venerdì 28 febbraio 2020

Sgroi - 41 - Ma qual(')è l'origine del Coronavirus?


di Salvatore Claudio Sgroi

1. L'evento mondiale
Non c'è dubbio che la parola dell'anno in italiano (e nelle lingue del mondo) sarà il termine coronavirus. Così definito nel sito della Treccani on line, sezione "neologismi": "s. m. Genere di virus responsabili di diverse malattie nell’uomo e negli animali, prevalentemente respiratorie e polmonari". Con il commento che "♦ È uno dei due virus "sospetti" il responsabile dell'epidemia di SARS, la polmonite atipica comparsa improvvisamente lo scorso novembre nella Cina meridionale".

1.1. Il coronavirus nella lessicografia italiana, con etimo sincronico
La voce coronavirus manca nella lessicografia degli inizi del Duemila, così nel De Mauro scolastico 2000, nell'Etimologico di De Mauro-Mancini 2000, nel Treccani-Simone 2005 rist. 2009, nel Sabatini-Coletti 2008, ne l'Etimologico di Nocentini-Parenti 2010, ecc. 
        La voce appare invece nello Zingarelli a partire dall'ed. 2005 (all'ultima 2020), e con un etimo, come si dice, "sincronico", cioè come neoformazione creata in italiano: "da corona, per l'alone rivelato al microscopio che caratterizza questo virus", datato 1990. E così nel Garzanti-Patota 2013: "Comp. di corona e virus, per la caratteristica forma circolare"; -- nel Devoto-Oli-Serianni-Trifone 2018 e 2019: "Comp. di corona e virus" datato 2003. Nel citato sito della Treccani on line 2020, il lemma, dopo altre informazioni, si chiude con una etimologia sincronica e una retrodatazione:
     "Composto dal s. f. corona e dal s. m. virus, per la caratteristica forma elicoidale". E con la precisazione che il termine prima di venire ora alla ribalta, in italiano era "Già attestato nella Stampa del 30 luglio 1970, p. 14".

1.1.1. Etimo sincronico o diacronico?
L'ordine dei due componenti del composto binominale coronaVirus s.m. 'virus a forma di corona', con la testa semantica cioè a destra rispetto al determinante corona, doveva invero insospettire i lessicografi sulla correttezza dell'etimo sincronico in una lingua come l'italiano, caratterizzata dall'ordine delle parole "Soggetto-Verbo-Oggetto", e quindi con i composti tipicamente costruiti con testa a sinistra (cfr. capostazione). E in effetti, coronavirus è un composto esogeno (non già endogeno), ovvero un 'dono' dell'inglese. Come correttamente indica T. De Mauro 2003 nell'appendice Nuove parole italiane dell'uso del Grande dizionario italiano dell'uso, vol. VII deriva "dall'ingl. coronavirus comp. del lat. corona 'corona' e virus 'virus'" e datato "2003, Internet".
      Anche il Grande dizionario Hoepli Italiano di A. Gabrielli, a cura di M. Pivetti e G. Gabrielli 2008 registra il lemma con un etimo non italiano ma "Dal lat. scient. coronavirus, comp. di corona 'corona' + virus 'virus'", bypassando però l'inglese.
     In considerazione della struttura 'destrorsa' del composto e anche della data di prima attestazione in italiano 2003 (De Mauro), 1990 (Zingarelli), 1970 (Treccani on line) ma in inglese 1968 (OED, vedi sotto), la priorità va quindi attribuita all'inglese, che comunque ha diffuso nel mondo tale voce. Che non ha fatto invece in tempo ad entrare nel bel volumetto di Anglicismi di R. Gualdo (Corriere della Sera 2020).

