti. Con la prefazione di Claudio Marazzini, presidente dell'Accademia della Crusca, arricchito con un'ampia appendice di Salvatore Claudio Sgroi, già ordinario di linguistica generale presso l'Ateneo di Catania.

lunedì 23 novembre 2020

Evitiamo - quando possibile - i troppi "issimi"

 


Il nostro mestiere, per "vocazione", ci porta a spulciare, qua e là, tra le varie opere di gente di cultura e “grandi firme” del giornalismo. Bene. Abbiamo notato il fatto che, molto spesso, i loro scritti abbondano di parole terminanti in “-issimo”; abbondano, insomma, di superlativi. Ciò non sempre a vantaggio della scorrevolezza e della bellezza stilistica del periodo. Sappiamo benissimo – chi può negarlo? – che alcune volte il superlativo è indispensabile per esprimere lo stato d’animo in cui veniamo a trovarci nel momento in cui scriviamo e desideriamo, quindi, metterlo nella massima evidenza con quelle parole terminanti in “-issimo”: bellissimo; carissimo; lodevolissimo e via dicendo. Il superlativo, insomma, a volte è sommamente indispensabile.

Come fare, allora, per evitare tutti quegli “-issimi” che rovinano i nostri pur pregevoli scritti? “Semplicissimo”. Basta abituarsi a usare – per quel senso di misura che, come tutte le attività umane, anche nella lingua è fondamento di bellezza e di chiarezza – più frequentemente gli avverbi “molto” e “assai” per formare, appunto, il superlativo. Così facendo molti “-issimi” scompariranno d’incanto rendendo il periodo più bello e soprattutto più scorrevole. Gli avverbi “molto” e “assai”, oltre tutto, vengono in nostro aiuto specialmente quando con la desinenza “-issimo” si renderebbe l’aggettivo di brutta o difficile pronuncia. Perché dire, per esempio, “variissimo”; “stufissimo”; “restiissimo” quando la nostra lingua ci dà la possibilità di dire – e con un certo effetto – molto vario; assai carico, assai stufo; molto restio? 

Ci sono, insomma, tanti altri modi per esprimere il grado del superlativo assoluto senza “incaponirsi” con gli “-issimi”. Se non piacciono gli avverbi molto e assai se ne possono adoperare altri come “enormemente”; “sommamente”; “eccessivamente”; “straordinariamente” e via dicendo: sommamente ricco; estremamente intelligente. Anche in questo caso, tuttavia, è bene adoperarli con parsimonia. Il troppo…

Concludiamo queste modestissime noterelle, anzi assai modeste (altrimenti predichiamo bene e razzoliamo male) ricordando anche che si può ovviare all’uso eccessivo degli “-issimi” con alcuni prefissi: “arci-”; “ultra-”; “super-”; “extra-”. Possiamo dire, quindi: ultrarapido; superveloce; arcistufo. La cosa importante – e da non dimenticare – consiste, in questo caso, nello scrivere il prefisso attaccato all’aggettivo (mai con il trattino). Lo dice la stessa parola “prefisso”: attaccato, fissato prima.

La lingua, insomma, ci offre ampia possibilità di scelta per la formazione del superlativo assoluto, non ultima il raddoppio degli aggettivi stessi: sono stanco stanco (cioè: stanchissimo); il bimbo era buono buono, vale a dire buonissimo. Perché, dunque, tutti quegli “-issimi”?


domenica 22 novembre 2020

Osservazioni...


 Sedurre significa, propriamente,  "condurre a sé", quindi piegare una persona ai propri desideri.  I vocabolari lo attestano anche con il significato di "avvincere", "piacere", "attrarre", "commuovere", "dilettare" e simili: quel film mi ha proprio sedotto. Un film come può sedurre una persona? Come può piegarla ai propri voleri? Gli amanti della buona lingua usino il predetto verbo, quindi, solo nel significato proprio.

