mercoledì 30 marzo 2022

Un mangiafuoco, due... mangiafuochi


 Sí, siamo sicuri, saremo colpiti dagli strali dei linguisti perché    avanziamo una proposta "oscena" sotto il profilo linguistico; proposta che - naturalmente - sarà avversata, meglio, condannata dai glottologi. Perché "oscena"? Perché vogliamo pluralizzare il sostantivo "mangiafuoco" quando tutti i vocabolari consultati lo ritengono invariabile. A nostro avviso, questo sostantivo deve seguire la regola del plurale dei nomi composti che, se formati con una voce verbale e un sostantivo maschile singolare, restano invariati  solo se si riferiscono a un femminile come, per esempio, ficcanaso: il ficcanaso / i ficcanasila ficcanaso / le ficcanaso. Mangiafuoco non è composto - come ficcanaso - di una voce verbale (mangia) e di un sostantivo maschile singolare (fuoco)? Perché, dunque, deve rimanere invariato? Diremo: Carlo è un mangiafuoco; Giulio e Luigi sono dei mangiafuochi; Lucia è una mangiafuoco; Rossana e Stefania sono delle mangiafuoco. Il plurale, che riteniamo "supercorretto", si trova in numerose pubblicazioni.

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Ammarare e ammarrare - si faccia attenzione a questi verbi - non sono uno variante dell'altro, hanno accezioni diverse. Il primo significa "scendere sul mare"; il secondo sta per ormeggiare.

Breve cenno - locuzione ridicola: un cenno è breve di per sé.

Attingere - si attinge "da", non "a": ho attinto la notizia da un giornale in rete.


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Da "Risposte ai quesiti" dell'Accademia della Crusca

Ma quante declinazioni per il verbo declinare!

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Ma i verbi non si coniugano?

  

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Segnaliamo un sito per chi ama la lettura e i libri.














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lunedì 28 marzo 2022

Nocenza non significa innocenza

 


In un “processo familiare” il giudice, vale a dire il padre di un bambino, imputato di aver picchiato un suo compagno di classe, esclamò: «Ecco la prova della sua nocenza!». Tutti applaudirono perché credevano che “nocenza” fosse l’aferesi di “innocenza”. L’ “imputato”, quindi, era non colpevole. Ma le cose in lingua non stanno cosí. “Nocenza” non è l’aferesi di innocenza. L’aferesi, come si dovrebbe sapere, è la caduta di una vocale o di una sillaba iniziale di una parola. Tondo, per esempio, è l’aferesi di rotondo [(ro)tondo]. Il termine, non attestato in numerosi vocabolari, non è, insomma, “[in]nocenza”, ma il suo contrario e sta per colpevolezza . E a proposito di aferesi, “accorciamento” e “apocope” non sono sinonimi di aferesi - come ritengono alcuni pseudolinguisti - perché indicano la caduta della vocale o della sillaba finale di una parola, il contrario di aferesi, dunque.

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Una piccola notazione sull’uso corretto degli aggettivi numerali “frazionari”. È necessario tenere presente, dunque, che nella numerazione decimale la parte frazionaria deve essere divisa dall’intero da una virgola: è alto m 1,75 (i metri, i centimetri, i chilometri ecc. non debbono assolutamente essere seguiti dal punto). Nei sistemi non decimali – come nel caso delle ore – la virgola deve essere sostituita dal punto o, meglio ancora, dai due punti: sono le 10.45 (o 10:45); si tratta, infatti, di 45 sessantesimi e non di 45 centesimi. È errore madornale, quindi, dividere le ore dai minuti mediante una virgola. Ma siamo sicuri che la nostra modesta “predica” sarà, come sempre, rivolta al vento. Continueremo a leggere o,  meglio, a vedere sulla stampa le ore scritte in modo errato: la conferenza di fine d’anno si terrà alle 17,30.  Ma tant’è. Ecco un esempio, fresco fresco (da un quotidiano in rete, di ieri): 

 Il percorso della Mezza Maratona a Torino, partenza alle 9,30

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Forse non tutti sanno che le Alpi, le montagne che dividono l'Italia dalla Francia, mutuano il nome dal greco "alphos", bianco, perché le cime di queste montagne sono sempre innevate.



 

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domenica 27 marzo 2022

L' aposiopèsi

 


Ciò che stiamo per scrivere sarà censurato da qualche linguista o sedicente tale - ne siamo certi - se per caso ci dovesse leggere. Siamo convinti, però, della bontà della nostra tesi e proseguiamo per la nostra strada. Vogliamo parlare di una figura retorica chiamata “aposiopèsi” e ritenuta affine, per non dire identica alla “preterizione”. A nostro avviso, invece, sono due figure con significati completamente diversi. La preterizione, dal latino “praetéreo” (trascurare, passare oltre) è una figura retorica per la quale il parlante o lo scrivente dichiara di non voler parlare di un determinato argomento ma ne... parla subito dopo. Petrarca ci dà un bellissimo esempio di preterizione: “Cesare taccio, che per ogni piaggia fece l’erbe sanguigne di lor vene ove il nostro ferro mise”. 

L’aposiopèsi (probabilmente poco conosciuta sotto questo nome perché ritenuta, appunto, sinonima di preterizione), dalle voci greche “apo” (da, particella intensiva) e “siòpesis” (taccio, ammutolisco, passo in silenzio, trascuro), consiste, invece, nel tacere qualcosa nel corso del discorso e nello scritto è rappresentata dai puntini di sospensione. Si usa, generalmente, per richiamare l’attenzione su ciò che si è taciuto, ma facilmente comprensibile. Si adopera anche per esprimere un dubbio, una certa perplessità, un’esitazione di chi scrive. Ecco un esempio manzoniano: “Lo può; e potendolo... la coscienza... l’onore...”. Concludendo queste noterelle possiamo affermare (e attendiamo eventuali smentite) che la preterizione “parla dopo”, l’aposiopèsi “non parla né prima né dopo”.


