lunedì 31 dicembre 2018

Sgroi - "Mi auspico" errato? E perché?

 di Salvatore Claudio Sgroi *

1. Ipse dixit
Chi ha ascoltato domenica scorsa, 30 dicembre, la consueta rubrica linguistica di "Uno mattina in famiglia" in RAI-1, dinanzi al quesito di un ascoltatore se l'espressione "Mi auspico" fosse corretta, ha sentito rispondere Francesco Sabatini con un "No!". Una frase come "Mi auspico che cali il prezzo" sarebbe errata. Corretta invece "Mi auguro che cali prezzo". Risposta coerente con quanto si legge ne "Il Sabatini Coletti. Dizionario della lingua Italiana" (1997-2006), dove il verbo auspiscare è registrato come verbo transitivo (e non già pronominale) col significato di "Augurarsi il verificarsi di eventi favorevoli" e i sinon. "sperare, desiderare" con gli ess. a. la riuscita dell'impresa, a. di arrivare in tempo, a. che la ricostruzione avvenga rapidamente.

2. Ma però...
Ogni ascoltatore avrà così avuto subito modo di ricevere conferma/disconferma del proprio uso. Se poi l'ascoltatore ha la curiosità di verificare in un dizionario la correttezza del pronominale auspicarsi andrà incontro a qualche sorpresa. Così il Devoto/Oli/Serianni/Trifone (almeno a partire dall'ed. 2004) non manca di registrare descrittivamente l'uso pronominale di auspicare, con due ess.:
"tr. pron. Augurarsi, sperare [con che e il cong., o con la prep. di e l'inf.] mi auspico che gli ospiti arrivino in orario; mi auspico di potere venire presto a trovarti".
Non diversamente tutta la lessicografia diretta da T. De Mauro, fin dal GRADIT ovvero "Grande dizionario italiano dell'uso" (1999-2000, 20072 in 8 voll.), e poi nello scolastico De Mauro (2000), dove la forma riflessiva auspicarsi è promossa (come tutti i verbi pronominali) a lemma autonomo ed etichettata come voce "CO[mune]" nota cioè a utenti laureati e diplomati, distinto dalla forma tr. auspicare, e senza alcuna nota di censura puristica:
"auspicàrsi v.pronom.tr. [io mi àuspico] CO augurarsi: mi a. che tu venga presto".
E così il De Mauro (2002) dei sinonimi e contrari riporta il lemma "auspicàrsi v.pronom.tr. CO[mune]" per il quale indica due "sin. FO[ndamentale] sperare AD [Alta Disponibilità] augurarsi". E in maniera circolare per il lemma "augurarsi v.pronom.tr. AD" segnala i due "sin. FO sperare CO auspicarsi". E il De Mauro compatto (2004) ("versione ridotta" del De Mauro 2000) lemmatizza a sua volta, pur senza ess., "auspicàrsi v.pronom.tr. [io mi àuspico] CO augurarsi". Nell'Etimologico di De Mauro/Mancini (2000) auspicarsi appare ancora come "der.[ivato]" sotto il lemma auspicare.

3. Gli indifferenti e i detrattori
La dizionaristica novecentesca italiana è per contro in genere lacunosa al riguardo ignorando tale uso. E così ancora il Treccani-Simone (2009) e lo Zingarelli (2019).
La tradizione puristica sembra invece inaugurata dal Garzanti-Patota (2004) per il quale auspicarsi  è "improprio". Nell'ed. Garzanti/Patota (2005 e 2010) l'"improprio" viene così argomentato: "infatti auspicare ha già il significato di 'augurarsi' e quindi non ha bisogno di essere completato da si". Un'argomentazione, questa, che fa un pò pensare a quella avanzata in passato per censurare il pron. suicidarsi rispetto all'auto-sufficiente sui-cidare.
Per il Gabrielli/Hoepli (2008) "nessuna giustificazione" ha auspicarsi, "che nasce evidentemente dalla confusione con augurarsi: bene, quindi, mi auguro d'incontrarlo, scorretto mi auspico di incontrarlo".
A. Gabrielli (2009) in Si dice o non si dice?, nuova ed. a cura di P. Pivetti, si pone la domanda di un ipotetico parlante: "È sbagliato dire auspicarsi, come quando si sente dire: Io mi auspico che tutto vada bene? (p. 35). Per rispondere in maniera perentoria, senza tentennamenti: "È decisamente sbagliato. (...). Quella forma pronominale auspicarsi deriva dall'influenza di augurarsi: Mi auguro che tutto vada bene. Questo è corretto" (pp. 35-36).
Per A. Colombo (in 'A me mi', 2011) mi auspico, ci auspichiamo sono un "errore" che "accade sempre più spesso di sentir dire o leggere, anche da parte di persone colte"; "una innovazione in corso non prevista dai dizionari" (p. 62).
Naturalmente anche Della Valle – Patota (in Ciliegie o Ciliege 2012) riprendono la censura morfo-lessicale: "auspicare o auspicarsi? auspicare" (p. 18).