1.1.2. Coronavirus in inglese 
In effetti, è l'inglese a formare coronavirus dal lat. scientifico o "neo-latino", come già il Merriam-Webster's Collegiate Dictionary 2003, 11 ed., aveva indicato registrando coronavirus con l'etimo "NL [NewLatin], fr. corona + virus" datato 1968.
         Il dato è confermato dall'Oxford English Dictionary on line, senza che venga però esplicitato il ricorso al "New Latin": coronavirus, distinguendo l'"Origin: Formed within English, by compounding. Etymons: corona n.1, virus n."; dalla "Etymology: < corona n.1 + virus n.", con 5 ess. del 1968, 1984, 1990, 2003, 2005.
        Quanto alla lessicografia bilingue ingl.-it. e it. ingl., il Ragazzini 2018 (Zanichelli) registra nelle due sezioni il lemma "coronavirus (med.) s.m. coronavirus".

          2. Il coronavirus in altre lingue
Possiamo ancora dare un rapido sguardo alla diffusione dell'anglicismo in altre lingue, che non sembrano riconoscere la dipendenza dall'inglese.

          2.1. Il coronavirus in francese
          ll coronavirus è presente nella lessicografia monovolume, per es. ne Le Petit Robert 2017 (e già nell'ed. 2011) coronavirus datato "v. 1970" e con un etimo sincronico, una neoformazione (sembrerebbe) ibrida: "du latin corona 'couronne' et virus", da ritenere però un anglicismo, vista la struttura 'destrorsa' del composto e la precedente attestazione dell'inglese (1968).
        Nel dizionario bilingue italiano-francese e francese-italiano di R. Boch (2014 VI ed.) il termine manca invece nelle due sezioni.

         2.2. Il coronavirus in spagnolo
In spagnolo il termine coronavirus è ancora assente nel Diccionario de la Real Academia Española (2019 on line), ma appare nel Diccionario del español actual di M. Seco-O. Andrés. G. Ramos (Aguilar 19991, 20112) con due ess. giornalistici del 2003 e del 2004. 
        Quanto alla lessicografia bilingue italiano-spagnolo e spagnolo-italiano, il termine latita nel Grande dizionario Hoepli spagnolo di L. Tam (20093). È invece presente nel dizionario spagnolo-italiano e italiano-spagnolo della Garzanti 2009 e ne Il Grande dizionario di Spagnolo di R. Arqués - A. Padoan 2012 (Zanichelli), ma solo nella sezione italiano-spagnolo: "coronavirus s.m. invar. (biol.) coronavirus".

2.3. Il Coronavirus in tedesco
In tedesco, il termine appare per es. ne Il Nuovo dizionario di tedesco di L. Giacoma - S. Kolb (Zanichelli 20092), ma solo nella sez. italiano-tedesco: "Coronavirus s. neutro".

         2.4. Il coronavírus in portoghese
In portoghese, il termine coronavírus manca nella lessicografia monolingue, sia del portoghese europeo (nel Grande dicionário. Língua portuguesa, a c. di Graciete Teixeira 2004) che del portoghese brasiliano (nell'Aurélio Buarque de Holanda Ferreira, Novo dicionário Aurélio da língua portuguesa, 19751, 20043), e anche nella lessicografia bilingue italiano-portoghese (G. Mea, Dizionario Portoghese Italiano e Italiano portoghese, Zanichelli ), ma appare nella stampa, per es. in "O estado de S. Paolo" del 27- 2 - 2020.

3. Produttività del coronavirus
Infine, come se non bastasse, il coronavirus ha generato anche un Fontanavirus, che campeggiava nel titolo "Fontanavirus, il governatore in quarantena", de "Il fatto quotidiano" del 27 c.m.

          Sommario
         1. L'evento mondiale
           1.1. Il coronavirus nella lessicografia italiana, con etimo sincronico
              1.1.1. Etimo sincronico o diacronico?
                  1.1.2. Coronavirus in inglese
         2. Il coronavirus in altre lingue
           2.1. Il coronavirus in francese
              2.2. Il coronavirus in spagnolo
                 2.3. Il Coronavirus in tedesco
                   2.4. Il coronavírus in portoghese
          3. Produttività del coro
navirus














giovedì 27 febbraio 2020

Il genere e il significato


La nostra bella lingua è ricca di vocaboli omonimi, vale a dire identici nella grafia e nella pronuncia, il cui genere e significato sono “stabiliti” dall’articolo. Rimandiamo i lettori interessati all'argomento a un nostro vecchio intervento sul "Cannocchiale".