Non crediamo di peccare di presunzione se affermiamo che la stragrande maggioranza (tutti?) dei nostri lettori non ha mai sentito parlare dei "verbi famulatori" in quanto l'argomento è snobbato dai sacri testi grammaticali, quelli in nostro possesso, per lo meno. Sono cosí chiamati, dunque, i verbi servili o modali (volere, dovere, potere). Famulatorio è un aggettivo deverbale, non attestato in alcuni vocabolari, e vale "servizievole", "servile" e simili. Viene dal latino "famulatorius", da "famulatus", participio passato di "famulari" (essere disponibile, servizievole). I verbi dovere, volere e potere, dunque, sono famulatori perché sempre "servizievoli" nei confronti degli altri verbi.

Siamo rimasti "paralizzati" nel vedere che molti "scrittori" pluralizzano il sostantivo "paracadute" in "paracaduti". Il termine in oggetto è un nome composto di una voce verbale (parare) e un sostantivo femminile plurale (cadute) e i vocaboli cosí composti nella formazione del plurale mutano soltanto l'articolo: il paracadute, i paracadute.

I vocabolari dell'uso non attestano "ripugnevole" ma "ripugnante".  A nostro modo di vedere, invece, sarebbe da registrare perché è formato con il suffisso -evole. Da biasimare abbiamo biasimevole, da bisognare bisognevole ecc.; perché da ripugnare non dovremmo avere ripugnevole? Ripugnevole si trova, comunque, in alcune pubblicazioni.

Il verbo rimarcare, dal "sapore" francesizzante (è tratto, infatti, dal francese remarquer), significa "marcare di nuovo". Non ci sembra corretto usarlo con il significato di "osservare", "notare", "considerare", "rilevare" e simili: Giuseppe gli ha fatto rimarcare il suo comportamento indecoroso. I vocabolari, però...  Ma tant'è.





 

venerdì 20 novembre 2020

Lanaia - 3 - Scappacavalli: un regionalismo siciliano?


 di Alfio Lanaia *

1. L’evento letterario

Nell’introduzione al Glossario della ristampa selleriana (1998) del romanzo Un filo di fumo (I ediz. Garzanti 1980), Andrea Camilleri scrive: «Il romanzo viene ristampato ora a distanza di diciassette anni e il glossario, nel frattempo, è diventato superfluo. Se, d’accordo con Elvira Sellerio, lo ripubblichiamo è perché la cosa sottilmente ci diverte».  Fra le parole spiegate nel Glossario troviamo «Scappacavallo: carrozzino aperto a due posti, leggero, tirato da un solo cavallo» (p. 143). Ecco allora il contesto d’uso della parola:

Padre Imbornone aveva cominciato a fare voci che gli preparassero il suo scappacavallo che ancora la parte poppiera della Tomorov non si era inclinata … (p. 106).

Ed ecco un altro esempio:

Deve venire in paese, ho portato lo scappacavallo. La signora marchesa sta morendo (La stagione della caccia, 1992, p. 64; altri usi in La scomparsa di Patò 2000 [= Oscar Mondadori 2002] (p. 189), Il re di Girgenti, 2001, p. 307,  Privo di titolo, 2005, p. 139, Il casellante, 2008, p. 64).   

2. Glossario superfluo?

Invano il lettore camilleriano cercherebbe  scappacavallo nei dizionari dell’uso per conoscerne il significato, essendo la parola registrata dal Grande dizionario della lingua italiana  (= GDLI  XVII 829) e in una forma alternativa: scappacavalli «Tipo di calesse leggero». Fra i dizionari etimologici la voce è registrata dal Lessico Etimologico Italiano  (= LEI IX 153).

 3. La marca d’uso è la (presunta) data di prima attestazione

Oltre all’indicazione grammaticale, «Invar[iabile].», il GDLI ci informa che si tratta di un regionalismo, indicandoci anche la data (presunta), 1965, di prima attestazione, con la citazione di un brano tratto da La cugina, di Ercole Patti:

Carrozzini  e  scappacavalli  a  due  posti,  che avevano partecipato a molti corsi dei fiori.

Il nome verrà usato anche in un altro  romanzo dello scrittore siciliano,  Un bellissimo novembre (1967, p. 103):

Sasà invece era più adatto a lei, robusto, ricco; oltre all'Alfa aveva anche uno scappacavalli molto elegante al quale talvolta attaccava un sauro dai garretti fasciati di bianco, bellissimo.