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La lingua "biforcuta" della stampa

LE NUOVE REGOLE

 Super Green Pass, quarantene e mascherine: ecco cosa cambia dall'1 aprile con la fine dello stato di emergenza

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Correttamente: dal 1 aprile. Crusca: Le indicazioni comprendenti anche mese e giorno sono introdotte modernamente da un articolo maschile singolare: «il 20 settembre 1870»". Per estensione, si può aggiungere che, nel caso di una data come 11/10/1989, l'articolo che vi si anteporrà sarà l' (seguendo la pronuncia della data: l'undiciottobre millenovecentoottantanove); stessa regola vale per le date che iniziano con 1: anche per queste, si considera il modo in cui tali date vengono pronunciate e quindi si scriverà il 1/2/2003 (cioè il primo febbraio duemilatré). Infatti, come specifica Serianni, "Per i giorni del mese si usa l'ordinale per il giorno iniziale [...], ma il cardinale per i giorni successivi, siano o non siano accompagnati dal giorno del mese [...]."





 



Scaricabile, gratuitamente, dalla Rete

















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sabato 26 marzo 2022

Come è "nata" la carta assorbente

 


F
orse pochi sanno che la carta assorbente nacque per l’errore di un operaio, errore che gli costò il licenziamento da parte del proprietario della cartiera dove lavorava, in una località del Regno Unito. Il dipendente aveva dimenticato di mettere, nell’impasto di una carta comune, la giusta quantità di colla. Trascorso un po’ di tempo, il padrone della cartiera si accorse che quella carta, che egli riteneva inutilizzabile, assorbiva l’inchiostro senza spanderlo: il povero operaio, inavvertitamente, aveva fatto un’importantissima scoperta. Questo tipo di carta, eccezionale, venne lanciato sul mercato riscotendo un immediato e enorme successo facendo la fortuna del “cartaio”. Da quel momento la cartiera produsse esclusivamente carta assorbente e l’operaio, riassunto con tutti gli onori, ne divenne il direttore.


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Uso corretto del gerundio


Ai tempi della scuola ci hanno insegnato molte “inesattezze”, come quella che il gerundio non si può adoperare se non si riferisce al soggetto della proposizione reggente e non si può trovare a inizio di frase. Niente di piú “falso”, lo sostiene Francesco Sabatini (già presidente della “Crusca”) rispondendo a un quesito di un lettore.

Il lettore ci pone un quesito che rivela, ancora una volta, come le spiegazioni approssimative di molti libri di grammatica (desiderosi di essere soprattutto brevi) possono creare dubbi d’ogni sorta. La regola che mette in guardia dall’usare, in una frase implicita, il gerundio riferito a un altro soggetto che non sia quello della frase reggente, gli è stata forse presentata in maniera tanto cieca da fargli supporre che, tolto questo caso, il gerundio non si possa usare. Quella regola invece si completa dicendo che il gerundio di una frase implicita può riferirsi anche a un soggetto diverso da quello della reggente a patto che quel soggetto venga introdotto, con un nome o un pronome: la frase citata come difettosa – Essendo tu un bravo studente, io ho stima di te – è invece assolutamente corretta. C’è un solo accorgimento da rispettare: il soggetto di un gerundio non riferito al soggetto della frase reggente va posposto al gerundio (Essendo tu …; non Tu essendo, una posizione accettata nell’uso antico, che oggi suonerebbe aulica). È chiaro che quest’uso è proprio di uno stile un po’ ricercato, dal momento che più comunemente si dice: siccome sei un bravo studente, … o visto che sei …. Esistono poi altri casi di non “coreferenza” del gerundio al soggetto della frase reggente: quando si mette al gerundio un verbo impersonale (Piovendo a dirotto, non siamo usciti di casa); quando si introduce un cosiddetto “soggetto generico” (Ripensandoci, le tue parole non mi sono piaciute; cfr. L. Renzi, Grande grammatica italiana di consultazione, vol. II, Bologna, Il Mulino, 1991, pp. 572-574), meglio ancora quando un soggetto generico del gerundio si associa a una reggente impersonale: (sbagliando, s’impara)».



 

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venerdì 25 marzo 2022

Studentessa, sí; 'cantantessa', no. Perché?

 


Riteniamo opportuno fare un po' di chiarezza sui nomi così detti di genere comune; quei nomi, cioè, che hanno un'unica desinenza tanto per il maschile quanto per il femminile. Come si riconosce, dunque, il loro sesso? La mascolinità o la femminilità da cosa è data?

Isesso, in questi casi, si riconosce dall'articolo o dall'aggettivo che li accompagna: ho conosciuto tua nipote; è un cantante che va per la maggiore. Nipote e cantante, come si vede chiaramente, hanno la medesima desinenza sia per il maschile sia per il femminile: abbiamo riconosciuto il loro sesso dall'aggettivo e dall'articolo che li precedono.


Appartengono, dunque, ai nomi di genere comune (vale a dire sia maschile sia femminile):
a) tutti i participi presenti con valore di sostantivo (cantantequestuante; tra questi metteremmo anche lo studente e la studente, anche se comunemente si preferisce – con l'avallo dei sacri testi – la forma 'errata' studentessa; per analogia dovremmo avere, quindi, cantantessa*);
b) gran parte dei sostantivi in  e (nipotepreside, il vigile, la vigile; da evitare, in proposito, vigilessa: non c'è alcun motivo che giustifichi tale femminilizzazione, anche se comunemente in uso);
c) i sostantivi terminanti in  -ista (pianistaspecialista);
d) i sostantivi di origine greca in  -iatra (pediatraodontoiatra, ma, attenzione archiatro, meglio di archiatra, derivando il termine da 'iatròs', medico);
e) i sostantivi di provenienza latina terminanti in  -cida (suicida, parricida);
f) alcuni sostantivi in  -a, come collega, atleta;
g) i nomi terminanti in  -ante cui, però, non corrisponda una radice verbale, come, per esempio, negoziante (che non viene dal verbo negoziare, ma da negozio) e birbante (che non proviene dal verbo birbare che è inesistente).


Per concludere due parole sul parricida. Questo sostantivo – contrariamente a quanto si pensi – si riferisce non solo a chi uccide il proprio padre, ma anche a chi uccide un ascendente o un discendente (un parente stretto): lo stesso padre che uccide il figlio è un parricida.

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* Cantantessa si trova, comunque, in numerose pubblicazioni.


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Orripilante orripilazione –  si presti attenzione a questi due vocaboli: non sono l’uno sinonimo dell’altro. Il primo termine è un aggettivo e significa che desta raccapriccio: è uno scenario orripilante; il secondo è un sostantivo femminile e indica l’erezione dei peli sulla pelle per il freddo, per un’emozione e simili.