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Spartitraffico: si pluralizza?

Tutti i vocabolari consultati attestano il sostantivo "spartitraffico", che indica - come si legge nel De Mauro in rete - una «linea bianca o struttura rialzata che divide una strada in diverse corsie convogliando il flusso del traffico», indeclinabile o invariabile. Anche in questo caso - come in "malalingua" - non capiamo proprio la ragione per la quale non si può/possa pluralizzare. Nelle strade non ci sono numerose linee bianche o strutture rialzate che separano le corsie? Non ci sono, quindi, "piú" spartitraffici? Ma a parte questo "ragionamento", il sostantivo in oggetto non appartiene alla schiera dei nomi composti di una voce verbale (spartire) e di un sostantivo maschile singolare (traffico)? E i nomi cosí composti non prendono la regolare desinenza del plurale? Attendiamo gli strali dei soliti linguisti "d'assalto". Dimenticavamo: il DOP, Dizionario di Ortografia e di Pronunzia, riporta il plurale specificando, però, che è meno comune. Secondo chi scrive il sostantivo in oggetto dovrebbe restare invariato solo in funzione aggettivale: barriere spartitraffico.

mercoledì 26 febbraio 2020

Piovere: quale ausiliare?


Dal sito della Zanichelli ("La prof Anna"):

Francesca chiede:
Ha piovuto / È piovuto: Differenza?
 La risposta della prof:
Cara Francesca, quando il verbo “piovere” ha il significato di “cadere della pioggia dal cielo” può formare i tempi composti sia con l’ausiliare “essere” sia con l’ausiliare “avere”, quando invece viene usato nei suoi significati figurati forma i tempi composti soltanto con l’ausiliare “essere” (sono piovute critiche).
Un saluto Prof. Anna

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La risposta - a nostro avviso - è piú articolata. Il verbo piovere (come tutti i verbi "meteorologici") nei tempi composti prende l'ausiliare "avere" quando si indica (o è indicata) la durata del fenomeno: giovedí ha piovuto dalle 14.00 alle 18.00, oppure ha piovuto tutta la notte. Prende l'ausiliare "essere" quando non si specifica (o non è specificata) la durata: ieri è piovuto. Sempre il verbo essere in tutti i significati figurati.


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Malalingue o malelingue?

Saremo tacciati, senza dubbio, di presunzione per quello che stiamo per scrivere, non appartenendo alla categoria dei linguisti "ufficiali". Ma tant'è. Tutti i "sacri testi" consultati - grammatiche e vocabolari - attestano malelingue, plurale di malalingua. Il plurale "corretto" - secondo la norma grammaticale - è/dovrebbe essere malalingue, deve/dovrebbe mutare, cioè, solo la desinenza del sostantivo (lingua). I nomi composti di un aggettivo (mala) e di un sostantivo (lingua) - stando alla grammatica -  nella forma plurale "pluralizzano" soltanto il secondo elemento: piattaforma / piattaforme, vanagloria / vanaglorie. Si comportano, insomma, come se fossero nomi semplici. Non capiamo, quindi, perché malalingua dovrebbe fare eccezione.

domenica 23 febbraio 2020

Sgroi - 40 - "Morbilità": da dove deriva mai?


di Salvatore Claudio Sgroi

          1. L'evento lessicografico
          "La parola del giorno dello Zingarelli 2020" che ricevo quotidianamente dalla Zanichelli, ha per me la funzione di farmi leggere un lemma del dizionario, scoprendo qualcosa che sapevo o ignoravo, o di attirare la mia attenzione su aspetti particolari di una parola: la sillabazione, la pronuncia, l'etimologia (parola patrimoniale derivante dal latino, o neoformazione o 'dono' da altre lingue), la datazione, la polisemia, ecc.
 "La parola del giorno dello Zingarelli 2020" di venerdì 21 febbraio riguardava il lemma, per me nuovo, morbilità, "1 misura della quantità di giornate lavorative perse a causa di una patologia"; "2 (generic.) frequenza di un malattia all'interno di una collettività SIN. morbosità" --  datato 1900, con un etimo, come si dice, sincronico, ovvero -- denominale -- "[da morbo, sul modello di sterilità, virilità ecc. ☼ 1900]".