In realtà, ben prima che da Ercole Patti, scappacavalli era stato già usato da un altro scrittore siciliano, Salvatore Spinelli, ne  Il mondo giovine, 1958, p. 6:

Stefano! attacca la giumenta allo scappacavalli. Luca, tu bada a Turi, se ha fame o sete.

Ma è possibile retrodatare il nostro  composto almeno al 1930 con   Antonio Aniante, nel romanzo Ultime notti di Taormina, p. 11:

Il commerciante che ha un debole per siffatto carrozzino detto più comunemente saltafossi o scappacavalli

Ancora un’altra attestazione nel Figlio del sole del 1965 (p. 239):

[…] allor che scenderanno in città, da Castagneto, carichi di trecce di aglio, chi a piedi, chi in «scappacavalli», chi sui carri istoriati e tutti zeppi d’aglio, ornati di oro finto …

4. La struttura morfologica

Il GDLI considera scappacavalli un composto di ‘verbo + nome’, cioè dell’imperativo di scappare e del nome cavallo. Secondo Sgroi (Problemi teorici e descrittivi dei composti verbo-nominali, in «Quaderni del dipartimento di linguistica. Università della Calabria», n. 27, 2019, pp. 287-319, a p. 307), invece, si tratta di un composto subordinato (‘verbo+nome-soggetto’) esocentrico, cioè con  testa semantica fuori del composto. Il nostro lessema è infatti interpretabile come «‘calessino a due posti, con cui i cavalli scappano, partono a razzo’».

 5. Etimo diacronico

Poiché, oltre che per il GDLI e il LEI,  anche secondo Sgroi si tratta di un sicilianismo letterario, scappacavalli non può non derivare dal sic. scappacavaddi,  scappacavaddu, scappacavalli ‘carrozzino a due ruote e ad un cavallo, gen. usato per le corse al trotto’, seconda la definizione del Vocabolario Siciliano (= VS) a c. di Piccitto-Tropea-Trovato 1977-2002. La var. scappacavaḍḍu è di area catanese e sud-orientale, scappacavaddi è attinta dal VS al Vocabolario siciliano italiano per tutti, manoscritto inedito di Giuseppe Trischitta, compilato tra il 1875 e il 1930 circa.

Fra i pochissimi usi letterari della voce siciliana citiamo un brano tratto da un’opera teatrale di Giuseppe Fava del 1988 (Teatro, 4 voll. Da Google libri):

 

PASQUALE — Che io sono venuto per seguire una comanda di padre e parroco ppa signurinedda . . . Cola — Senti , senti . ... PASQUALE – Sautafossa . . . ? Voscenza virissi . . . si’ ccattaru tutti i scappacavaddi novi ...

 

6. Attestazioni non siciliane

Come abbiamo visto, tutte le attestazioni scritte del composto provengono da scrittori siciliani, perciò non dovrebbero esserci dubbi sulla provenienza di scappacavalli/scappacavallo. Con le risorse informatiche di cui adesso si dispone è possibile, tuttavia, modificare, almeno in parte, il nostro giudizio. Grazie, infatti, a google libri è possibile trovare altre attestazioni della nostra voce, letterarie o di altro genere.

 

Una prima attestazione è quella della scrittrice napoletana, ma con trascorsi palermitani, Alessandra Lavagnino,  che ambienta il suo romanzo in Sardegna (I Daneu. Una famiglia di antiquari, 2003, p. 146):

 

Ieri dunque con ottimo scappacavallo abbiamo traversato la Baddemanna (Vallegrande ) che ci divide da Oliena.

 

Molto più interessante risulta, invece, questo testo che rappresenta, finora, l’attestazione più antica, risalendo al 1882, ma soprattutto perché è scritto da uno scrittore settentrionale, Alberto De Mojana (Milano, 1835-1909), autore di una cronaca di costume  (Excelsior! II, in «La scuola cattolica», A. X, vol. XIX, 1882,   pp. 169-183, a  p. 174.)

 Vi trovava ammaestramento e divertimento l’elegante, intelligente, appassionato dello Sport, vagante in profonde considerazioni, in quell’ampia, ariosa, luminosa rimessa di carrozze fra uno stage del Sala e un landau a scappa cavalli del Majnetti.