4. La storia si ripete
L'ostracismo dato a auspicarsi richiama l'analoga condanna ottocentesca inflitta ad augurarsi.
Nel Repertorio per la lingua italiana di voci non buone o male adoperate di Leopoldo Rodinò (1858) si legge: "AUGURARSI mal si adopera per – Sperare, promettersi – Es. Mi auguro [spero] di vedervi domani in tribunale".
Nel Lessico dell'infima e corrotta italianità, P. Fanfani – C. Arlia (18771, 19075) rincarando la dose dichiarano: "In questi tempi di paroloni e di frasi altosonanti, anche Augurarsi fa le spese della nuova lingua. Onde di qua senti, v. g. Mi auguro l'occasione di poterla servire; di là leggi: Mi auguro l'onore di una sua lettera, e così va dicendo. Vacuità, vacuità, e nient'altro che vacuità e spropositato modo" (p. 53).

5. Perché auspicare tr. è diventato pron. auspicarsi
La motivazione del cambiamento (da non confondere con la motivazione del giudizio di correttezza/erroneità) è dovuta, come peraltro chiaramente indicato dallo stesso Sabatini, a una estensione semantica di auspicare sul modello di augurarsi. Per Gabrielli invece "confusione" e "influenza".
Tale evoluzione documenta peraltro il passaggio di auspicare da I) verbo intr. monovalente come Termine Specialistico [1611] :"TS stor. in Roma antica, esercitare l'ufficio di auspice, trarre gli auspici" a II)  auspicare v. tr. trivalente [1863] "v.tr. CO augurare, caldeggiare: il ministro auspicò il ristabilimento delle trattative; desiderare", e quindi a III) v. pron. auspicarsi trivalente [1928] 'augurarsi'.

6. Auspicarsi nell'uso dei parlanti
A voler documentare l'uso dei parlanti, nel "Sole 24 Ore" (1983-2008 e 2009) ci sono due ess.:
(i) R. Casati: "Quando pubblico un testo specialistico di ricerca sul mio sito web, mi auspico un accesso non ristretto, anzi il più largo possibile, e gratuito" (16.4.2000).
(ii) in una lettera del 6.9.2009 della giornalista Cristina Battocletti: "Gentile signora Moceri, (...) tutti ci auspichiamo in questo campo solo un progresso per il benessere della mamma e del bambino".
Sulla scorta di Google libri è possibile riscontrare alcuni ess., tra cui:
1928: "così oggi io mi auspico che da queste modeste, ma sentite parole ... (Il Risorgimento italiano rivista storica 1928, p. 562).
1939: "Per la formazione di un tale giudice contribuiscono quindi tanti fattori anche complessi per cui io mi auspicherei che la cosa fosse presa seriamente a cuore da parte dell'ENCI (...)" (Rassegna cinofila. Organo ufficiale dell'Ente nazionale della cinofilia italiana, p. 236).
Ministero per Costituente 1946: "Io mi auspicavo sempre, quando c'era la milizia forestale, che venissero fatti dei corsi d'istruzione, e che la parte giovane degli agricoltori, fosse portata allo studio di questi problemi" (Rapporto della Commissione Economica, Istituto Poligrafico dello Stato, p. 231).
1951 Cultura neolatina: "un secondo volume, che ci si auspica non lontano" (vol. 11-12, p. 174).
1955 Relazioni internazionali: "Ci si auspica pertanto l'avvento di una politica economica più limitata" (vol. 19, p. I, p. 123).
1955 L'universo: "Nè ad alcuno sfugge l' importanza di tali problemi, la cui risoluzione ci si auspica avvenga presto e nel modo più soddisfacente per Europei ed Africani" (vol. 35, p. 484).
1960 Orpheus. Rivista di umanità classica e cristiana: "nella Pace ci si auspica che questi contadini (...) con la pace possano e vogliano ritornare in campagna" (voll. 7-9, p. 43).