 2. Formula lessicografica della derivazione
Ciò che mi ha subito colpito è stata appunto l'indicazione etimologica: morbilità -- denominale -- "[da morbo, sul modello di sterilità, virilità ecc.]". 
Mi sarei aspettato una diversa formula lessicografica pur adottata (anche se non in maniera sistematica) dallo Zingarelli, decisamente migliore, quale è per es. quella di morbidoso derivato "da morbid(o) con il suff. -oso".

 2.1. Formula lessicografica nella lessicografia
Una rapida consultazione di altri dizionari scolastici, come il De Mauro 2000, quanto all'etimo non si discosta nella sostanza dallo Zingarelli: morbilità (denominale) "der. di morbo con il segmento -lità di natalità, mortalità". Che è anzi formalmente meno soddisfacente, perché se il segmento fosse -lità dovremmo avere *morbo-lità.
Analoga soluzione etimologica insoddisfacente è adottata nel Treccani-Simone 2005, rist. 2009: (denominale) "der. di morbo, sul modello di natalità, e sim."; -- nel Sabatini-Coletti 2007-2008: (denominale) "deriv. di morbo sul modello di sterilità e sim.".
E così pure nel Garzanti-Patota 2013: (denominale) "Deriv. di morbo, sul modello di mortalità, natalità ecc."; -- nel Devoto-Oli-Serianni-Trifone 2019: (denominale) "Der. di morbo, sul modello di natalità, mortalità, ecc.".
La stessa indicazione del De Mauro 2000 è presente nel pluri-volume GRADIT 2007 e nel Garzanti Etimologico di T. De Mauro - M. Mancini 2000 (ricavato dal GRADIT).
E ancora ne l'Etimologico. Vocabolario della lingua italiana di A. Nocentini con la collab. di A. Parenti (Le Monnier 2010) si legge: (denominale) "der. sul modello di natalità, mortalità".

 3. Soluzione del derivato (deaggettivale)
Una scorsa al Grande dizionario della lingua italiana di S. Battaglia-G. Bárberi Squarotti (vol. X, 1978) riporta morbil-ità con un es. di Panzini Diz. moderno 19051, 19509 nell'accezione statistica con la stessa etimologia sincronica finora ricordata: (denominale): "Deriv. da morbo, sul modello di mortalità".   Il Panzini aggiunge anche, come ho potuto verificare, un etimo denominale, ibrido: "Deriv. di morbus = malattia", ripreso come denominale dal Battaglia (1978), e dalla successiva lessicografia. Il Battaglia-Bárberi Squarotti 1978 fa emergere però la sua incongruenza etimologica quando nello stesso volume riporta il lemma morbile agg. letter. 'morboso, malato' con un es.di C.E. Gadda (1965): "sistema nervoso viziato congenitamente da una sensitività morbile", -- ma risalente esattamente al 5 giugno 1916 -- nel Giornale di guerra e di prigionia [1915-1919], agg. sì denominale: "Deriv. da morbo, sul modello di febbr-ile".
 
Con Google libri ricerca avanzata è anche possibile retrodatare al 1906 l'agg. di relazione morb-ile 'di morbo': "Viene, altresì, stabilito quali sono le malattie che consentono la repulsione e si precisa che l'indagine va riferita al momento del primo insediarsi del soggetto, per cui la sopravvenienza di qualsiasi stato morbile non può giustificare il diniego di rinnovazione del permesso di soggiorno" ("Rivista di diritto internazionale", vol. 53, p. 173).
Quindi il s.f. morbil-ità si configura come deaggettivale (non già denominale) di "morbile con il suff. -ità", secondo un processo di derivazione assai produttivo in italiano.
L'incongruenza etimologica del Battaglia-Bárberi Squarotti 1978 era stata peraltro favorita dal fatto che nessuno dei dizionari sopra citati, compreso il GRADIT, aveva registrato come lemma la base morb-ile.