7. I social media

Anche se poco numerose, anche nei social media troviamo usato il nostro composto. Nel primo esempio è interessante l’uso aggettivale di scappacavallo. Ecco due esempi campionario:

 

1. dovetti imparare a fare il nodo scappacavallo che si scioglie dalla sella con uno strattone portando via la corda. (moderatore sul forum cavalloplanet.it del 4/01/ 2014).

 

2. Vendo scappacavallo 2 posti 3 balestre, tutto di legno compreso di sedile di pelle a 300 euro. Buono stato. (S.M. Capua Vetere del 27/1/2020).

 

8. Conclusioni provvisorie

Dai dati che abbiamo potuto raccogliere, è indubbio che la maggior parte delle attestazioni del composto  inducano a considerare scappacavalli/scappacavallo un sicilianismo letterario. La più antica attestazione, tuttavia, rimanda a una provenienza settentrionale. Se è possibile azzardare un’ipotesi, si potrebbe pensare a un centro di diffusione legato alle gare ippiche dal quale sarebbe giunto in Sicilia.

          Sommario

1. L’evento letterario

2. Glossario superfluo?

3. La marca d’uso è la (presunta) data di prima attestazione

4. La struttura morfologica

5. Etimo diacronico

6. Attestazioni non siciliane

7. I social media

8. Conclusioni provvisorie

 

* docente di linguistica generale presso l' Università di Catania










 

 

giovedì 19 novembre 2020

Buttare (o andare ) in vacca

 


La porta della stanza del rag. Spintoni si spalancò all'improvviso e comparve, infuriato, il dott. Biondoni, che rivolto verso il ragioniere esclamò: «Stia attento, Spintoni, la sto osservando da diversi giorni, per non dire settimane, trascorre buona parte del tempo al telefono o risolve le parole incrociate invece di sbrigare le pratiche! È andato proprio in vacca. Ma, attenzione; posso chiedere il suo licenziamento e non ci saranno, mi creda, sindacalisti che potranno opporre resistenza; quando si va in vacca si perde anche il diritto alla difesa d'ufficio».


Spintoni impallidì, le parole del Capo del Personale lo avevano intimorito; non riusciva a capire, però, che cosa intendesse dire il dr Biondoni con l'andare in vacca. Glie lo spiegò un suo collega.

Noi cercheremo di spiegarlo agli amici lettori che sentono per la prima volta questo modo di dire, di uso, per la verità, popolare. «Andare (o buttare) in vacca», dunque, si dice di una persona che all'improvviso diventa svogliata e pigra, che delude, insomma le nostre aspettative; si dice anche di un affare i cui esiti non sono quelli sperati.

E le vacche che cosa c'entrano? C'entrano perché così sono chiamati i bachi da seta che, ammalati, non fanno più il bozzolo. Si dice, infatti, che i bachi da seta vanno in vacca quando si ammalano di giallume: si gonfiano (diventano "vacche") e non fanno più il bozzolo.

In senso metaforico, quindi, le persone che vanno in vacca non producono più come prima o come ci si aspetterebbe.








Scaricabile, gratuitamente, cliccando qui.

lunedì 16 novembre 2020

Sgroi - 87 - L'errore? (ovviamente) "un uso linguistico diverso dal tuo"!

 


di Salvatore Claudio Sgroi

 1. L'evento televisivo

Per chi segue la domenica su "RAI-1 mattina" la rassicurante rubrica delle 8h30 di Francesco Sabatini, "Pronto soccorso linguistico", sa che a un certo punto della trasmissione è previsto il momento dell'"Errore" (televisivo, cartaceo ecc.) segnalato da un telespettatore, che chiede se un certo uso linguistico è errato oppure no. A cui segue la meditata risposta di Sabatini, che secondo i casi avalla o meno il giudizio di condanna di quell'uso, con argomentazioni diverse, per lo più di tipo storico, etimologico, logic(istic)o, a volte anche di chiarezza comunicativa.

 2. L'errore è (implicitamente) "il diverso"

Quando manca una definizione esplicita di cosa sia l'ERRORE, ovvero se una forma è aprioristicamente definita errata, se ne deduce che l'Errore è sempre (o prevalentemente) un uso linguistico altrui, diverso da quello proprio, la cui diversità è percepita come elemento di disturbo, tendenzialmente da eliminare o normalizzare.

