giovedì 31 ottobre 2019

Parole "rovesciate"

Con parole rovesciate intendiamo quei vocaboli che nel corso della lunga storia - molto spesso avventurosa - assumono accezioni non solo diversissime, ma addirittura opposte (alla loro etimologia). Nel piluccare qua e là nell’immensa foresta del vocabolario della nostra lingua non ci proponiamo soltanto di esaminare dei casi curiosi, ma anche e soprattutto di trarre qualche insegnamento sul modo in cui il nostro lessico funziona e si viene, via via, mutando.
      Per dare subito un’idea di ciò che intendiamo dire prendiamo, per esempio, due vocaboli conosciutissimi come maestro e ministro: stando all’etimologia il primo dovrebbe essere di gran lunga più importante del secondo. Maestro proviene, infatti, dal latino "magis" (più) e dovrebbe avere, quindi, un’autorità superiore a quella del ministro che viene anch’esso dal latino, "minus",  ma col significato di meno (inferiore). Accade, invece, l’opposto.

       Ma vediamo di piluccare qua e là, per l’appunto, cominciando con quelle parole che i grammatici definiscono medie o indifferenti. Esempio tipico è la fortuna che nella sua accezione primaria indica la sorte, vale a dire quello che capita: una persona che tenta la fortuna sa in partenza che questa potrà esserle favorevole o avversa. Nell’uso comune, però, con fortuna si intende, o meglio si pensa esclusivamente alla sorte prospera. E solo a questa ci riferiamo quando adoperiamo l’aggettivo fortunato. Un viaggio, tuttavia, anziché fortunato può essere fortunoso in quanto, come recitano i vocabolari, presenta molte vicende, soprattutto tempestose e infelici: è stato un periodo fortunoso.      
     Altre parole medie che con il tempo hanno finito con l’orientarsi in un senso o nell’altro sono successo, che ha preso un buon significato e viceversa tempesta, che l’ha preso cattivo. In questo caso, per rendersi conto dell’evoluzione, è sufficiente confrontare un intervento tempestivo con un intervento tempestoso. E che dire dell’ascensore che fa regolarmente una corsa in salita (ascesa) e una in discesa? A rigore di termini si dovrebbe chiamare ascensore - discensore; però essendo più utile per salire che per scendere ha preso il nome dalla funzione predominante che, ovviamente, ha sopraffatto l’altra.
     E il significato di signore non si è modificato fino a rovesciarsi? Signore - come tutti sappiamo - viene dal latino "senior" che voleva dire anziano, più vecchio. Il grande rispetto che un tempo si aveva per gli anziani portò ad adoperare il termine come un titolo onorifico, e pian piano il vocabolo si estese a tutti coloro che avevano una certa autorità, finché si finì con il chiamare signori tutti quanti. L’antico significato è talmente nascosto che si può parlare benissimo di un giovin signore e non si corre neanche il rischio di offendere una bellissima ragazza chiamandola signorina che, stando all’etimologia, appunto, significa vecchierella. 
    Ancora. Prendiamo il verbo cacciare. Questo risale al latino "capere" che valeva catturare, prendere; il verbo esprime lo sforzo di prendere un animale per poi, naturalmente, cibarsene. Di qui si sviluppa l’idea della fuga e del conseguente inseguimento: l’animale cacciato corre via quanto può. Il significato primario del verbo, quindi, finisce con il rovesciarsi, perché quando cacciamo una persona dalla nostra vita, lungi da noi l’idea di sforzarci di prenderla; cerchiamo, al contrario, di levarcela di torno. 
   In qualche caso, però, il rovesciamento di significato delle parole è dovuto ai prefissi o ai suffissi che contribuiscono alla loro formazione. Il prefisso in-, per esempio, in lingua italiana (come del resto in latino) può avere un significato intensivo e un significato negativo: il prefisso in- di  incoraggiato è intensivo; quello di inopportuno, viceversa, è negativo. In linea di massima i due filoni sono paralleli, non si confondono. Vi sono, però, le solite eccezioni che confermano la regola.

martedì 29 ottobre 2019

I chilometri si "coprono" o si percorrono?


Se apriamo un qualsivoglia vocabolario della lingua italiana al lemma "coprire", leggiamo: rivestire con qualcosa per nascondere; e, in senso figurato, anche occultare, dissimulare, soddisfare, pareggiare, occupare, tenere, riempire, difendersi, percorrere (riferito al tempo occupato) ecc.  Orbene, anche se i dizionari ammettono la correttezza del verbo coprire nei suoi significati figurati, non possiamo trattenere un sorriso quando leggiamo sulla stampa che «il corridore ha coperto i pochi chilometri che lo separavano dal traguardo in 20' e 15''». 
     Ci riesce veramente difficile allontanare dalla mente l'immagine del corridore che - metro per metro - 'copre' il percorso con un tappeto non curandosi del tempo che l'operazione richiede, a tutto vantaggio dei suoi avversari. Ci riesce difficile anche immaginare (ma non molto in questo caso) come una persona abbia potuto 'coprire' per quindici anni il posto di ministro, incollata con il posteriore sulla/alla poltrona (rischiando di 'ricoprirsi' di piaghe). 
   Sarebbe il caso - a nostro modo di vedere - che gli amanti/amatori del bel parlare e del bello scrivere non si facessero plagiare dai massinforma (giornali e radiotelevisioni) e tenessero 'a bagnomaria'  i significati figurati del verbo coprire - come si usa per le pietanze - e li "scolassero" caldi caldi nel  "momento linguistico" opportuno (appropriato). Diremo correttamente, dunque, che il corridore "ha percorso" i pochi chilometri in 20' e 15'' e che la tal persona "ha occupato" ("ha tenuto") per 15 anni il posto di  ministro (non "da" ministro, come scrive la stampa; si tratta, infatti, di un normalissimo complemento di specificazione); cosí diremo che pareggeremo le spese sostenute, non le 'copriremo'. 
    Non "scoleremo" mai, invece (lasciandola perennemente a bagnomaria), la bustarella, anche se grafia di uso corrente e attestata nei vocabolari (1). La grafia corretta è busterella e ce lo dice, categoricamente, la legge grammaticale: per formare il diminutivo dei sostantivi si toglie la desinenza e si aggiungono alla base lessicale (alla parola) i suffissi "-erello", "-erella", "-erelli", "-erelle".
    Da busta, quindi, togliendo la desinenza "-a" resta la base "bust" alla quale si aggiunge il suffisso "-erella": bust>erella. La sola deroga alla predetta legge grammaticale è la  tintarella che - come fa notare il linguista Carlo Tagliavini - anche se di uso dialettale romano è ormai entrata a pieno titolo nel patrimonio linguistico nazionale. 
    E dato che siamo in tema, vediamo alcune perplessità circa i suffissi diminutivi "-etto", "-etta", "-etti", "-ette" aggiunti a sostantivi che prima della desinenza hanno la vocale "i". Le parole cosí composte conservano la predetta vocale quando vengono alterate? Ufficietto o ufficetto? Correttamente: ufficetto (senza la "i"). Nella formazione del diminutivo la "i" non occorre per conservare il suono palatale alla consonante "c". 
   A proposito di bagnomaria - e concludiamo queste noterelle - riteniamo superfluo ricordare che questo "sistema di riscaldamento indiretto di un recipiente mediante un flusso, in genere acqua, che viene direttamente scaldato", prende il nome da Maria l'Ebrea (bagnoMaria), sorella  di Mosè, ritenuta, popolarmente, un'alchimista.