      4. E non manca la ambigua morbidità 
 Da segnalare ancora il lemma morbidità riportato nello Zingarelli con un duplice etimo. Uno 1) sincronico, suffissato "da morbido" + -ità, nel significato "1. (raro) morbidezza", con un es. di C. Dossi: m. di tappeti. E uno 2) diacronico: "cfr. l'ingl. morbidity" nel significato "2. (med.) morbilità".
Sicché l'italiano si ritrova con due varianti per indicare l'accezione medica, il deaggettivale morb-il-ità  su analizzato e l'adattamento ingl. morb-idità, sentito probabilmente come denominale da "morbo + -idità" in quanto semanticamente lontano dal deaggettivale "morbido +-ità".
Data la distanza semantica dei due significati del termine morbidità, confermata dalla diversa etimologia, era comunque preferibile ricorrere alla omonimia anziché alla polisemia e introdurre due lemmi: morbidità1 e morbidità2 (med.).






sabato 22 febbraio 2020

L'aggettivo di "tela"

Dal fòro "Cruscate":
Mi sembra che in italiano non ci sia un aggettivo esatto che significhi 'relativo alla tela, a una tela'. Per rubare le parole a un altro recente filone, «Nel caso non esista, mi chiedo come coniarlo». Potrebbe andar bene telare?
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 Conieremmo 'teloso'. Da tel(a) con l'aggiunta del suffisso "-oso", dal latino "osu(m)". Suffisso che - come si legge nei vocabolari - indica - caratteristica, abbondanza, qualità: presuntuoso, pauroso, schifoso.Telare è un verbo "popolareggiante" che significa  "scappare", "darsela a gambe", "sgattaiolare". 


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SbaSballato e spallato

Si presti attenzione ai due termini in oggetto perché spesso si confondono o vengono adoperati impropriamente ritenendoli l'uno sinonimo dell'altro. Il primo, aggettivo, significa "tolto dalla balla": la merce arrivata non è stata ancora sballata. Viene anche adoperato, ma non correttamente,  nel significato di "infondato", "senza speranza" e simili: Giulio è l'avvocato delle cause sballate.  Il secondo è il participio passato di "spallare": un cavallo spallato, vale a dire con le spalle rovinate (dal forte peso). Si deve adoperare in funzione aggettivale in luogo di "sballato" (infondato, senza senso, che non regge e simili): il tuo ragionamento è spallato (in senso figurato: con le spalle rotte, quindi , non sta in piedi, non ha una logica, non regge).

mercoledì 19 febbraio 2020

Simulare ed emulare

Sembra incredibile: molte persone ritengono i verbi "simulare" e "emulare" l'uno sinonimo dell'altro (e, quindi,  aventi lo stesso significato). 
   Questa "convinzione", probabilmente, è dovuta al fatto che i due verbi contengono la medesima terminazione: "-mulare". No, i verbi in oggetto hanno in comune solo la provenienza latina. Il primo è pari pari il latino "simulare", è un verbo deaggetivale,  tratto da "similis" (simile) e vale, propriamente, "rendere, fare simile". Simulare qualcosa significa, quindi, "far sembrare reale, vero ciò che in realtà non è": Giovanni ha simulato un incidente stradale per truffare l'assicurazione. 
   Il secondo, sempre di provenienza latina, è tratto da "aemulus"  (seguace, imitatore, competitore), significa, per tanto, "imitare, uguagliare una persona o qualcosa": il piccolo Pietro emulava gli eroi dei cartoni animati.


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La lingua "biforcuta" della stampa

Più case da sogno ma in periferia non compra nessuno: chi sale e chi scende nel mercato immobiliare

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Meglio: di sogno. Per l'uso "corretto" della preposizione 'da" si veda un nostro vecchio intervento.

martedì 18 febbraio 2020

Un dubbio mi assilla...