 

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giovedì 24 marzo 2022

La stampa e gli ausiliari (verbi)

 


Tutti dovremmo sapere che - stando alla regola generale - i verbi transitivi, nella forma composta attiva prendono l’ausiliare avere (ho amato), in quella del passivo l’ausiliare essere (sono lodato). Gli intransitivi, avendo soltanto la forma attiva, prendono ora l’ausiliare avere (ho dormito), ora l’ausiliare essere (sono partito) secondo l’uso comune. Solo un buon vocabolario potrà sciogliere i dubbi che possono di volta in volta insorgere a tale riguardo. Nonostante ciò ci capita di leggere sulla stampa frasi in cui l’uso dell’ausiliare è errato. Vediamo, piluccando qua e là, alcuni esempi in cui l’ausiliare è, per l’appunto, errato; in corsivo l’ausiliare errato, in parentesi quello corretto. Una immensa folla ha affluito (è affluita) in piazza S. Pietro per ascoltare le parole del Pontefice; dopo l’incidente il treno è (ha) deviato presso la stazione piú vicina; l’incendio, che ha (è) divampato rapidamente, ha impegnato per molte ore i vigili del fuoco; le Frecce Tricolori sono sorvolate (hanno sorvolato) su piazza del Popolo; la notizia clamorosa dell’arresto eccellente ha dilagato (è dilagata) rapidamente per tutta la città; l’operazione di polizia ha avuto luogo appena ha (è) annottato; il ragazzo stava per morire dissanguato perché il sangue aveva (era) fluito dalla ferita per parecchie ore. Potremmo continuare ma ci fermiamo qui. Un’ultima annotazione. Per quanto riguarda i vocabolari è meglio "spulciare" diversi dizionari: molto spesso uno contraddice l’altro. Se due su tre concordano...

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La parola proposta da questo portale: almirarco. Sinonimo (letterario) di ammiraglio. Termine di provenienza classica essendo composto con le voci greche "almyros" (marittimo), "als" (mare) e "archos" (capo).



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martedì 22 marzo 2022

Uso e abuso delle preposizioni

 


Spesse volte, probabilmente senza rendercene conto, infarciamo i nostri scritti di preposizioni che, “in realtà”, sono superflue se non addirittura errate. Sarebbe bene, per tanto, rileggere con la massima attenzione le nostre “opere letterarie” prima di darle, si fa per dire, alle stampe. Qualche esempio renderà il tutto piú chiaro. Vediamo, quindi, piluccando qua e là, di “scovare” queste preposizioni mettendole in corsivo. I coniugi, nonostante la stanchezza per il lungo viaggio, alla (la) mattina seguente si alzarono prestissimo; in riguardo a lui, tutti sarebbero stati d’accordo che comportandosi in quel modo sarebbe stata un’ingiustizia; è veramente difficile a descrivere quel che è successo l’altro giorno; l’assemblea, per acclamazione, ha eletto a  presidente della Società il rag. Sempronio; è stato notato, da tutti, che per tutto il tempo della conferenza Giovanni e Virgilio bisbigliavano fra di loro; a questo punto gentili amici, non mi resta altro che di salutarvi caramente; state tranquilli, verremo a trovarvi dopo di cena; nessuno osava di entrare in quella stanza; in quell’anno tutti gli imputati erano minorenni.

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Far querciola (o quercia)

Chissà quanti amici blogghisti, da ragazzi, hanno messo in pratica, senza saperlo, questo modo di dire. In che... modo? Assumendo la posizione verticale inversa a quella naturale, camminando appoggiando le mani per terra e alzando le gambe (il classico “gioco” dei fanciulli). Perché si dice “far quercia”? Benedetto Varchi, nel suo Ercolano, cosí spiega la locuzione: Non sapete voi che l’uomo si dice essere una pianta a rovescio, cioè rivolta all’ingiú? onde chiunche, distese e allargate ambo le braccia, s’appoggia colle mani aperte in terra, e tiene i piè alti e dritti verso ‘l cielo, si chiama far quercia.  

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La parola proposta da questo portale: allotrioepiscopo. Sinonimo aulico di impiccione. Sostantivo composto con le voci greche "allotrios" (altrui), "epi" (sopra) e "scopeo" (osservare, guardare).


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La lingua "biforcuta" della stampa

BORNO

Fatta a pezzi, il corpo bruciato e poi congelato: ecco che cosa sappiamo. Sul caso l'investigatore della vigilessa Ziliani

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Ancora vigilessa! Quando gli operatori dell'informazione "comprenderanno" che buona parte dei sostantivi maschili in "-e" nella forma femminile mutano solo l'articolo: il preside/la preside; il giudice/la giudice; il presidente/la presidente; il vigile/la vigile (ma consigliere/consigliera; assessore/assessora; questore/questora).



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lunedì 21 marzo 2022

Chi fa i conti senza l'oste...


 Chi non ha mai sentito (o detto) l'espressione "fare i conti senza l'oste?" Locuzione che ha generato il proverbio "chi fa i conti avanti l'oste gli convien farli due volte". Fare i conti senza l'oste significa ─  come si sa ─ "prendere decisioni, per lo piú affrettate, senza tener conto degli ostacoli  che altri potrebbero frapporvi". Ma come e dove è nato il modo di dire? È nato nelle osterie di un tempo. Gli osti di una volta godevano della fama di essere persone molto astute, sempre pronte a fare i propri interessi con qualsiasi mezzo o espediente. L'espressione fa riferimento, dunque, alla loro abilità nell'imbrogliare gli avventori, i quali dovevano pagare un conto superiore a quello preventivato perché l'oste vi aveva aggiunto altre indicazioni di spesa che lasciavano sorpresi  i clienti.

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Scongiurare

Saremo scomunicati dai linguisti (e lessicografi) per quello che stiamo per scrivere ─ anche perché siamo sbugiardati dai vocabolari dell'uso ─  ma la cosa non ci interessa, e andiamo avanti per la nostra strada, convinti della bontà della nostra tesi. Intendiamo parlare di un uso "scorretto" del verbo 'scongiurare'. L'accezione primaria del verbo in questione è "pregare", "supplicare": Marco, ti scongiuro, comportati bene con i tuoi insegnanti. Viene anche adoperato ─ e qui sta il nostro dissenso ─ con il significato di "allontanare", "prevenire", "evitare": il pericolo di contagio è stato scongiurato. Il pericolo si prega?, si supplica? No, si allontana, si evita. Insomma, quando il verbo scongiurare non è adoperato con l'accezione di "pregare", "supplicare" e simili, a nostro modo di vedere è malamente usato.