 3. "Congratulare Biden"

Nella trasmissione di ieri, domenica 15, l'esempio dell'errore ha riguardato la frase colta in bocca ad una nota (e bravissima) giornalista, la triestina Giovanna Botteri (classe 57), che ha detto: "vari capi di stato hanno già congratulato Biden per la sua vittoria su Trump", con congratulare verbo transitivo, in luogo del più canonico pronominale "si sono congratulati con Biden". Una frase che aveva colpito anche me quando l'avevo sentita (e annotata) il 7 nov. in TG3 ore 19.

 4. L'origine dell'errore

L'origine di una forma "diversa" da quella che ci è consueta si può ricondurre essenzialmente a due motivazioni: o (i) si tratta ("Regola 1") di una innovazione "interna" al sistema linguistico e ai suoi utenti, oppure (ii) è dovuta ("Regola 2") all'influenza, alla "interferenza" di un'altra lingua, solitamente di prestigio culturale, politico, economico, ecc. superiore.

La spiegazione di Sabatini è stata quella di riportare tale uso alla "tendenza dell'italiano a rendere transitivi i verbi intransitivi". E quindi di fornire una spiegazione "endogena", interna all'italiano (Regola-1) Congratularsi è, stando al Sabatini-Coletti (2007), verbo pronominale (per De Mauro 2000 anche "pronominale intransitivo"), senza dire che la forma congratulare nell'uso "antico" (e "lett." per De Mauro) era anche intr., così in Dante. E ha giudicato tale uso un uso errato.

 4.1. "Congratulare qualcuno"

Rispetto alla generica spiegazione della tendenza di transitivizzare gli intransitivi (Regola-1), il sospetto che tale uso sia dovuto all'anglo-americano (Regola-2), è stato quasi naturale anche perché colto in bocca a una giornalista non solo anglofona ma che "dal 2007 al 2019 è stata corrispondente dagli Stati Uniti", prima di essere "dal primo agosto 2019 corrispondente Rai in Cina" (Wikipedia).

E in effetti il Dizionario Inglese-Italiano Italiano-inglese del Ragazzini (Zanichelli 2017) alla voce congratularsi "v. i. pron." fa corrispondere come traducente ingl. il transitivo "to congratulate (sd. on st.)" con l'esempio: "Mi congratulai con lui per la promozione, I congratulated him on his promotion". Il Merriam-Webster's Collegiate Dictionary (200311) da parte sua indica l'etimo diacronico di congratulate nel "L[atin] congratulatus, pp. of congratulari to wish joy", datandolo 1539.

 4.2. E quarantenarsi?

Nel corso della trasmissione di Sabatini un altro spettatore ha osservato di aver sentito in bocca a un virologo l'espressione "è bene quarantenarsi", cioè 'mettersi in (auto-)isolamento', per un periodo di 15 giorni, se non proprio di 40' con riferimento a chi è stato contagiato dal covid, e ha chiesto se tale verbo sia corretto visto anche "che manca nei vocabolari".

Per Sabatini la risposta è stata che è opportuno dire "mettersi in quarantena", pur essendo i verbi denominali diffusi in italiano, a partire da Dante. E non solo in italiano.

Anche in questo caso, si tratta invero (Regola-2) di un anglicismo: to quarantine "to isolate from normal relations or communication" stando al citato Merriam Webster, databile al 1804.

 5. Uso errato o corretto?

Dopo aver identificato la genesi dell'uso transitivo di congratulare qn. e del denominale quarantenarsi nell'interferenza con l'inglese, ovvero con una Regola esogena (Regola-2), è legittimo chiedersi normativamente se tali usi siano corretti o no.

Trattandosi di usi che certamente non intralciano la comunicazione e soprattutto in bocca a una giornalista colta e a un virologo, non sembra legittimo esprimere un giudizio di erroneità.

 6. Usi di langue e di parole

Resta tuttavia da definire quanto essi siano diffusi, ovvero per dirla con Saussure, se si tratta di usi di "parole" strettamente individuale, quasi "idiolettale".