Dal dr Claudio Antonelli riceviamo e pubblichiamo

"Buonasera, ho da un po’ di giorni un dubbio che mi assilla... è corretta la frase : avevo intenzione di chiederle se sarei potuta venire anch’io all’incontro ? In questa frase il se non rientra in un periodo ipotetico, ma in una interrogativa indiretta quindi l’uso del condizionale non dovrebbe essere sbagliato, tuttavia non ne sono convinta, grazie per l’aiuto."
    In sintesi, la frase è la seguente: "Avevo intenzione di chiederle se sarei potuta venire anch'io all'incontro".
    Si tratta di un'interrogativa indiretta e non di un periodo ipotetico. L'imperfetto "avevo intenzione" costituisce la frase reggente, mentre il "se" introduce la frase subordinata che è appunto un'interrogativa indiretta.
    Le grammatiche ci dicono che nelle interrogative indirette il condizionale passato (composto) ("se sarei potuta venire") contrassegna un'azione posteriore rispetto a un tempo storico ("avevo intenzione") della reggente, ossia indica il futuro nel passato. Quindi, la formulazione "avevo intenzione di chiederle se sarei potuta venire anch'io all'incontro" è corretta. La persona non ha partecipato all'incontro che doveva avvenire e domanda: avrei potuto anch'io partecipare all'incontro se glielo avessi chiesto?
    Chi cerca delle complicazioni può continuare nella lettura di questa mia analisi (non sono un linguista e cerco d'imparare anch'io).
    Ma è questo il vero senso espresso dalla frase?
    Non vi nascondo che dopo averla pronunciata sommessamente un paio di volte, mi sono sorti dei dubbi su questa frase a causa del suo significato che non mi appare del tutto esplicito, dato anche che ignoriamo il contesto cui essa si riferisce (tra l'altro, non sappiamo a chi riferisca quel "chiederle": è forse un "chiederLe")?
    La frase, presa da sola, può quindi prestarsi a delle interpretazioni.
    1. Avevo intenzione di chiedere a quella persona (o a Lei, egregio signore) se sarei potuta (se potevo, se potessi) venire anch'io all'incontro. Un incontro che al momento della richiesta, anzi dell'intenzione, doveva ancora svolgersi.
    2. Avevo intenzione di chiedere a quella persona (o a Lei, egregio signore) se sarei potuta venire anch'io all'incontro (già avvenuto rispetto al momento di "avevo intenzione"). Ma il condizionale passato dà invece l'idea che l'incontro era nel futuro. Quindi questa interpretazione del senso della frase è forzata.
    3. Un'interpretazione che mi appare ugualmente forzata e addirittura sbagliata è: Ho intenzione di chiedere a Lei, egregio signore, se potrò venire anch'io all'incontro.
    Se l'imperfetto di "chiedersi" - "mi chiedevo" - esprime un evento del passato  (l'interrogante si chiedeva allora, in quelle circostanze) cui si contrapponeva un evento del futuro (il progettato incontro),  è certo che nell'interrogativa indiretta della nostra frase il "se sarei potuta venire" è grammaticalmente corretto, poiché "in un'interrogativa indiretta il condizionale composto indica il futuro del passato".
    Se quell'"avevo intenzione" è un imperfetto con valore di presente, ossia è un imperfetto di cortesia ("al quale si ricorre per smorzare in modo garbato la perentorietà di una richiesta" - Wikipedia), e se l'incontro in questione, in riferimento al tempo passato, doveva ancora svolgersi, ugualmente la frase è corretta perché nelle interrogative indirette il futuro del passato si esprime preferibilmente con il condizionale composto.
    Se l'evento (l'incontro) è invece in un futuro che non si è ancora realizzato, e se il richiedente intende attraverso questa frase chiedere il permesso di parteciparvi, la chiarezza vorrebbe che egli usasse il condizionale semplice, oppure l'indicativo al presente o al futuro. Ripeto: se il dicitore o lo scrivente attraverso quella sintetica frase mira, nel presente, a ottenere il permesso di partecipare a un "incontro" che deve ancora aver luogo ("se sarei potuta venire anch'io all'incontro") le cose cambiano. Per rendere questo futuro rispetto al presente di "avevo intenzione = ho intenzione" (nel caso in cui si tratti di un imperfetto con valore di presente) occorrerebbe servirsi, secondo me, del condizionale semplice: "Avevo (= ho) intenzione di chiederle se potrei venire anch'io all'incontro". O anche l'indicativo: "Avevo (= ho) intenzione di chiederle se posso venire anch'io all'incontro" o "Avevo (= ho) intenzione di chiederle se potrò venire anch'io all'incontro". O anche il congiuntivo: "Avevo (= ho) intenzione di chiederle se possa venire anch'io all'incontro".