 

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sabato 19 marzo 2022

Il "leggivoro"


 Come si chiama la persona che legge qualunque cosa che le capiti sotto gli occhi? Non ha una denominazione specifica. Proponiamo “leggivoro” (dalle voci latine “legere” e “-vorus”, da “vorare”, divorare), sulla scia di onnivoro: Mario è proprio un leggivoro, legge di tutto. Che ne pensano gli amatori della lingua?

Nonché

Riteniamo importante spendere due parole su una congiunzione non sempre adoperata a dovere: nonché (o non che).

Questa congiunzione, dunque, ha valore rafforzativo o intensivo e significa “tanto piú” (“tanto meno”), “per di piú”, “inoltre”, “oltre che”, è errato, quindi, il suo uso al posto della congiunzione “e”.

Si legge, molto spesso, nelle cronache dei giornali: alla cerimonia sono intervenuti il ministro del lavoro nonché rappresentanti del mondo imprenditoriale.

È chiarissimo come la luce del sole che in questo caso “nonché” sta per “e”, il suo uso, perciò, è orribilmente errato.

La congiunzione nonché è adoperata correttamente, invece, in frasi del tipo: è un giovane intelligente, nonché (per di piú, oltre che) studioso.

Dal momento che...

Se qualche “linguista d’assalto” dovesse imbattersi in questo portale strabuzzerà gli occhi e, naturalmente, dissentirà su quanto stiamo per scrivere; ma non ci interessa e andiamo avanti per la nostra strada, come abbiamo sempre fatto.

Vogliamo parlare dell’uso errato, che fanno molti, dell’espressione “dal momento che”. Molte persone, dunque, danno alla locuzione suddetta un significato che non ha: “dato che”; “giacché”, “visto che”, “poiché” e simili. Ci capita di leggere e di sentire, spesso, frasi del tipo: “Dal momento che sei qui aiutami in questo lavoro”.

In buona lingua, “dal momento che”, in frasi simili, deve essere sostituito con “giacché”, “visto che” ecc.: «Visto che sei qui aiutami in questo lavoro». “Dal momento che” ha tutt’altro significato: “dall’istante in cui”, “fin dal momento in cui”: «Quell’individuo non mi dà affidamento dal momento (cioè: dall’istante in cui, fin dal momento in cui) che l’ho conosciuto».





 La recensione del prof. Aldo Onorati, dantista, su "Pagine della Dante"











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giovedì 17 marzo 2022

Gianese: abitante di Giano (PG) o di Giano (CE)?

 


I
l demotico gianese indica sia l'abitante di Giano dell'Umbria (PG) sia quello di Giano Vetusto (CE). Come facciamo a disambiguare? Come facciamo, insomma, senza un contesto, a sapere  quando si parla ─ di quale gianese si tratta? Sembra che il comune campano abbia assunto la specificazione Vetusto (antico) nel 1863, dopo l'unità d'Italia, per distinguerlo dal comune umbro; il demotico gianese, però, è rimasto per ambe (sic!) le località. Proponiamo, quindi, agli addetti alla coniazione degli etnici, di lasciare il demotico gianese per l'abitante della località umbra e (ri)denominare "gianvetustano" l'abitante del paese campano. Il toponimo di quest'ultimo sembra derivi da un tempio dedicato a Giano.

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 C'hanno?

È corretto apostrofare il pronome personale “ci” davanti al verbo avere? Molto spesso ci capita di leggere, sulla stampa, frasi tipo “c’hanno detto che...”. Insomma, ci hanno o c’hanno?  

Nessuna legge grammaticale vieta di apostrofare la particella pronominale ci e l’omonimo avverbio di luogo davanti a parole che cominciano con le vocali e e i: c’entra, c' invitò. Alcuni linguisti ammettono l’apostrofo anche davanti ad altre vocali. Ci sembra un uso scorretto e da condannare.

L’elisione è corretta solo se, come dicevamo, la parola che segue la particella comincia con una e o con una i al fine di conservare alla consonante c il suono palatale.


Davanti alle altre vocali la c acquisterebbe un suono gutturale: ci approvò e non c’approvò; ci andrei e non c’andrei, ché si leggerebbero rispettivamente capprovò e candrei.
Per lo stesso motivo bisogna scrivere ci hanno e non c’hanno in quanto si leggerebbe canno.

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La recensione del prof. Aldo Onorati, dantista, pubblicata su "Pagine della Dante"


Il sottotitolo di questo libro “necessario” è Primo soccorso linguistico. Gli autori: Carlo Picozza, Fausto Raso, Santo Strati. Ci sono illustrazioni simpaticissime di Massimo Bucchi. Ed. Media&Books, pp. 304. € 18,00.

Chi sono i “soccorritori”? Carlo Picozza è giornalista professionista (Il Messaggero, Affari & Finanza, Repubblica); Fausto Raso, battagliero difensore del nostro idioma, ha scritto, fra l’altro, 'Un tesoro di lingua'; Santo Strati, anch' egli giornalista professionista, ha lavorato per la RAI e dirige il quotidiano digitale e online Calabria.live. Tre firme sicure, instancabili. Quotidianamente mi giunge  “Lo  SciacquaLingua”  curato da Fausto Raso, ed è la prima cosa, nel computer, che leggo la mattina. Ora, piluccando nel “vocabolario” di soccorso alla nave linguistica che sta affondando nel Tirreno, nell’ Adriatico e in altri 'maricciuoli' nostri, imparo, mi diverto e rifletto – anche con amarezza  – sull’inutile  fatica del nostro padre Dante, del raffinatissimo Petrarca, dell’ipotattico Boccaccio, del dittatore della lingua Pietro Bembo, del mite Manzoni che ha risciacquato i suoi panni in Arno, e di tutti coloro i quali si sono sforzati di migliorare un dettato bellissimo: l’idioma cantabile per eccellenza. Perché mi viene tale scoramento? 