7. Perché infine auspicarsi non è errato
Concludendo, a nostro giudizio, tale uso è del tutto corretto sia perché a) non compromette la comprensione di un testo, sia perché b) riscontrato presso italofoni e italografi colti (cfr. Colombo 2011), compresi i lessicografi che lo codificano (De Mauro, De Mauro-Mancini, Devoto-Oli-Serianni-Trifone), in giornali colti ("Sole 24 Ore"), riviste specialistiche, e quindi non privilegio di parlanti italiano popolare.
Auspicarsi risulta alla fine, secondo la classificazione demauriana, di uso "COmune" rispetto ad Augurarsi di "Alta Disponibilità", che fa parte cioè delle 7000 parole del "vocabolario di base" della lingua italiana.

* Docente di linguistica generale presso l'Università di Catania 




venerdì 28 dicembre 2018

Una porzione di pasta sciocca


– Il signore ordina? – Una porzione di pasta sciocca. Spiacente – risponde l’imbarazzatissimo cameriere, che non aveva capito la richiesta – questo è un locale alla buona, a conduzione familiare; non abbiamo piatti ricercati.
– Ma questo non è un piatto ricercato – ribatté con un moto di stizza l’avventore – è un normalissimo piatto di pasta senza sale e senza sugo.
Sì, proprio così. Sciocco, particolarmente adoperato in Toscana e da alcuni vocabolari registrato come toscanismo, appunto, si può classificare tra le parole così dette idiote; quelle parole, cioè, che spurgate della loro volgarità entrano a pieno titolo, e quindi in forma corretta, nel patrimonio idiomatico nazionale.
L’origine, come il solito, è... latina: ex succum, alla lettera senza sugo (quindi senza sale, insipido). In senso figurato, quindi, uno sciocco è una persona priva di accortezza, di buon senso, di acume, d’intelligenza; insomma una persona senza sale in zucca.
Sciocco ci richiama alla mente un barbarismo orrendo (registrato, naturalmente, anche da alcuni vocabolari): il verbo scioccare (o, ancora peggio, chokkare) che con l’aggettivo sciocco non ha nulla che vedere.
È, infatti, l’adattamento del verbo francese choquer nel significato di colpire, ferire, urtare, turbare, impressionare, derivato, a sua volta, dall’olandese schokken.
Costa molta fatica dire o scrivere, per esempio: quella persona è rimasta turbata dalle sue parole? Perché dobbiamo adoperare scioccare quando – come abbiamo visto – la nostra lingua offre una vastissima scelta di verbi che fanno alla bisogna? Forse l’uso dei barbarismi rende la nostra prosa più scorrevole? Non crediamo proprio.
Anzi... Il  barbarismo – sostiene il grande maestro Tommaseo – «è usare senza necessità voci straniere, mutare la forma grammaticale e analogica delle voci, pronunciare o scrivere spropositato».
Di là da ogni dissertazione, comunque, è meglio leggere scioccare che restare... scioccati davanti a shochàre, come malauguratamente ci è capitato di vedere in un titolo di un giornale che fa opinione.


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Due parole, due, sul verbo sfondare, che può essere transitivo e intransitivo. È transitivo nel significato proprio, cioè rompere, fare breccia: i bersaglieri sfondarono  le mura di Porta Pia.  È intransitivo, e prende l'ausiliare avere,  nell'accezione figurata di riuscire in un'impresa: Giuseppe, finalmente, ha sfondato nel suo lavoro. Prenderà l'ausiliare essere quando sta per sprofondare: il marciapiede gli  è sfondato sotto i piedi.


giovedì 27 dicembre 2018

"Secondo il" e "a seconda di"


Da "domande e risposte" del sito Treccani

DOMANDA
Con la mia socia dissentiamo spesso su questo tema: lei sostiene che sia giusto dire “vi aspettiamo A Sale&Balocchi” mentre io ritengo sia meglio usare la preposizione DA, quindi “vi aspettiamo DA Sale&Balocchi”. Potete fornirmi una risposta certa, per favore?

RISPOSTA
Nella nostra lingua non vi è una regola che stabilisca la distribuzione delle preposizioni locative a secondo delle funzioni esercitate (espressione dello stato in luogo, del moto a luogo, ecc.). Ci sono pertanto oscillazioni e possibilità differenti: vado da Ikea/all'Ikea/a Ikea si equivalgono oggi nella carta stampata, così come in rete. Analizzando la frequenza d'uso, si può ricavare una preferenza per la tipologia con la preposizione articolata quando viene impiegato a: vado al Sale&Balocchi (se ci si riferisce a sale s. m.) o vado alle Sale&Balocchi (se sale è il plurale di sala s. f.). Con da si userà di preferenza la preposizione semplice: vado da ecc.
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Forse sarebbe il caso che gli esperti apportassero una piccola correzione alla risposta - per "non  indurre in errore" i lettori poco avvezzi ai fatti di lingua - là dove si legge "a secondo delle funzioni". La forma corretta è: "secondo le funzioni" [oppure "a seconda delle funzioni". Quest'ultima locuzione (a seconda), però, è preferibile adoperarla nel senso di "secondo i desiderata": a Giulio tutto va a seconda].