Non mi avventuro personalmente oltre, anche perché mi rendo conto che le mie sofferte spiegazioni potrebbero apparire, ad una rapida lettura, non del tutto chiare. Cedo ora la parola a un linguista del Web, e quindi alla Crusca.

Dal Web. Il linguista Francesco Bianco scrive:

    Mi chiedevo se ti andasse di uscire si può usare in riferimento a una domanda passata.
Mi chiedevo se ti sarebbe andato di uscire si usa con riferimento al futuro nel passato: è qualcosa che si chiedeva lei ieri a proposito di un evento che sarebbe avvenuto in futuro (ieri stesso, dopo alcune ore, oggi, oppure domani).
Mi chiedevo se ti andrebbe di uscire si può usare per il presente, p. es. per invitare qualcuno.
Mi chiedo se ti andasse di uscire è una domanda che ci si pone riguardo a un evento passato.
Mi chiedo se ti andrebbe di uscire si può usarla nel presente, per invitare qualcuno.
Mi chiedo se ti vada di uscire si usa sempre nel presente, ma piuttosto per domandarsi qualcosa che per rivolgere un invito.
Mi chiedo se ti sarebbe andato di uscire (qualora te lo avessi chiesto) è una domanda che ci si pone rispetto a eventi non realizzati nel passato.
I dubbi, su cui spero di aver fatto luce, sono legati alla possibilità dell'imperfetto di agire non solo come tempo storico, ma anche come da tempo "attenuativo" (caratteristica che condivide con il condizionale), in vece del presente indicativo. Quando diciamo al salumiere volevo [= vorrei] due etti di prosciutto non stiamo raccontando ciò che avremmo desiderato mangiare il giorno prima, ma stiamo esprimendo una richiesta concreta.
Ecco il quesito posto a quelli della Crusca.

"Vorrei sapere se la domanda che segue è corretta o no. 'Vorrei chiederle se potesse darmi qualche suggerimento al riguardo...'


Risposta della Crusca. L'attenzione verte principalmente sulla consecutio temporum. Nella dichiarativa, compare una forma di cortesia, che attenua il tono diretto della richiesta, realizzabile in vari gradi a scalare (Voglio chiederle, Le chiedo, Le chiederei) grazie all'introduzione del verbo modale volere e all'adozione del condizionale. Vorrei chiederle equivale dunque a Le chiederei: in dipendenza da un condizionale (qui di cortesia, equivalente, di fatto, a un presente indicativo più “gentile”), l'interrogativa indiretta esplicita, portatrice di un'azione posteriore rispetto a quella della reggente, seleziona il modo, tra congiuntivo e indicativo, a seconda della maggiore o minore ricercatezza stilistica: vorrei chiederle se possa darmi (più elevato) / vorrei chiederle se può darmi (standard). In questo caso, può avere senso anche l'uso del condizionale, vale a dire lo stesso modo che useremmo nell'interrogazione diretta, volendo essere cortesi (Potrebbe darmi...?): vorrei chiederle se potrebbe darmi. Il tempo dell'interrogativa indiretta è il presente (o, al limite, il futuro, nel caso di uso dell'indicativo: vorrei chiederle se potrà darmi).