Lasciamo da parte le intrusioni violente dell’inglese, che fa da padrone in terra altrui (tanto che pure i termini latini vengono pronunciati come fossimo in Inghilterra, es.: media, tutor,  trasformati in midia, tiutor) e che viene scritto com’ è, senza alcuna assimilazione all’italiano; il peggio  è che  la  stampa,  mamma tv (seguita da decine di milioni di esseri linguisticamente indifesi), i libri – che dovrebbero essere l’abbecedario primo – insegnano a disimparare la lingua madre. Sto ruzzolando anch’io nel burrone, ma lo faccio per fini gnomici. A dare il colpo di grazia  a un essere morente, c’è l’uso generalizzato dei quiz. La formulazione di un concetto non è più ammessa, come quando dall’alto mossero guerra alla memoria. Il libro è complesso,  ma di stimolante lettura. Le prime trecento pagine (circa) riportano gli errori e gli orrori del giornalismo, spiegano i lemmi della tecnologia, chiariscono  gli acronimi “acrobatici”.  

La tecnica è quella dell’ordine alfabetico per ogni argomento: pillole antinfluenzali da prendere ogni qualvolta si hanno dei dubbi (e quanti ce ne sono nella nostra mente intossicata da giornali, libri strampalati pur di stare alla moda, discorsi e peggio conferenze   interminabili   dove   scappa non solo l’ errore, ma l’orrore linguistico). Insomma, è veramente un’ancora  di salvataggio immediato questo libro che assolve la funzione delle medicine salvavita nell’ambito della grammatica, della sintassi, della scrittura e della parlata d’una malata al cui capezzale stanno pronti in agguato altri idiomi che la porteranno  a morte per sostituirla!













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mercoledì 16 marzo 2022

La parola per eccellenza: il verbo


 Cortese dott. Raso, mi sono imbattuto, per caso, nel suo sito e ne sono rimasto totalmente "affascinato"; l'ho messo, quindi, tra i preferiti. Ho visto, anche, che ha scritto alcuni libri (da solo e con altri) sul buon uso della lingua italiana. Le scrivo perché non riesco a spiegare a mio figlio, che frequenta la quinta elementare, come distinguere i verbi transitivi da quelli intransitivi; spero che lei riesca dove io ho fallito. Può, pertanto, spendere due parole sull'argomento? Gliene sarei veramente grato. Grazie in anticipo se accoglierà la mia richiesta.

Cordiali saluti

Giovanni T.

Udine

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Gentile Giovanni, l'argomento è stato trattato qualche anno fa. Lo può trovare cliccando qui.


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"Bastargianesi"

Il comune di Giano dell'Umbria (PG) ha una frazione denominata "Bastardo" i cui abitanti si chiamano "bastardesi" o "bastardensi". Non sarebbe meglio cambiare il demotico in "bastargianesi"? Secondo chi scrive i ... bastargianesi sarebbero contenti se sparisse quel "bastard" iniziale.

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La parola proposta da questo portale: ampelurgica. Sostantivo femminile con il quale si indica la "scienza" (o "arte") che insegna a coltivare le viti. Sostantivo aulico composto con le voci greche "ampelos" (vite) e "ergon" (opera).














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lunedì 14 marzo 2022

Consigli e suggerimenti "linguistici"


 
Ancora una volta ci preme ricordare che il verbo “arricchire” si costruisce con le preposizioni “di” o “con”: un libro arricchito di/con foto. I “dicitori” dei notiziari radiotelevisivi assieme ai colleghi della carta stampata, imperterriti, continuano a utilizzare la preposizione “da”, che, ripetiamo, è scorretta inducendo, quindi, in errore gli ascoltatori e i lettori sprovveduti in fatto di lingua.

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Forse non tutti sanno (i sacri testi trattano l'argomento?) che molti avverbi diventano preposizioni quando sono preposti al sostantivo. Vediamone qualcuno: dentro (dentro la stanza), sopra, fuori, sotto, dopo, prima, dietro, davanti, senza, eccetto, presso ecc. È bene ricordare, inoltre, che una preposizione composta di piú parole si chiama modo prepositivo o locuzione prepositiva: per mezzo di..., insieme con, in luogo di ecc.

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Tutti i vocabolari consultati non contemplano il plurale di assolo (lo Zingarelli ammette le due opzioni: -lo e -li). Il DOP, oltre a registrare il plurale, fa un distinguo che riteniamo interessante e, quindi, da seguire.

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Buonasera, come si sa, è un sostantivo femminile ed è una formula di augurio e di saluto. Diventa di genere maschile, però, se si sottintende il saluto: amici cari, vi preghiamo di accogliere il nostro piú cordiale buonasera.

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La parola proposta da questo portale: allotriopragia. Sostantivo femminile di provenienza classica. Indica la "scienza" che si occupa dell'amministrazione delle cose altrui. È composto con le voci greche "allotrios" (altrui) e "pratto" (trattare, amministrare).


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La lingua "biforcuta" della stampa

SALUTE

Dal 1° maggio ipotesi di stop del green pass per i luoghi chiusi

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Non ci stancheremo mai di ripetere che il primo giorno del mese si scrive senza esponente. Correttamente: dal 1 maggio. Crusca: « [...] Le indicazioni comprendenti anche mese e giorno sono introdotte modernamente da un articolo maschile singolare: «il 20 settembre 1870»". Per estensione, si può aggiungere che, nel caso di una data come 11/10/1989, l'articolo che vi si anteporrà sarà l' (seguendo la pronuncia della data: l'undiciottobre millenovecentoottantanove); stessa regola vale per le date che iniziano con 1: anche per queste, si considera il modo in cui tali date vengono pronunciate e quindi si scriverà il 1/2/2003 (cioè il primo febbraio duemilatré). Infatti, come specifica Serianni, "Per i giorni del mese si usa l'ordinale per il giorno iniziale [...], ma il cardinale per i giorni successivi, siano o non siano accompagnati dal giorno del mese [...]."».



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venerdì 11 marzo 2022

Il cosiddetto "..."

 


Si presti attenzione all'aggettivo "cosiddetto" (o "cosí detto"), perché molte persone, anche le "piú acculturate", mettono tra virgolette il sostantivo che segue: le cosiddette "firme" del giornalismo. Le virgolette sono errate perché sono "insite" nell'aggettivo stesso. Quindi: o si elimina l'aggettivo cosiddetto e si mette il sostantivo tra virgolette (le "firme" del giornalismo) o si scrive cosiddetto senza mettere tra virgolette il nome che segue (le cosiddette firme del giornalismo). Si veda qui.