Se nel Primo tesoro della lingua letteraria italiana del Novecento, costituito dai romanzi Strega apparsi nel sessantennio 1947-2006 (a cura di T. De Mauro 2007), non c'è alcun esempio di congratulare transitivo, una scorsa al domenicale del "Sole 24 ore", Venticinque anni di idee 1983-2008, Cd-Rom 2009, consente invece di reperire due ess. con congratulato al passivo:

 (i) Carla M. Casanova: "e non si sa se van congratulati più loro o la loro insegnante" (Il piccolo Mozart, 26.9.1999).

(ii) Sylvie Coyaud: "David King [...] ha applaudito i ricercatori di Oxford, IgNobel per l'igiene, congratulati da Richard Roberts (Nobel per la medicina 1993) per gli studi sui <Comportamenti di corteggiamento degli struzzi nei confronti degli esseri umani in allevamenti inglesi>" (Enron non ritira il premio, 6.10.2002).

 Una paziente ricerca in Google (books) potrebbe fornire altri elementi utili. Al riguardo un caro amico glottologo mi segnala un uso secentesco di Paolo Sarpi (1676):

 "Scrive al Pontefice benche non congratulato da 'l Noncio.

Il papa risponde congratulandosi e rievoca l'ordine dato al Noncio di non comparir inanzi al Doge" (Historia particolare delle cose passate tra il sommo pontefice Paolo V e...).

 

 Sommario

1. L'evento televisivo

2. L'errore è (implicitamente) "il diverso"

3. "Congratulare Biden"

4. L'origine dell'errore

4.1. "Congratulare qualcuno"

4.2. E quarantenarsi?

5. Uso errato o corretto?

6. Usi di langue e di parole




 

venerdì 13 novembre 2020

Sul gerundio del verbo "riempiere"


 Molto spesso siamo in dubbio sulla corretta grafia del gerundio del verbo "riempiere": riempIendo o riempEndo (con la "i" o senza)? La risposta è semplice, sono corrette entrambe le grafie. Vediamo perché. Riempiere è uno dei così detti verbi sovrabbondanti, può appartenere a due coniugazioni: la seconda (in -ere) e la terza (in -ire). Riempiere e riempire, dunque. Il gerundio presente dei verbi della II e III coniugazione ha la medesima "uscita" e si ottiene togliendo la desinenza dell'infinito e aggiungendo al tema la desinenza "-endo". Da "riempiere" togliendo "ere" resta "riempi" a cui si aggiunge "endo": riempiendo. Lo stesso discorso per "riempire": riempendo. In quest'ultimo caso la "i" sparisce perché non fa più parte del tema. Si può dire, dunque, tanto RIEMPIENDO quanto RIEMPENDO. Non tutti i linguisti, però, concordano. E a proposito del verbo in oggetto, si faccia attenzione a non cadere in errore seguendo questo coniugatore: in alcuni modi e tempi inserisce l'infisso "-isc-" (riempisco, riempisca).


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La lingua "biforcuta" della stampa

(...) Una carrettata di candeline: 106. Quelle che Adolfo *** -   classe 1916, storico insegnante di ginnastica (...)

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Se la matematica non è un'opinione le candeline sono 104.

 2020─1916=104


giovedì 12 novembre 2020

Il serrandiere


 Per l'Istituto dell'Enciclopedia Italiana "Treccani" il neologismo proposto per indicare l'addetto alla manutenzione delle serrande è in regola con le "leggi della grammatica italiana". Sito Treccani:  «Tutto corretto. La parola è ben formata e gode anche di una attestazione nella «Gazzetta ufficiale della Repubblica italiana» del 25 luglio 1972, “Foglio delle inserzioni” n° 192, p. 6496, indizione di pubblico concorso da parte dell’Ospedale Grande degli Infermi di Viterbo “Renato Capotondi Calabresi” per un «posto di falegname serrandiere». 

 Manca soltanto la circolazione effettiva della parola nella lingua reale odierna».


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Salato e salso

Si presti attenzione all'uso "appropriato" di questi aggettivi qualificativi che valgono "che ha sale" o "che sa di sale". Il primo si riferisce a qualcosa in cui il sale sia messo (minestrone salato); il secondo, quando il sale è contenuto già nella cosa cui si riferisce (acqua salsa, quella del mare).