(1) "-arello", "-arella", "-arelli", "-arelle" sono forme di provenienza dialettale.


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La lingua "biforcuta" della stampa

Elezioni in Umbria, il neo governatore Donatella Tesei: “Ora rimboccarci le maniche. Gli umbri hanno dato prova di maturità e coraggio”
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Correttamente: la neogovernatrice (il prefissoide "neo-" si attacca alla parola che segue). Ancora, correttamente: rimboccarsi  [impersonale: ora (bisogna) rimboccarsi le maniche].










lunedì 28 ottobre 2019

Capricci...


«Il mio bambino oggi fa i capricci: ha la tonsillite; ma è generoso e non gli si può rimproverare nulla».
    Queste parole di una nostra cara amica ci hanno dato lo spunto per riprendere il nostro viaggio - attraverso l'immensa foresta del lessico italiano - alla ricerca di vocaboli "di tutti i giorni", vocaboli che conosciamo e adoperiamo "per pratica" ma di cui ignoriamo il significato "nascosto", quello insito nella parola. Cominciamo con il capriccio. 
    Chi non conosce questo termine? Se non altro basta aprire un qualsivoglia vocabolario del nostro meraviglioso idioma e leggere: voglia, ansia improvvisa, irragionevole, di breve durata; stravaganza, bizzarrìa. Bene, questo il significato "scoperto". Vediamo, ora, quello nascosto che ci rimanda all' "origine etimologica" del termine. 
   Diamo la parola a Ottorino Pianigiani (anche se, come ripetuto più volte, non gode di "affidabilità linguistica" di numerosi glottologi): «Capriccio, voglia o idea, che ha del fantastico e dell'irragionevole, e per lo piú in modo subitaneo, per leggerezza di natura o per poca riflessione. Probabilmente da 'capro' animale di bizzarra natura, di corto cervello, ovvero come se dicesse cosa inattesa che balza dal cervello, quasi salto di capra». Avete mai osservato il comportamento delle capre? Non è un comportamento... capriccioso? 
   E veniamo a generoso, altro termine noto la cui... notorietà ci riporta al latino "generosus", vale a dire che è di "buon lignaggio", tratto da "genus, generis", razza, genere ('nobile per nascita'). Il generoso, stando all'etimologia, è grande e nobile di cuore.


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Meglio o piú bene?

 Buona parte delle comuni grammatiche, in uso nelle scuole medie, trattando del comparativo di maggioranza  dell'aggettivo bene raccomandano di adoperare solo quello organico, "meglio", perché  "piú bene" è forma tremendamente errata. Se cosí  fosse dovrebbero mettere all'indice il "meno bene", la cui correttezza è inconfutabile.
   Si può scrivere e dire benissimo, per esempio, che Giovanni parla il francese piú bene di Antonio, anche se, per la verità, è preferibile la forma meglio. Per le leggi che regolano la nostra lingua entrambi i comparativi sono, dunque, corretti.
    È bene precisare, tuttavia, che l'uso di meglio in luogo di piú bene è da preferire quando il comparativo assume valore avverbiale con l'accezione di "in modo migliore": quel pacco è stato confezionato meglio (in modo migliore) dell'altro; si preferirà  piú bene quando l'aggettivo ha valore di sostantivo con il significato di un "bene maggiore": ha fatto piú bene lui alla nostra causa, in cinque giorni, che non Luigi in cinque anni.

domenica 27 ottobre 2019

Il congiuntivo e la "fantagrammatica"


Segnaliamo un interessantissimo articolo di Luca Passani.

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L'autore è un informatico Italiano che vive in Virginia, vicino a Washington DC, dal 2011, dove lavora come Chief Technology Officer presso ScientiaMobile, Inc. Nato a Carrara, in Toscana, prima di arrivare in USA ha vissuto a Pisa, Trondheim, Oslo, Copenhagen e Roma, dove torna ogni estate. Si interessa un po' di tutto. Scrive "qual’è" apostrofato dal 31 Luglio 2018. Twitter: @luca_passani



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Una parola relegata nella soffitta della lingua: ombrosía, sostantivo femminile. Ci piacerebbe che i lessicografi la "rispolverassero". Qui.


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La lingua "biforcuta" della stampa

Maltempo in Sicilia, esondazioni nel ragusano: i campi allagati visti dal drone
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Correttamente: Ragusano. La grammatica prescrive la maiuscola, perché si tratta di un'area geografica. Treccani: raguṡano agg. e s. m. (f. -a). – Appartenente o relativo a Ragusa, città capoluogo di provincia della Sicilia sud-orientale: il territorio r. o, come s. m. e con iniziale maiuscola, il Ragusano; formaggio r., o come s. m. ragusano, formaggio da tavola del tipo del caciocavallo. Come sost., abitante, oriundo di Ragusa: un  R., una Ragusana, i Ragusani.

sabato 26 ottobre 2019

Congiuntivo o condizionale? Dipende...

Ci siamo imbattuti, casualmente, in un sito sulla lingua italiana:

Si scrive

se essi si fossero visti o se essi si sarebbero visti?

Si scrive


se essi si fossero visti non se essi si sarebbero visti

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A nostro avviso la risposta non è esaustiva (soprattutto non è esplicativa), si può usare tanto il congiuntivo quanto il condizionale (è formulata male anche la domanda perché non c'è un contesto), dipende dal concetto che si vuole esprimere. Congiuntivo: (non sapevo) se essi si fossero visti (già); condizionale: (non sapevo) se si sarebbero visti (allora). Il sito in oggetto dà "verdetti" perentori sull'uso del congiuntivo (o del condizionale) e non aiuta affatto a comprendere quando usare correttamente l'uno o l'altro modo. È un portale sulla "lingua italiana", insomma, ricco di imprecisioni che confondono le idee ai fruitori. Considera errato, per esempio, "traveduto", participio passato di travedere. Si può dire correttamente, invece, sia travisto sia traveduto (anche se quest'ultimo non va per la maggiore).