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La parola proposta da questo portale: alusia. Sostantivo femminile con il quale si indica l' "astinenza dai bagni". È composto con le voci greche "a privativo" e "loyo" (lavare).



 

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giovedì 10 marzo 2022

Mettere uno sulle roste

 


Il modo di dire (il titolo) che avete appena letto significa "mettere qualcuno alla berlina". Quest'espressione, probabilmente, è poco conosciuta derivando da un vocabolo raramente usato: la rosta, appunto. Il termine, intanto, proviene dal longobardo “hrausta” (frasca) ed è una sorta di ventaglio fatto di frasche o anche di cartoncino a forma di quadrilatero che si usava all’inizio del secolo scorso. Quando veniva “azionato” metteva in evidenza figure molto spesso burlesche, o scritte satiriche, sulle due “facce”, elaborate dai letterati dell’epoca, che mettevano, cosí, alla berlina, vizi e cattive usanze. Metaforicamente, quindi, si mettono sulle roste le persone da “satireggiare” per i loro cattivi comportamenti.

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"Imperfezioni orto-sintattico-grammaticali"


Pilucchiamo qua e là, senza un preciso ordine logico, ma come ci vengono alla mente, dal linguaggio comune alcuni strafalcioni o “imperfezioni orto-sintattico-grammaticali” che gli amatori della lingua devono assolutamente evitare. Cominciamo con il verbo “tenere” adoperato, il piú delle volte, con il significato di “possedere”, “avere”. Tale uso è da non seguire essendo di carattere prettamente dialettale; il significato proprio (e “corretto”) del verbo è “sostenere”. Non si dirà, per tanto, “tengo una bella casa” ma, correttamente, 
possiedo una bella casa. Da evitare anche - se si vuole parlare e scrivere bene - la locuzione “tenere il letto” nel senso di “stare, rimanere a letto”. Questo verbo, inoltre, non è sinonimo - come molti erroneamente credono - dei verbi “reputare”, "stimare" e “giudicare”. Le espressioni comuni, quindi, “tenere in molto o poco conto”, “tenere in molta o poca considerazione” una persona sono da gettare, decisamente, alle ortiche. Sí, sappiamo benissimo che molte “grandi firme” le adoperano a ogni piè sospinto, ma sappiamo, anche, che molte grandi firme usano la lingua a loro piacimento: non rispettano assolutamente le piú elementari norme grammaticali. Voi, amici blogghisti amanti della lingua, non seguite questi esempi "deleteri". Non adoperate - come abbiamo letto in una grande firma del giornalismo, che non nominiamo per carità di patria - il verbo tenere nelle accezioni di: importare, desiderare, volere, premere. Sono tutte forme dialettali e di conseguenza orrendamente scorrette in uno scritto sorvegliato. Ancora. Il verbo “marcare”, che etimologicamente sta per  “segnare, contrassegnare con marchio”, “bollare”, non si può adoperare - sempre che si voglia parlare e scrivere correttamente - come sinonimo di  “annotare”, “prendere nota”, “registrare” o con il significato, obbrobrioso, di “rimarcare con la voce”. In quest’ultimo caso ci sono altri verbi che fanno alla bisogna: accentuare, caricare, rafforzare. E finiamo con l’aggettivo “marrone” che non va mai pluralizzato. Diremo, quindi, guanti marrone; scarpe marrone (non “marroni”) in quanto si sottintende “del colore del marrone”, cioè del frutto del castagno: due vestiti (del colore del) marrone.



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mercoledì 9 marzo 2022

I sinonimi e la tregua

 


Con il termine “sinonimia” si intende – in linguistica – una corrispondenza semantica di due o più parole, vale a dire una “somiglianza” di significato di due o più vocaboli. Alcuni, in proposito, sono convinti del fatto che “sinonimia” equivale/equivalga a “identicità”. Così non è: non esistono in lingua italiana (ma neanche nelle lingue straniere, se non cadiamo in errore) vocaboli che potremmo definire “gemelli”; c’è sempre una piccola sfumatura di significato.

Per questo motivo alcuni linguisti, prudentemente, tendono a precisare che sono chiamati “sinonimi” i nomi che hanno il medesimo significato “fondamentale”; c’è sempre, infatti, qualcosa che sfugge e rende impossibile la “perfetta” equivalenza dei significati. I linguisti, insomma, sempre per il motivo su citato, parlano di "sinonimia assoluta" e "sinonimia approssimativa". Nella sinonimia approssimativa i vocaboli sinonimi sono intercambiabili solamente in determinati contesti. Provate a sostituire, infatti, sala da ballo con camera da ballo e vedrete che il conto non torna, per usare un’espressione dell’aritmetica. Si può benissimo dire, invece – il conto torna – sala da pranzo o camera da pranzo (anche se camera in questo caso non è un termine appropriato).

Nella sinonimia assoluta i vocaboli sinonimi sono, viceversa, intercambiabili in tutti i contesti. Bisogna dire, però, che i sinonimi assoluti sono veramente molto rari. Sono assoluti, per esempio, le preposizioni 'tra' e 'fra' anche se, a voler sottilizzare, c’è una differenza a livello stilistico: al fine di evitare la successione di sillabe uguali si preferisce dire, per esempio, tra fratelli piuttosto che fra fratelli

Vediamo, per cercare di essere ancora piú chiari, alcuni esempi di sinonimi spallati (sic!), secondo il parere di chi scrive. In parentesi i sinonimi "appropriati": nell'impeto (nella foga) del discorso il conferenziere ha usato termini un po' offensivi; in occasione della nascita degli eredi, i regnanti sono soliti compiere atti di grande benignità (clemenza); il nipote di Giovanni frequenta il secondo corso (la seconda classe) dell'istituto tecnico; Luigi rammenta (ricorda) sempre, con immenso rimpianto, i nonni paterni e materni; abbiamo scritto per errore (sbaglio) una parola invece di un'altra.

I lettori desiderosi di approfondire l'argomento potranno consultare un buon vocabolario per vedere la "differenza semantica" che intercorre, per esempio, tra 'sbaglio' e 'errore' o tra 'impeto' e 'foga'.

