venerdì 20 giugno 2025

Lettera aperta ai signori vocabolaristi (in difesa del lessema dimenticato, “muzzo”)

Stimati architetti della lingua  - voi che con pazienza certosina costruite la cattedrale lessicale della meravigliosa lingua italiana - vi scriviamo per segnalare una lacuna che ci sembra non più sostenibile. Tra i corridoi nobili dei vostri tomi non compare, o compare appena, una parola che vive (e colpisce) nell’ombra: muzzo.

Non è parola elegante né seducente, ma è vera, concreta, necessaria. Muzzo è il verbo fatto giudizio; è l’imperfetto senza rimorso.

“Hai fatto tutto a muzzo” , “È stato scritto a muzzo” , “Procedono a muzzo, senza un’idea.”

Espressioni che attraversano bar, cucine, messaggi vocali, marciapiedi di periferia e stanze di professori stanchi. Espressioni in cui muzzo è l’unica parola possibile.

Sotto il profilo etimologico muzzo condivide radici con mozzo, da *mutiu(m), latino che rimanda a ciò che è troncato, amputato, interrotto di netto. La parola è figlia di una mutilazione semantica: dire qualcosa “a muzzo” significa parlare senza criterio, senza cura, talvolta alla cieca. È forma breve, fonicamente tagliata come il concetto che rappresenta. Un linguaggio amputato, per azioni altrettanto smozzicate.

Eppure, muzzo non riceve la dignità (che merita) nei dizionari più diffusi. Talvolta compare nei glossari dialettali; più spesso è relegato a ‘blog’, sottobosco, oralità inascoltata. Ma possiamo ancora permetterci che il vocabolario ignori le parole vive perché non sono “standard”?

In tempi in cui l’italiano muta con la velocità di un ‘post’ virale, parole come muzzo andrebbero riconosciute, codificate, restituite alla dignità di lemma. Perché non tutte le parole devono, necessariamente, essere belle: alcune devono solo essere giuste.

Per questo vi chiediamo, con affetto e fermezza, di accogliere muzzo tra le righe della lingua ufficiale. Non per elevarlo a oracolo, ma per riconoscerne il diritto d’esistere. Perché a furia di lasciare fuori le parole scomode, rischiamo di costruire una lingua che non parla più a nessuno.

Con rispetto lessicale e spirito combattivo,

La Confraternita delle Parole Scomparse e degli Usi a Margine

(Una lega spontanea di lettori, scriventi, locutori stanchi della timidezza lessicale)


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Il potere che illumina e quello che oscura 


N
el cuore del regno di Parolasia, il potere veniva esercitato in modi opposti. Il Re Autorevole guidava i sudditi con saggezza, guadagnandosi il loro rispetto attraverso l’ascolto e la competenza. Il Signore Autoritario, invece, non governava i cittadini, ma teneva sotto il suo controllo un’ ‘élite’ di cortigiani, militari e burocrati, che obbedivano non per convinzione, ma per timore.

Molti abitanti del regno non riuscivano a cogliere la distinzione tra autorevolezza e autoritarismo. Per alcuni, il potere era solo una questione di comando e obbedienza. Tra questi c’era Adriano, un giovane studioso appassionato di linguaggio e società, che durante una riunione del consiglio si rivolse al Re Autorevole, ponendogli un interrogativo fondamentale.

Adriano: Maestà, nel regno c’è molta confusione. Alcuni credono che voi e il Signore Autoritario siate uguali, perché entrambi esercitate il potere.

Re Autorevole: Interessante riflessione, Adriano. Ma dimmi, secondo te, cosa distingue la mia guida dalla sua?

- Voi siete ascoltato perché il popolo vi stima e riconosce la vostra saggezza. Il Signore Autoritario, invece, viene temuto. Le persone obbediscono non per rispetto, ma per paura.

Esatto. Vedi, l’autorevolezza si conquista, mentre l’autoritarismo si impone. La mia guida nasce dalla fiducia che i cittadini hanno in me, non dalle punizioni o dalle minacce.

- Ho studiato l’origine dei termini. Auctoritas, in latino, indicava il prestigio e l’influenza derivanti dalla competenza e dall’esperienza. Autoritario, invece, ha assunto nel tempo una connotazione rigida, priva di dialogo e confronto.

- Perfetto. Guarda un comandante d’esercito: se i soldati lo seguono con fiducia, egli è autorevole. Se obbediscono solo perché temono la punizione, è autoritario. Lo stesso vale per un maestro: chi insegna coinvolgendo e spiegando è autorevole, mentre chi impone nozioni senza permettere domande è autoritario.

Adriano rifletté un attimo, poi disse con convinzione:

Quindi, la vera guida non è imposta, ma riconosciuta.

Il Re Autorevole annuì.

- Esattamente. Ed è per questo che nel tempo il potere dell’autoritarismo si affievolisce, mentre l’autorevolezza continua a brillare.

Da quel giorno, la distinzione divenne chiara. Il popolo iniziò a interrogarsi prima di affidarsi a qualcuno, chiedendosi: "Questa guida nasce dal rispetto o dalla paura?". E così, lentamente, il dominio del Signore Autoritario perse la sua forza, mentre l’autorevolezza del Re continuò a risplendere.

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Durante la seconda guerra mondiale il generale Dwight D. Eisenhower, comandante supremo delle forze alleate, era noto per la sua autorevolezza. Invece di impartire ordini rigidi e indiscutibili, sapeva coinvolgere i suoi ufficiali e soldati, ascoltando le loro opinioni e motivandoli con fiducia. Un episodio famoso racconta che, prima di un'importante offensiva, Eisenhower non si limitò a dare direttive, ma prese una corda e la posò sul tavolo. Disse ai suoi ufficiali: "Se tiro questa corda, mi seguirà. Se la spingo, si aggroviglierà. Ricordate: un vero comandante guida, non costringe."




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