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Il verbo atturare, che significa "chiudere", "otturare", ha anche un'altra accezione non "lemmata" nei vocabolari dell'uso: durare. Sembra provenga dall'iberico aturar e si trova nel TLIO (alla voce "cerca parola" si digiti 'atturare').

giovedì 24 ottobre 2019

I gradi militari al femminile


Nonostante le raccomandazioni  di varie istituzioni e dell'Accademia della Crusca per un uso non sessista del nostro meraviglioso "idioma gentil sonante e puro" per dirla con l'Alfieri, i massinforma (mezzi di comunicazione di massa) e, forse, anche le Forze Armate adoperano i gradi militari declinati al maschile nei confronti del gentil sesso: il sergente Sabrina, l'appuntato Clotilde, il colonnello Marianna. 
     Sarebbe bene, anzi opportuno, che i massinformisti (gli operatori dell'informazione) seguissero i consigli del loro (ex) collega, l'illustre centenario giornalista Sergio Lepri (al quale formuliamo i nostri migliori auguri) e le regole grammaticali della nostra lingua. 
     Regole che stabiliscono che il femminile dei nomi in "-o" si ottiene cambiando la desinenza "-o" in "-a" (sarto/sarta); i nomi terminanti in "-e" restano invariati, basta cambiare l'articolo (il preside/la preside); quelli in "-ere" cambiano in "-era" (consigliere/consigliera). Basta, dunque, con quell'orribile "donna-soldato" (o "soldatessa").
      Quindi: il soldato/la soldata; l'aviere/l'aviera; il marinaio/la marinaia; il poliziotto/la poliziotta; il carabiniere/la carabiniera; il finanziere/la finanziera; il caporale/la caporale; il sergente/la sergente; il brigadiere/la brigadiera; l'appuntato/l'appuntata; il maresciallo/la marescialla; il tenente/la tenente; il capitano/la capitana; il maggiore/la maggiore; il colonnello/la colonnella*; il generale/la generale (interessante la "Nota d'uso" di 'Sapere.it' (De Agostini). Siamo certi, però, che queste noterelle...

* Qui

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Il lavamano, i lavamani

La quasi totalità dei vocabolari dell'uso attesta/attestano il sostantivo maschile lavamano, cioè quell' «arnese di legno o di ferro con tre piedi e un cerchia in alto, in cui si posa la catinella per lavarsi» (Palazzi), invariabile: il lavamano/i lavamano. Sí, dovrebbe essere invariato, secondo la legge grammaticale che stabilisce l'invariabilità dei sostantivi composti di una voce verbale (lavare) e un sostantivo femminile singolare (mano): il cavalcavia/i cavalcavia. Lavamano, però, non rientra in questi casi (pur essendo mano femminile) per la desinenza "-o" tipica del genere maschile. E i nomi composti con un verbo e un sostantivo maschile singolare si pluralizzano regolarmente: il passaporto/i passaporti; il lavamano/i lavamani.

mercoledì 23 ottobre 2019

Essere l'oracolo

Questo modo di dire è particolarmente conosciuto e adoperato, a ogni piè sospinto, dalle persone che - ironicamente -  vogliono mettere in evidenza la presunzione e l'arroganza di qualcuno: è (ha parlato) l'oracolo!
     Si usa anche - e in questo caso senza ironia alcuna - in riferimento a una persona di notevole autorevolezza: ha parlato l'Oracolo. In quest'ultimo caso, scrivendo, la O va in maiuscolo in segno di stima e di rispetto. Ma che cos'è questo oracolo?
     È il latino "oraculu(m)" , 'dare risposte'. Tuttavia, pur provenendo dal latino, l'oracolo era la tipica istituzione del mondo ellenico in quanto era il responso ('risposta') che una determinata divinità dava a chi l'interrogava. Con il trascorrere del tempo - per estensione - passò a indicare il luogo in cui venivano richiesti i "responsi", la divinità e la persona che faceva da mediatrice (oggi diremmo il "medium") tra il petente e la divinità "traducendo" le parole, generalmente, oscure.
     Gli Oracoli intesi come mediatori e quindi come sacerdoti erano, il piú delle volte, donne, chiamate Pizie o Sibille, donde il termine "sibillino", cioè oscuro, misterioso. Ciò che diceva l'Oracolo era ritenuto molto veritiero e gli eventuali "ordini" che impartiva dovevano essere puntualmente (e rigorosamente) eseguiti. Di qui, per l'appunto, l'uso figurato (e ironico) della locuzione: ha parlato l'oracolo, non contradditelo!

martedì 22 ottobre 2019

La fiaba e la favola


La fiaba e la favola* non sono - come comunemente si crede -  termini sinonimi, si differenziano tra loro, anche se hanno dei punti in comune. Si veda questo collegamento.

* L'autore di questo dizionario etimologico non è ritenuto fededegno da numerosi linguisti.



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  Insaporare e insaporire

Verbi  sovrabbondanti appartenenti alla prima e alla terza coniugazione. Hanno la medesima accezione: "dare sapore"; adoperati intransitivamente nei tempi composti prendono l'ausiliare essere e valgono "divenire saporito". Il secondo si coniuga, in alcuni tempi, con l'inserimento dell'infisso "-isc-" tra il tema e la desinenza: io insaporisco.

lunedì 21 ottobre 2019

Una "sorpresa" del nuovo De Mauro (in rete)


I vocabolari, tutti?, non finiscono ma di stupire per le "sorprese" che ci riservano. L'ultima l'abbiamo incontrata nel nuovo De Mauro (dizionario internazionale) in rete. Quale? È presto detto: l'invariabilità dell'aggettivo "plurilingue".
    Quest'aggettivo, sulla scia di "bilingue", si pluralizza normalmente, come fa notare il DOP, Dizionario di Ortografia e di Pronunzia (Bruno Migliorini, Carlo Tagliavini, Piero Fiorelli). Quindi: un libro plurilingue, due libri plurilingui
   Sempre a proposito di sorprese, nel libriccino "Ciligie o ciliege?" di Valeria Della Valle e Giuseppe Patota, leggiamo che si può dire e scrivere tanto "dizionari bilingue" quanto "dizionari bilingui". Secondo gli autori, per tanto, l'aggettivo bilingue non necessariamente si deve pluralizzare. La cosa ci meraviglia, e non poco. L'aggettivo in oggetto non è invariabile, come si evince consultando, anche in questo caso, il DOP.