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 La lingua "biforcuta" della stampa

 Guerra in Ucraina, la Russia sospende la vendita di valuta estera fino al 9 settembre. Dalla Polonia jet agli Usa. Da domani mattina nuova tregua temporanea

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La tregua, come si può leggere nei comuni vocabolari della lingua italiana, è di per sé 'temporanea'. Qui, qui, qui e qui. Quanto a "nuova", siamo un po' perplessi. C'è una tregua "vecchia"? Diremmo: domani un'altra tregua.



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lunedì 7 marzo 2022

Sgroi - 124 - Regole (fonologiche e prosodiche) e norme (etimologiche) della pronuncia di Ucraina


 di Salvatore Claudio Sgroi

 

 1. L'evento mediatico

Una delle conseguenze dell'invasione della Ucraina da parte della Russia di Putin è la estrema frequenza d'uso nei mass media orali e cartacei del toponimo Ucraina e dell'aggettivo/sostantivo ucraino/i, pronunciati ora quadrisillabi con iato /a-ì/ (Ucraìna, ucraìno/i) ora trisillabi con dittongo discendente /àj/ (Ucràino, ucràino/i).

 

2. L'angoscia della variabilità

La (normale) variabilità della lingua, nel caso specifico della pronuncia di un termine, è però motivo di "angoscia" per il comune parlante che reagisce chiedendo quale sia la pronuncia "corretta".

 

2.1. Le indicazioni normative della lessicografia

La consultazione dei comuni dizionari, Zingarelli (2021), Devoto-Oli-Serianni-Trifone (2021), Garzanti (2020), De Mauro (2000), Sabatini-Coletti (2007) rivela indicazioni normative differenziate.

Il De Mauro (2000) indica entrambe corrette le due pronunce, nell'ordine prima quella quadrisillabica e poi quella trisillabica: /u·cra·ì·no, u·crài·no/, rispetto all'etimo diacronico, quella russa essendo trisillabica: "dal russo ukrájnej, der. di Ukrájna propr. 'regione di confine', it. Ucraina, nome di uno stato dell'Europa orientale, dalla loc. u kráj 'al margine' ".

Il Garzanti (2020) non fornisce alcun etimo, implicitamente ritenendo la voce neoformazione, e indica analogamente nell'ordine due pronunce: "u-cra.ì- no, o u-crài-no". La "Nota" in calce al lemma ribadisce: "Le pronunce ucraìno e ucràino sono entrambe corrette".

Il Devoto-Oli-Serianni-Trifone (2021), analogamente al Garzanti non fornisce alcun etimo, in quanto implicitamente neoformazione, con duplice pronuncia, entrambe corrette, ma nell'ordine prima la trisillabica poi la quadrisillabica: "u-crài-no o u-cra-ì-no":

Il Battaglia (vol. XXI, 2002) lemmatizza prima il trisillabo: "Ucràino e Ucraino", con un duplice etimo: "Dal russo ukrájnej (...)"; "dall'ucraino ukrajne deriverebbe l'altro esito della pronuncia".

Invece lo Zingarelli (2021) omette l'etimo implicitamente sincronico, ma indica la pronuncia quadrisillabica <ucraìno> con -- neopuristicamente -- "o, meno corretto" la variante trisillabica <ucràino>.

Naturalmente, delle due varianti "corretta" è la pronuncia quadrisillabica <ucraìna> per lo storico della lingua Geppi Patota, da lui ricordata nel corso della trasmissione "Le parole per dirlo" RAI-3 del 6 marzo. Non sappiamo invece quale sia l'indicazione nell'"inattingibile" Il nuovo Treccani (2018) condiretto con V. Della Valle.

 

2.2. Sabatini-Coletti 2007 vs Sabatini 2022 e Coletti 2022

Il Sabatini-Coletti (2007) da un lato fornisce l'etimo diacronico di ucraino agg. s., dal "russo ukrájnej, deriv. dal nome di Ukrájna 'Ucraina'", dall'altro indica come egualmente corrette la pronuncia (nell'ordine) quadrisillabica e trisillabica: "[u.cra.ì.no o ... crài...]".

Ma Francesco Sabatini nella trasmissione di RAI-Uno Mattina del 6 marzo ha cambiato giudizio normativo, indicando come "corretta" la pronuncia quadrisillabica /ucra.ìna/ in ossequio alla pronuncia etimologica dell'ucraino.

Non diversamente Vittorio Coletti, che ha così risposto il 5 marzo per la "Consulenza linguistica" dell'Accademia della Crusca al quesito sulla pronuncia corretta del termine:

"oggi sono accettabili entrambe le pronunce, anche se la più corretta, a rigore, sarebbe quella in passato spesso ritenuta sbagliata, cioè quella con l’accento sulla i".

L'A. ricorda l'oscillazione in russo e in ucraino della duplice pronuncia e l'atteggiamento neopuristico della lessicografia russa:

"oggi si dice Ucraìna, ucraìno (Ukraìna, ukraìnskij) tanto in russo quanto in ucraino".

Nel contempo evidenzia l'atteggiamento neo-puristico della lessicografia russa come appare nel "Dizionario degli accenti russi (Slovar' udarenii russkogo jazyka), che ammette come pronuncia corretta dell'aggettivo solo ukraìnskij", ovvero precisa che «l'accentazione ukràjnskij (dall'antiquato Ukràina), si incontra non solo in poesia, ma anche nella conversazione comune, [e] corrisponde alla prassi antica».

Lo stesso atteggiamento normativo è quindi esteso da Coletti all'uso in italiano:

"Ma, a rigore, dato che nell'uso moderno le lingue slave, russo incluso, accreditano ormai come unica pronuncia corretta quella accentata sulla i sarebbe meglio dire Ucraìna / ucraìno, come del resto consiglia l'autorevole DOP" (in rete).

 

2.3. Le indicazioni normative dei manuali di pronuncia

Non meno differenziate sono le indicazioni sulla norma reperibili nei dizionari di pronuncia.

Il neopurista Canepari (2000) nel DiPI ovvero Dizionario di pronuncia Italiana (Zanichelli) indica la pronuncia trisillabica Ucraina /u'kraina/, ucraino /u'kraino/ come "moderna" e "la più consigliabile", rispetto alla pronuncia quadrisillabica /ukra'ina/, /ukra'ino/ definita come "tradizionale", "la più consigliata un tempo".