domenica 16 febbraio 2020

Sgroi - 39 - Educazione linguistica "democratica"


di Salvatore Claudio Sgroi

 1. L'evento meta-linguistico
Scrivere "Le vicende de I promessi sposi" (anziché "Le vicende dei Promessi sposi"), o "ne Le mille e una notte" (al posto di "nelle Mille e una notte"); o "su I Malavoglia" (in luogo di "sui Malavoglia"), o ancora "a La dolce vita" felliniana (invece di "alla Dolce vita") -- sarebbe per il pur bravo storico della lingua (e scrittore) Giuseppe Antonelli un "violare la grammatica, inventando una preposizione che in italiano non esiste", ovvero un "forzare in questo modo le regole dell'italiano di oggi". 
È quanto si può leggere, con qualche sorpresa, nell'ultimo intervento, In italiano non esiste la preposizione 'de', nella sua rubrica "Lezioni di Italiano" del magazine "7" (p. 73) del "Corriere della Sera" del 14 febbraio scorso.

 1.1. Un pò (sic!) di grammatica
Ora, a parte il fatto che negli ess. di cui sopra in "su I", "a La" le preposizioni (su, a) non sono affatto inventate, perché possono ricorrere così in altri contesti, ma anche nel caso "de I", come ben sa il grammatico Antonelli, il "de" non è affatto una bizzarra "invenzione" del parlante ma è una variante combinatoria (o allomorfo) della preposizione semplice "di" quando si combina con l'art. per dar luogo alle preposizioni articolate. La preposizione "di +il, +lo, +la, +l', +i, +gli,+ le" diventa infatti "del, dello, della, dell', dei, degli, delle". E non diversamente "ne" variante combinatoria di "in" nel nesso con "le", "il" ecc.: "in+Le" = nelle; "in + Il" = nel, ecc.

 2. Valenza semantica della grafia non-univerbata del titolo [Regola-1]
Come ben sottolinea lo stesso Antonelli, "ad agire è in questi casi [di grafia non univerbata] una sorta di sacralità del titolo", ovvero si vuole "preservare l'intangibilità di un titolo". 
Si tratta cioè della [Regola-1] di chi scrivendo vuol enfatizzare il titolo originale con il suo bravo articolo, parte integrante. E non già banalizzare il titolo, -- [Regola-2] -- scorporandone graficamente l'articolo determinativo. 
Si osservi peraltro che la separazione grafica dell'articolo non ha ricadute sulla pronuncia della preposizione articolata, che in tutti i casi, univerbata o no, è una sola: "de I", "dei" fonologicamente /dei/; -- "ne Le", "nelle" /nelle/; -- "su I", "sui" /sui/; -- "a La", "alla" /alla/.

 3. Gli autori della grafia non-univerbata
La regola grammaticale, ortografica, non-univerbata -- [Regola-1] -- è adottata non solo dai soliti studenti nelle loro "tesi" e "tesine", ma, come precisa lo stesso Antonelli, "nei giornali", "ma anche nei libri di testo e in molti saggi accademici". E quindi è ipso facto -- aggiungiamo noi -- "corretta". 
Sono infatti i parlanti/scriventi (peraltro colti) a creare le Regole (qui ortografiche) della lingua.
Non è affatto vero, come si legge nel box dell'articolo, che con la grafia non-univerbata "si preferisce violare la grammatica". 
Voler rispettare l'"integrità dei titoli di libri e film" è la [Regola-1] scelta dagli scriventi colti, che si affianca alla [Regola-2] di chi non ritiene opportuno sottolineare la fedeltà del titolo.

 4. Ruolo del Linguista e libertà degli Utenti
Non è quindi certamente un "forzare le regole dell'italiano" preferire la [Regola-1] alla [Regola-2], come ritiene Antonelli. 
Riteniamo invece che il parlante/scrivente possa scegliere liberamente tra [Regola-1] e [Regola-2], in quanto si tratta di usi diffusi in testi colti, mentre al linguista spetta l'onere della illustrazione a) delle due regole, alternative, alla base di tali usi, e b) del tipo di utenti che l'adottano, fermo restando che anche il linguista come parlante/scrivente avrà le sue preferenze, da non imporre tuttavia agli altri.