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I trinciapollo o i trinciapolli?

Ecco un altro sostantivo sul plurale del quale non tutti i vocabolari concordano: trinciapollo. Alcuni lo attestano invariabile, altri variabile, altri ancora sono salomonici (invariato o pluralizzato). A nostro modesto avviso si pluralizza normalmente in quanto segue la regola del plurale dei nomi composti di una voce verbale (trinciare) e di un sostantivo maschile singolare (pollo). E i sostantivi cosí composti nella forma plurale mutano la desinenza del sostantivo: il trinciapollo / i trinciapolli.



domenica 20 ottobre 2019

Atterrire e atterrare

Si presti attenzione ai verbi  menzionati  nel titolo, non sono sovrabbondanti come taluni credono. Sono verbi a sé stanti.
     Il primo, atterrire, della terza coniugazione, significa "spaventare", "incutere terrore" (è un verbo denominale derivando, appunto, dal sostantivo "terrore"), è transitivo e in alcuni tempi si coniuga con l'infisso "-isc-" tra il tema (o radice) e la desinenza:  io atterrisco; che egli atterrisca; noi atterriamo.
     Il secondo, anch'esso denominale (tratto da "terra") appartiene alla prima coniugazione e ha due significati distinti:  “gettare a terra” e “posarsi a terra”. Nel primo caso è transitivo con diatesi (forma) attiva e passiva: il portiere atterra il centravanti; il difensore è stato atterrato dall’attaccante. Nel secondo caso è intransitivo e richiede l’ausiliare avere: l’aereo ha atterrato.
     Non diamo ascolto, per tanto, alle “malelingue” radiotelevisive e della carta stampata: diciamo e scriviamo, correttamente, che l'aereo “ha” atterrato, anche se alcuni vocabolari ammettono l’uso dell’ausiliare essere con il suddetto verbo quando si riferisce a persone: “siamo” atterrati all’aeroporto di Fiumicino alle 18.30.


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Ciascuno e il possessivo

Nessun sacro testo grammaticale in nostro possesso tratta della particolare costruzione dell'aggettivo possessivo quando il pronome indefinito ciascuno specifica un soggetto o un oggetto di numero plurale. La "legge grammaticale" consente, in questo caso,  due "opzioni". Si può dire e scrivere, dunque, tanto "noi abbiamo ciascuno la nostra automobile (il possessore è il soggetto, cioè noi) quanto "noi abbiamo ciascuno la sua automobile (in questa costruzione il possessore è ciascuno, soggetto secondario).

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La lingua "biforcuta" della stampa

  Salvini jr. su moto d'acqua della polizia, chiesta l'archiviazione per agenti che fermarono videomaker
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La grafia "corretta" è iunior (con la "i" normale) e si abbrevia in "ir" (senza il punto finale, perché non è un troncamento, non sono cadute, cioè, le lettere finali, ma è una parola sincopata, vale a dire sono cadute le lettere nel corpo della parola latina iunior [i(unio)r]. Lo stesso discorso per quanto attiene a senior, che si abbrevia in sr, senza il punto finale.

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Si tratterebbe di un ex agente di polizia penitenziaria in congedo, 52 anni.
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Se è in congedo è ovvio che sia/è un "ex".




venerdì 18 ottobre 2019

Le stranezze dell'italico idioma

Il dermatologo, l'urologo, l'oncologo, il ginecologo, il cardiologo, l'allergologo ecc, stando all'etimologia, non sono medici,  ma studiosi, esperti delle varie branche della medicina. Il cardiologo, insomma, secondo l'etimologia, non cura le varie patologie cardiache ma le studia.
    I sostantivi in oggetto, infatti, sono composti con il suffisso "-logo"   che significa "scienza", "studio", "discorso", "parola", "racconto" e concorre alla formazione di numerose parole del linguaggio scientifico .
   Sono medici, invece - sempre secondo l'etimologia - il pediatra, lo psichiatra, l'odontoiatra, il fisiatra, il geriatra, l'otoiatra, l'otorinolaringoiatra, insomma tutti i sostantivi terminanti in "-iatra". Il predetto suffisso, tratto dal greco "iatròs" (medico) significa, infatti, "colui che cura". Il dermatologo, quindi, si dovrebbe chiamare "dermatoiatra", l'urologo "uroiatra", il ginecologo "ginecoiatra, il cardiologo "cardioiatra" ecc.  
   Non capiamo, proprio non capiamo, queste stranezze linguistiche. Colpa dei lessicologi (qui il suffisso "-logo" non fa una piega) che hanno coniato "maldestramente" i termini su riportati? Confidiamo nell' «illuminazione» di qualche linguista.
PS.: In Googlelibri si trovano dermoiatra e ginecoiatria.

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Sul sito dell'Accademia della Crusca in "risposte ai quesiti" abbiamo trovato questo. Ma non ci sembra che spieghi  il motivo per cui il suffisso di alcuni specialisti è "-iatra" e quello di altri è "-logo".
Nell'intervento 'cruscano' abbiamo letto, inoltre e con somma meraviglia, un "tutt'ora"; tale grafia, in luogo di tuttora, nella lingua 'moderna' è ritenuta errata e legata soprattutto a scritti poco sorvegliati.





giovedì 17 ottobre 2019

Sgroi - 32 - Congiuntivo misterioso


di Salvatore Claudio Sgroi *

    1. L'evento linguistico
    In un rilevante articolo di un collega-filosofo si è potuto di recente leggere il seguente periodo:
    “Così mi sono astenuto dallo scriverne per esteso, aspettando tempi migliori, quando gli animi si sarebbero placati, la situazione fosse divenuta più chiara e sarebbe stato utile fare una riflessione serena su quanto accaduto (e continua ad accadere)”.
         
     2. Analisi sintattica del periodo
    Un periodo relativamente complesso, quello di cui sopra.
   E per lunghezza: 38 parole. Uno stile quindi "molto difficile" a partire da 29 parole o più stando all'indice di facilità di lettura di Flesh (20 essendo la lunghezza in parole di uno stile 'standard').
  E sintatticamente: una frase complessa costituita da 9 frasi semplici: una principale con 8 dipendenti costruite a grappolo, con alcune coordinate (3.a, 3.b, 5.a) e senza incastri:

  1. Così mi sono astenuto dallo scriverne per esteso,
  2. aspettando tempi migliori
  3. quando gli animi si sarebbero placati,
  3.a. la situazione fosse divenuta più chiara
  3.b. e sarebbe stato utile
  4. fare una riflessione serena
  5. su quanto accaduto
  5.a. (e continua
  6. ad accadere)”.