Il DOP o Dizionario di ortografia e pronuncia (19691, 19812) per il toponimo Ucraina indica la duplice pronuncia "alla pari", nell'ordine quadrisillabica/trisillabica: "[ukraìna o ukràina]"; ricorda inoltre la variante "antiq. Ucrania [ukrànja]". Anche per l'etn. ucraino riporta la duplice pronuncia "alla pari": "[ukraìno o ukràino]"; aggiungendo un dato etimologico, relativo alla pronuncia russa e ucraina:" -- [quadrisillabica] conforme all'accento russo, -ài- [trisillabico] a quello ucraino".

Il DOP on line, ovvero Dizionario italiano multimediale e plurilingue d'Ortografia e di Pronunzia, cambia normativamente, in direzione neopuristica,  in conformità col criterio etimologico, il giudizio a favore della pronuncia quadrisillabica: Ucraina "[ukraìna , meglio che ukràina] [...] = russo Ukraina [ukraìnë]".

 

3. Regole fonologiche della pronuncia di <Ucraina>

La identificazione delle Regole fonologiche 1 e 2 alla base delle due pronunce su viste non è invero facile.

La Regola-1 alla base della pronuncia trisillabica (non etimologica) potrebbe essere quella per cui in italiano la maggior parte delle parole trisillabiche sono piane. Come ricordato da G. Marotta-L. Vanelli (Fonologia e prosodia dell'italiano, Carocci 2021), riguardo alle parole trisillabiche, "l'81% [...] sono accentate sulla penultima sillaba" (p. 187).

La [Regola-1bis] della pronuncia trisillabica documentata tra l'altro dal DOP on line "da molto tempo (in it. dal '600)", l'essere cioè "favorita forse da un qualche aspetto esotico", anche perché "diffusa anche in ted. e ingl.", non ci sembra invero molto fondata, appunto perché documentata "dal '600".

La Regola-2 alla base della pronuncia quadrisillabica Ucraìna è invece quella etimologica: russa e/o ucraina.

Quella identificata dal DOP on line [Regola-2 bis] invece con la "analogia delle parole it. in -ìna" è invero molto generica. Certamente in it. esistono parole con iato in /-aìna/, ess. co·ca·ì·na, fa·ì·na, pa·pa·ì·na. Ma occorrerebbe dire anche quante sono le parole più in generale con dittongo "/a/e/o/u+j + Cons.+-o/-a/-e/-i/-u", per es. e·quì·no, lin·guì·no, pa·squì·no, pin·guì·no. Una ricerca invero onerosa anche a partire dal lemmario di un dizionario come il De Mauro (2000).


 4. Regole morfologiche della pronuncia di Ucràina top. vs ucraìno agg., s.m.

La variazione di pronuncia di Ucraina/ucraino è ancora legata alla natura morfologica di tali lessemi, che alcuni parlanti, come abbiamo potuto accertare, oppongono: Ucràina trisillabico, toponimo versus ucraìno quadrisillabico, agg. 'dell'Ucràina'; o sost. m. etnico 'abitante dell'Ucràina'. Da cui emerge che il segmento <ìno> è percepito come suffisso che "forma aggettivi etnici o geografici, usati anche come sostantivi", ess. alpino, brindisino, fiorentino, piacentino (De Mauro 2000).


5. Regole prosodiche della pronuncia di <Ucraina>

Un ulteriore tipo di Regola per lo più trascurato nella variazione accentuale riguarda la regola prosodica della pronuncia (cfr. Marotta-Vanelli 2021, pp. 194-200), che consente di individuare due regole prosodiche alla base delle due diverse pronunce, trisillabica e quadrisillabica.

(i) Il lessema /ucra.ìna/, quadrisillabico, si confìgura come parola formata da due "piedi" trocaici, due sequenze cioè di sillaba tonica + sillaba atona: /,ucra/ + /ìna/.

(ii) Invece la variante, trisillabica, /u.cràina/ si configura come parola formata da un piede "degenerato" con accento secondario/,u./ + un piede trocaico /crài.na/.

Nelle combinazioni con altre parole, in sintagmi diversi, per es. in Ucraina, la (i) con due piedi trocaici, può trasformarsi in (i.a) /,in/ + /,ucra/ + /ìna/ variante asimmetrica con "piede degenerato /,in/ + piede trocaico (bisillabico) /,ucra/ + piede trocaico (bisillabico) /ìna/".

Uno "scontro accentuale" verrebbe invece a crearsi con la variante (i.b) "* piede degenerato /,in/ + piede giambico /u,cra/ + piede trocaico /ìna/".

A sua volta la (ii) con un piede degenerato + piede trocaico, può trasformarsi in (ii.a) /i n,u/+ /'craina/,  variante asimmetrica con "piede giambico /i,nu/ + piede trocaico  /'craina/", ma creando così uno scontro accentuale, determina (ii.b) la ritrazione del primo accento /,in u/ piede trocaico + /'craina/ piede trocaico.

Da quanto sopra, la [Regola prosodica-1], con tre piedi, è alla base della pronuncia quadrisillabica (i.a) nel sintagma (piede degenerato + piede trocaico + piede trocaico) /,in/ + /,ucra/ + /ìna/, ovvero <in U-cra-ìna>.

La [Regola prosodica-1a] è alla base della pronuncia quadrisillabica (i.b), con scontro accentuale (piede degenerato + piede giambico + piede trocaico) */,in/ + /u,cra/ + /ìna/.

La [Regola prosodica-2], con due piedi, è alla base della pronuncia trisillabica (ii.b) nel sintagma (piede trocaico + piede trocaico) /,i nu/+ /'craina/, ovvero  <in U-cràina>.

La [Regola prosodica-2a] è alla base della pronuncia trisillabica (ii.a) con scontro accentuale (piede giambico+piede trocaico) */i,nu/ + /'craina/.

I parlanti seguono liberamente una delle due Regole prosodiche, scartando in genere gli scontri accentuali. È anche possibile che alternino le due regole. Occorrerebbe però pazientemente analizzare campioni di parlato, p.e. televisivo.

 

Sommario

1. L'evento mediatico

2. L'angoscia della variabilità

2.1. Le indicazioni normative della lessicografia

2.2. Sabatini-Coletti 2007 vs Sabatini 2022 e Coletti 2022

2.3. Le indicazioni normative dei manuali di pronuncia

3. Regole fonologiche della pronuncia di <Ucraina>

4. Regole morfologiche della pronuncia di Ucràina top. vs ucraìno agg., s.m.

5. Regole prosodiche della pronuncia di <Ucraina>













  


 




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