 E con una densità lessicale da lingua parlata, stando ad Halliday: le 16 parole piene sono distribuite in 9 clausole, e quindi 16:9 = 1.7, inferiore a 3, densità propria della lingua scritta.

  3. Congiuntivo problematico
  Un periodo, quello su riportato,  che ho trovato sintatticamente ‘normale’. Ma di cui mi sfuggiva il perché del CONGIUNTIVO incastrato tra due condizionali:
   3. quando gli animi si sarebbero placati,
   3.a. la situazione fosse divenuta più chiara
   3.b. e sarebbe stato utile [...].
 E per altro tutte e tre le frasi dipendenti, di cui due coordinate.

   4. Appello ai colleghi
    Ho allora proposto tale frase alla riflessione e all'analisi di alcuni colleghi, universitari di tutt'Italia, in quanto nativo-italofoni e linguisti/storici della lingua. Da un lato precisando: "ho trovato sintatticamente ‘normale’. Ma non capisco il perché del CONG.". Dall'altro chiedendo: "Tu ‘senti’ normale il periodo? E come ti spieghi questa scelta modale?".
   Queste le diverse (13) risposte dei colleghi, sia sul piano normativo (uso giudicato corretto/scorretto), sia sul piano dell'analisi sintattica e semantica, con individuazione della "Regola nascosta" alla base dell'uso in questione.

    5. Giudizio normativo
    Sul giudizio di correttezza, i colleghi hanno fornito valutazioni opposte e variamente sfumate.
     Su 13 italo-nativofoni (e linguisti), 7 hanno giudicato negativamente l'enunciato. Solo tre hanno invece valutato accettabile o grammaticale la frase, mentre tre si sono astenuti da ogni giudizio.
   
    5.1. "Sciatteria", "un po' zoppicante", "puro incidente di percorso"/"un mal riuscito tentativo di variatio", "senza scrupoli", "non normale", "accettabile, ma"
   Per il collega n. 1, si trattava di una "sciatteria":
    "secondo me è una sciatteria (non voglio dire: errore). Ma, trattandosi di uno scrivente (super-)colto, sta a te giustificarne le scelte linguistiche".
     L'A. implicitamente sembra proporre come enunciato corretto la variante con tre condizionali.
     Ovvero:
        “Così mi sono astenuto dallo scriverne per esteso, aspettando tempi migliori, quando gli animi si sarebbero placati, la situazione sarebbe divenuta più chiara e sarebbe stato utile fare una riflessione serena su quanto accaduto (e continua ad accadere)”.
        L'A. ha sorvolato così sul problema della individuazione di una possibile Regola alla base della produzione del congiuntivo 'incriminato', lasciando ad altri l'onere, come se l'individuazione della Regola alla base di tale uso giudicato negativamente comportasse di per sé una valutazione positiva (da giustificare, a mio giudizio, sulla base di criteri quali la comprensibilità dell'enunciato, il livello culturale dello scrivente e il registro del testo qui formale).
     Il linguista n. 2 ha preso nettamente le distanze come italo-nativofono da tale enunciato in quanto per nulla "normale", aspettandosi come nel caso dell'informante n. 1 e del successivo una "terna" al condizionale:
          "No, non lo sento normale affatto, è uno zeugma (se lo è) che proprio non farei: non vedo perché il parallelismo non debba esserci anche per il secondo membro della terna".
     Per il linguista n. 3 la frase sembra "accettabile" se interpretata anziché come coordinata come dipendente:
       "anche a me sembra accettabile (quasi la seconda fosse una dipendente della prima frase, tipo: gli dissi che sarei partito se fosse arrivato....)".
 Ma implicitamente è valutata errata, perché coordinata alla dipendente al condizionale:
     "ma il futuro del passato (mi pare qui il caso, visto che è un ricordo....) richiederebbe il condizionale anche nella seconda che è concordata alla prima".
     La forma corretta implicherebbe quindi una terna al condizionale, come per i precedenti due linguisti.
       Il linguista n. 4 ha giudicato "zoppicante" l'es. e ha proposto come normale tre congiuntivi:
         "per me la sintassi (o, più esattamente, la consecutio) è un po' zoppicante: mi sembra che si dovrebbe mettere il congiuntivo in tutti e tre i casi".
     Ovvero il periodo avrebbe dovuto essere:
         “Così mi sono astenuto dallo scriverne per esteso, aspettando tempi migliori, quando gli animi si fossero placati, la situazione fosse divenuta più chiara e fosse stato utile fare una riflessione serena su quanto accaduto (e continua ad accadere)”.
   Ma ha avanzato una spiegazione su cui cfr. più avanti (§ 6.1).
      Un quinto collega non ha rinunciato a un duplice giudizio di valore ("un puro incidente di percorso"; "Ma non escluderei anche un mal riuscito tentativo di variatio"), per poi avanzare una Regola alla base di tale uso (cfr. più avanti § 6.3.1).
     Un sesto collega, pur trovando qui normali" il condiz. e il cong., ha ritenuto tale variatio "un po' antiergonomic[a] e pure controintuitiv[a]", e ha giudicato lo scrivente "senza tanti scrupoli":
         "Effettivamente è un po' antiergonomico e pure controintuitivo: posto che sia il condiz. sia il cong. sono normali in questo contesto, perché questa variatio?
          La spiegazione più ingenua è che in questa zona d'ombra della nostra grammatica, come in altre, l'utente procede a tentoni e dunque alterna i due modi senza tanti scrupoli".
  Ma poi ha avanzato una interpretazione semantico-sintattica dei verbi reggenti, su cui cfr. più avanti § 6.3.3.
    Il linguista n. 7 ha avanzato due possibili giudizi con tre possibili analisi:
       (i) L'enunciato "non pare errato":
          "Condivido, se ho inteso bene, il tuo senso di una certa stranezza circa il periodare che riporti, anche se sono d'accordo che sintatticamente non pare errato".
    (Per la "Regola nascosta" proposta per questo enunciato cfr. più avanti § 6.3.4).
      (ii) Ma la frase è anche sentita "fuori sesto" per il primo condizionale:
         "Quel che 'sento' un po' fuori sesto non è però il congiuntivo nella seconda proposizione, ma il condizionale nella prima: io avrei detto quando gli animi si fossero placati; il condizionale nella terza mi pare giustificato dal valore di quasi implicito condizionale amalgamato nell'asserzione: 'quando (e se) gli animi si fossero placati e la situazione fosse divenuta più chiara', allora 'sarebbe stato utile'."
     L'enunciato sarebbe allora corretto con due congiuntivi e un condizionale, interpretando il primo quando come ipotetico ("e se"), e ritoccando i connettivi delle due coordinate (con e al posto della virgola, e ricorrendo ad allora al posto di e):
    "quando (e se) gli animi si fossero placati e la situazione fosse divenuta più chiara", allora "sarebbe stato utile".
      (iii) Oppure la normalizzazione avrebbe luogo a vantaggio della terna al condizionale, come nel caso degli informanti n. 1-2-3:
 "Altrimenti, tutto al condizionale, con valore generale ipotetico".
Per una possibile "Regola nascosta" alla base dell'enunciato cfr. § 6.3.4.
      5.2. Piena accettabilità/grammaticalità della frase
       A fronte dei 7 censori di cui sopra (in qualche caso con qualche punta di neo-purismo), invece tre altri si sono dichiarati per una piena accettabilità normativa/grammaticalità del costrutto, e tre si sono astenuti.
   Per il linguista n. 8 si tratta di un "Bell'esempio. Perfettamente accettabile", cui ha fatto seguire un'analisi condivisibile (cfr. § 6.3.5).
    Il linguista n. 9 ha dichiarato:
      "anzitutto grazie per questo esempio che ci fa riflettere su quello che riusciamo a fare da parlanti nativi"; "Anche io sento "normale" il tutto con quelle alternanze di modi".
       "L'alternativa di condizionale - condizionale - condizionale mi suona grammaticale [= informanti nn. 1, 2, 3, 7], non quella di congiuntivo - congiuntivo - congiuntivo" [normale invece per l'informante n. 4 (§ 5.1)].
   E poi ha fatto seguire una spiegazione pienamente plausibile (cfr. § 6.3.5).
   Il parlante n. 10 non ha dubitato della "grammaticalità" dell'enunciato:
      " stavolta mi hai messo a dura prova perché come a te anche a me la frase sembra del tutto grammaticale [...]",
        Per la sua analisi cfr. § 6.3.5.
    Il parlante n. 11 non ha espresso alcun giudizio di valore negativo sul costrutto, proponendo peraltro una spiegazione sulla presenza del cong. (cfr. più avanti § 6.2).
     L'informante n. 12 si è astenuto da un giudizio normativo, avanzando una ipotesi in negativo sulla produzione dell'enunciato (cfr. § 6.1).
Anche il collega n. 13 ha puntato solo a una spiegazione della Regola dell'enunciato (cfr. § 6.3.2).

      6. La "Regola nascosta" alla base del congiuntivo
       Se è più agevole indicare quale regola il parlante avrebbe dovuto seguire per produrre l'enunciato desiderato dal lettore, qual'è invece la Regola "nascosta", inconscia, alla base del cong. nel periodo prodotto dal parlante?
     6.1. Mancata "consecutio temporum"
     Il collega n. 4 per la frase giudicata "un po' zoppicante" (§ 5.1), ha identificato la Regola della presenza del cong. in maniera negativa, ovvero con la mancata applicazione della consecutio temporum:
      "[...] mi sembra che si dovrebbe mettere il congiuntivo in tutti e tre i casi".
      Anche da parte del collega n. 12, che non ha giudicato la frase incriminata (§ 5.2), la regola è stata identificata in maniera negativa, tutta al modo condizionale:
  "La reggenza è la stessa, ci aspetteremmo il medesimo modo verbale".
    La frase si spiegherebbe quindi con una "mancata riflessione" sulla consecutio temporum:
       "senza troppo rifletterci, altrimenti passiamo troppo tempo a riflettere sulle mancate riflessioni altrui.
        La reggenza è la stessa, ci aspetteremmo il medesimo modo verbale.
  A meno che, torno a dire, lo scrivente non ci sia stato molto a pensar su".
      6.2. Variatio libera, a-semantica
       Per il parlante n. 11, neutrale quanto al giudizio normativo (§ 5.2), la presenza del cong. non è invece legata a una particolare valenza semantica ma si tratta di variatio libera che garantisce una scelta non "pesante" in quel contesto fin troppo ricco di condizionali:
       "Libere scelte, non credi? Opzioni in variazione libera! Qui l'emittente avrà avvertito un'esigenza di variatio, in particolare rispetto al ripetersi di forme pesanti come i condizionali?".
      6.3. Valenza semantica alla base del congiuntivo dipendente, aperto da quando
       Gli altri 7 informanti hanno invece cercato di individuare una "Regola nascosta" che giustificasse la valenza semantica del congiuntivo, o per meglio dire della dipendente al congiuntivo aperta dal connettivo temporale quando.
      6.3.1. Tra "eventi sicuri" (al condizionale) ed "evento probabile" (al congiuntivo)
       Il collega n. 5, a parte il sospetto di "un puro incidente di percorso", o di "un mal riuscito tentativo di variatio" (§ 5.1), ha avanzato una interpretazione della frase con i due condizionali in quanto "eventi sicuri" e il congiuntivo come "evento probabile":
    "potrei pensare che mentre il placarsi degli animi e l'utilità di una riflessione serena sono considerati eventi 'sicuri', la chiarezza della situazione è invece un evento 'probabile' ".
     6.3.2. Condizionale "aspettuale" e "futuro" VS congiuntivo  "eventuale"
     Il collega n. 13, bypassando la valutazione normativa (§ 5.2), da un lato ha osservato che "condizionali e congiuntivo sono impiegati in modo tra loro indipendente" (ma in questo caso sono tra loro coordinati), dall'altro ha evidenziato che
        "i condizionali sono aspettuali e proiettano l’azione nel futuro"
        e "il congiuntivo evoca, da solo il carattere eventuale e non reale del chiarimento cui allude l’A.".
     6.3.3. Verbi "agentivi" e "stativi": tra interpretazione "temporale" ed interpretazione "epistemica"
    Il collega n. 6, a parte la "variatio " e il giudizio sullo scrivente "senza tanti scrupoli" (§ 5.1), ha trovato "normali" il condiz. e il cong. in tale contesto, e ha quindi avanzato, pur nel timore di una iper-decodifica ("Ma forse sto iperinterpretando"), una interpretazione semantico-sintattica dei verbi reggenti:
        "Ad essere più analitici, si potrebbe supporre che 'placarsi' e 'fare una riflessione' e 'accadere' (non 'essere utile' che è una pseudoreggenza, nel senso che non è quello il focus dell'azione), essendo più agentivi, insomma evocando azioni, incoraggiano di più il rispetto della consecutio temporum del futuro nel passato (condizionale),  mentre la minore agentività e la maggiore staticità del copulativo 'divenire' (che non reggendo altri verbi fa proposizione a sé) incoraggi una interpretazione meno temporale e più modale (epistemica) garantita dal congiuntivo. Ma forse sto iperinterpretando (...)".
     6.3.4. "Mescolanza fra due pianificazioni macrosintattiche"
   Il linguista n. 7, dopo aver avanzato la possibilità dell'enunciato "un po' fuori sesto" con possibile correzione o al "cong. + cong. + condiz." o con terna al condizionale (§ 5.1), ha concluso avanzando una realistica "Regola nascosta" di tipo testuale:
      "In conclusione, mi parrebbe quindi che ci sia una sorta di mescolanza fra due pianificazioni macrosintattiche semanticamente diverse, una con valore 'neutro' (= congiuntivo) e una con valore condizionale-desiderativo (= condizionale)".
     6.3.5. Cong. "ipotetico", "non fattuale" vs "futuro nel passato"
  Il parlante n. 8, dopo aver proclamato la perfetta "accettabilità" del periodo" (§ 5.2), in maniera essenziale ha contrapposto da linguista il cong. con valore "ipotetico", "non fattuale" al "futuro nel passato":
      "Il congiuntivo, se ben intendo, sottolinea il valore ipotetico, che  accentua il grado di non fattualità dell'evento rispetto ai due eventi al futuro nel passato, presentati come naturali sviluppi della situazione di partenza".
 Analogamente il parlante n. 9, colpito dal valore "esemplare" dell'enunciato (§ 5.2), si è richiamato da linguista al condiz. quale futuro nel passato e ha interpretato il "quando + cong." come "una volta che + cong.":
      "Credo che il condizionale come futuro nel passato sia coerente con l'essersi astenuto aspettando tempi migliori, ovvero il placarsi degli animi e l'utilità di una riflessione. Il chiarirsi della situazione mi sembra sia la premessa alla possibilità della riflessione. In questa interpretazione, potrei riformulare così:
     ...' quando gli animi si sarebbero placati, e [una volta che] la situazione fosse divenuta più chiara, sarebbe stato utile...'"
   Il parlante n. 10, dopo aver confermato la 'grammaticalità' del costrutto (§ 5.2), per risolvere il problema dell'"anomalia sintattica", ha proposto di interpretare il connettivo quando come polisemico: a) "'temporale' + indic." e b) "'condizionale' se + cong.":
       "ma come spiegare il congiuntivo in un contesto sostanzialmente di futuro nel passato, anche se anomalo, che è compatibile col condizionale?
        Ho pensato che c'è una soluzione. La questione si risolve se si prende in considerazione una specie di doppio valore di "quando": quando regge le frasi al condizionale ha il suo valore temporale normale, ma con la seconda dipendente al congiuntivo va interpretato con valore piuttosto di tipo condizionale, come se fosse "se". Del tipo di: Sarebbe tornato a casa quando le acque si fossero calmate.".
    Soluzione semplice, quanto convincente ed elegante. Si potrebbe citare il caso analogo del perché causale (+ indic.) 'poiché' vs perché finale (+ cong.) 'affinché', es. te lo dico perché ['poiché, in quanto'] tu non lo fai vs te lo dico perché ['affinché'] tu lo faccia.

7. "Transizione" modale anomala?
       Per conto mio, fermo restando che normativamente il periodo non ha "offeso" il mio sentimento inguistico ovvero la mia "grammatica inconscia", e che quindi ho percepito l'es. come corretto, ciò che invece  ha colpito la mia grammatica "conscia", ovvero la teoria linguistica che  mi è familiare, è la "transizione" modale dal condiz. al cong. al condiz., che i colleghi (nn. 3, 4 al § 5.1), e soprattutto n. 7 (al § 6.2)) hanno preferito  etichettare come variatio a-semantica, a differenza degli altri che hanno invece ricercato condivisibilmente una motivazione semantica.
    Semanticamente il condizionale passato, -- qui ben due coordinati --, indica un'azione futura nel passato successiva al momento dell'enunciazione nel passato (aspettando):
     "mi sono astenuto dallo scriverne per esteso, aspettando tempi migliori, quando-1 gli animi si sarebbero placati, [quando-2 'il momento in cui'] la situazione fosse divenuta più chiara e [quando-3] sarebbe stato utile fare una riflessione serena".
  Il quando ha un duplice valore a) temporale (seguito dal condiz.) e b) relativo-ipotetico seguito dal cong., come hanno ben colto i colleghi 5, 6, 7, 8, 9, 10 e 12. Ma -- va precisato -- il valore ipotetico è legato alla presenza del quando (sottinteso) e non dipende già dal congiuntivo tout court, di per sé modo dipendente a-semantico.
  
  8. Normalizzare è ... banalizzare
    'Normalizzare' il cong. come condizionale, secondo il suggerimento del collega n. 1 (implicito) e nn. 2, 3, 7, 11 (espliciti) o normalizzare i due condiz. come congiuntivi secondo l'esplicito suggerimento del collega n. 4, o ancora la soluzione "cong. + cong. + cond." proposta dal collega n. 7, avrebbe invero comportato una banalizzazione semantica, un appiattimento, un impoverimento, un travisamento del pensiero dell'autore.
   La variatio, quindi, -- o per meglio dire la "transizione" --, percepita come brusca dai colleghi, ha consentito di esprimere allo scrivente l'idea temporale del futuro (nel passato) combinata con l'idea temporale-ipotetica.

  9. Sommario
   1. L'evento linguistico
   2. Analisi sintattica del periodo
   3. Congiuntivo problematico
   4. Appello ai colleghi
   5. Giudizio normativo
   5.1. "Sciatteria", "un po' zoppicante", "puro incidente di percorso"/"un mal riuscito tentativo di variatio", "senza scrupoli", "non normale", "accettabile, ma"
   5.2. Piena accettabilità/grammaticalità della frase
   6. La Regola nascosta alla base del congiuntivo
   6.1. Mancata "consecutio temporum"
   6.2. Variatio libera, a-semantica
   6.3. Valenza semantica alla base del congiuntivo dipendente, aperto da quando
   6.3.1. Tra "eventi sicuri" (al condizionale) ed "evento probabile" (al congiuntivo)
   6.3.2. Condizionale "aspettuale" e "futuro" VS congiuntivo "eventuale"
   6.3.3. Verbi "agentivi" e "stativi": tra interpretazione "temporale" ed interpretazione "epistemica"
   6.3.4. "Mescolanza fra due pianificazioni macrosintattiche"
   6.3.5. Cong. "ipotetico", "non fattuale" vs "futuro nel passato"
   7. "Transizione" modale anomala?
   8. Normalizzare è ... banalizzare

  

* Docente di linguistica generale presso l'università di Catania





mercoledì 16 ottobre 2019

La formazione delle parole

Dal sito della "Treccani" segnaliamo questo articolo di Caudio Iacobini (università di Salerno) circa la formazione delle parole.

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Due parole sul verbo "esplodere", che può essere intransitivo e transitivo. È intransitivo, e nei tempi composti si coniuga con l'ausiliare essere, quando si riferisce a "qualcosa che esplode": quando sono arrivati gli artificieri la mina era già esplosa; la bombola del gas è esplosa improvvisamente;  nell'accezione di "sparare" è transitivo: i rapinatori, durante la fuga, hanno esploso due colpi contro le forze dell'ordine.


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La lingua "biforcuta" della stampa

Ok 'salvo intese' al dl fisco e alla legge di Bilancio. Conte: "Lotta all'evasione". Superticket sanità abolito dal 1° settembre
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L'esponente (1°) non occorre perché il primo giorno del mese è un numero ordinale. Crusca: Le indicazioni comprendenti anche mese e giorno sono introdotte modernamente da un articolo maschile singolare: «il 20 settembre 1870»". Per estensione, si può aggiungere che, nel caso di una data come 11/10/1989, l'articolo che vi si anteporrà sarà l' (seguendo la pronuncia della data: l'undiciottobre millenovecentoottantanove); stessa regola vale per le date che iniziano con 1: anche per queste, si considera il modo in cui tali date vengono pronunciate e quindi si scriverà il 1/2/2003 (cioè il primo febbraio duemilatré). Infatti, come specifica Serianni, "Per i giorni del mese si usa l'ordinale per il giorno iniziale [...], ma il cardinale per i giorni successivi, siano o non siano accompagnati dal giorno del mese [...]."



 

martedì 15 ottobre 2019

C'è stornello e... stornello


L'italico idioma, lo abbiamo scritto altre volte, è ricco di parole omofone (stesso "suono") e omografe (stessa grafia) ma di significato diverso. Oggi tratteremo dello "stornello" e della "goletta". Chi non ha mai dedicato una stornellata alla sua amata? Lo stornello, dunque, oltre a significare un «breve componimento poetico, di solito formato da un quinario e due endecasillabi, destinato a essere cantato il cui tema è l'espressione di sentimenti amorosi e di tutte le passioni che l'amore può generare», indica anche un genere di uccelli.
     La prima accezione è di provenienza barbara venendo dal provenzale «estorn» ('gara poetica'), la seconda, invece, viene dal diminutivo di "storno", latino 'sturnus'; il termine è, per tanto, squisitamente italiano.
     La goletta, altro termine omofono e omografo con distinti significati: 'colletto della camicia da uomo e da donna'; 'parte dell'armatura che protegge la gola'; 'stretto ingresso di un porto' e, infine, 'nave a vela dotata di due alberi'.
     Le prime tre accezioni sono, propriamente, il diminutivo di "gola"; l'ultima, invece, è il termine di provenienza barbara (francese) «goélette», probabilmente derivato da «goéland» ("gabbiano"). Da ricordare - e concludiamo queste noterelle - che le parole omografe non sempre sono omofone; accètta  e accétta, per esempio, sono omografe ma non omofone, non hanno, cioè, il medesimo suono.

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La parola proposta da questo portale: vertudiare. Verbo che vale "mostrarsi valoroso", "rinvigorirsi", "operare con valore". Derivato di "vertude".


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La lingua "biforcuta" della stampa

Dopo l’Iva, la Bellanova cancella l’Irpef agricola. Il ministro ha escluso nuove imposte e confermato le agevolazioni già esistenti nel settore agrario

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Nonostante le raccomandazioni della Crusca (e di numerosi linguisti) "serpeggia" ancora un linguaggio sessista...  Il femminile di ministro è ministra. Dissentiamo, però, dalla Crusca su "avvocatessa".
Da "Sapere.it" (De Agostini): Il femminile regolare di ministro è ministra, e così si può chiamare una donna che diriga un ministero. Alcuni preferiscono però chiamare anche una donna ministro, al maschile. Si tratta di una scelta che non ha basi linguistiche, ma sociologiche, e che comunque può creare, nel discorso, qualche problema per le concordanze.

lunedì 14 ottobre 2019

I "portastendardo" o i "portastendardi"?

La quasi totalità dei vocabolari che abbiamo consultato (cartacei e in rete) ritiene invariabile il sostantivo "portastendardo" (il portastendardo / i portastendardo), contravvenendo alla "legge grammaticale" circa la formazione del plurale dei nomi composti. Ci ripetiamo. 
   I nomi composti di una voce verbale (porta) e di un sostantivo maschile singolare (stendardo) si pluralizzano normalmente modificando la desinenza del sostantivo: il portastendardo / i portastendardi. Si veda anche qui. Naturalmente qualche linguista ci lancerà i suoi strali, ma... ci siamo corazzati.

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Due parole, due, sull'uso corretto dei verbi ammollare e ammollire. Sono verbi cosí detti sovrabbondanti, entrambi transitivi, ma con significati distinti. Il primo, della prima coniugazione, significa "rendere molle", "mettere a bagno", "inzuppare" e simili: ammollare il pane nell'acqua; ammollare i biscotti nel latte. Il secondo, della terza coniugazione, significa "ammorbidire", "rendere morbido", "diminuire la durezza". Si adopera soprattutto in senso figurato (mitigare, intenerire, addolcire, ammannire e simili)  e nella forma riflessiva: davanti a quella scena il suo animo si è ammollito. Si coniuga con l'inserimento dell'infisso "-isc-" tra il tema e la desinenza: io ammollisco.

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La parola proposta da questo portale, ripresa dal De Mauro: occhibagliare. Verbo intransitivo che sta per "rimanere abbagliato", nei tempi composti si coniuga con l'ausiliare avere.