martedì 25 dicembre 2018

Auguri





Auguri di un sereno Natale a tutte le amiche e a tutti gli amici che seguono queste modeste noterelle sulla lingua italiana

lunedì 24 dicembre 2018

La "ristrutturazione" delle cartelle esattoriali


Da un "autorevole" quotidiano in rete

Agevolazioni per ristrutturare casa e cartelle esattoriali
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Chiediamo un chiarimento a chi ne sa piú di noi: si possono ristrutturare le cartelle esattoriali?

sabato 22 dicembre 2018

La "lingua" della stampa


Da un giornale (che "fa opinione") in rete

La par condicio. Avviso a Rai, Mediaset, Sky e La7: "Salvini e Di Maio trattati come capi partito più che ministri"
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A nostro modestissimo avviso il titolo in questione prende a calci la lingua di Dante in quanto la forma corretta dovrebbe essere: trattati piú come capi partito che come ministri, oppure, e forse meglio, …  piú da capi partito che da ministri.

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Scuola
Presidi non potranno più spostare i docenti. Firmato da Miur e sindacati il "contratto mobilità"
Per ogni insegnante 15 scelte a disposizione (tra scuole e città) e dovrà fermarsi per tre anni nell'istituto ottenuto
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A nostro modo di vedere: "Ogni insegnante avrà" (altrimenti non concorda con “dovrà fermarsi”, mancando il soggetto che non può essere “per ogni insegnante”)


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Le associazioni di categoria contestano lo stop ai diesel euro 4 che penalizza mobilità e acquisti
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Anche qui, se non cadiamo in errore, abbiamo uno strafalcione. Il pronome "che" si deve riferire all'antecedente. Quindi: contestano lo stop - ai diesel euro 4 - che penalizza mobilità e acquisti. (L'antecedente è, correttamente, lo stop; ai diesel euro 4 è un inciso).

Oppure, forse piú "elegante": ...contestano lo stop, che penalizza mobilità e acquisti, ai diesel euro 4.

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Come imparare una lingua studiando 15 minuti al giorno

È possibile? Qui.


mercoledì 19 dicembre 2018

Sgroi - Un'abbuffata di neologismi treccaniani

di Salvatore Claudio Sgroi *

1. Quante siano le parole dell'italiano è una domanda a cui non solo in pratica ma anche in teoria è impossibile dare una risposta. Le parole di una lingua sono infatti infinite, o transfinite, infiniti essendo i bisogni espressivi e comunicativi di una comunità di parlanti. Tutt'al più è possibile dire quante parole ci siano in un dizionario, come fa per es. lo Zingarelli 2019 che dichiara di registrare "145mila voci", con ciò caratterizzandosi come il più ampio dizionario tra i mono-volumi. Ma non è difficile anche in questo caso evidenziare lacune di questo o quel termine, di questo o quel significato.

2. Dinanzi a tale limite invalicabile, è ora disponibile per soddisfare le pulsioni del lettore affetto da "neologismo-mania" il dizionario di 3.505 "Neologismi. Parole Nuove dai giornali 2008-2018" direttori scientifici Giovanni Adamo - Valeria Della Valle, edito dall'Istituto della Enciclopedia Italiana (pp. xlviii-869, in 8°, su due colonne). Due noti studiosi "recidivi" con vari trascorsi di "neologite" (Olschki 2003, Sperling & Kupfer 2005, Treccani 2008).
Le 3505 parole, apparse (prevalentemente) nella prima decade del 2000, sono state identificate in quanto (potenzialmente) assenti nella vocabolaristica, e datate nella loro prima apparizione (anche ante 2000), col nome (quando possibile) del loro glottoplaste.
Il lemmario è costituito da 2.617 lessemi singoli e 888 espressioni composte, si puntualizza (p. xi). Delle 3505 entrate un "preoccupante" (p. xiv) per gli AA. 20,11% sono forestierismi, e un 5,82% calchi lessicali. Il 26% dei 3.505 lemmi sono quindi "doni stranieri", spesso internazionalismi (per es. il calco nativo digitale 2008 dall'ingl. digital native coniato da M. Prensky), con qualche regionalismo (paciata  'pacificazione' 2011).
 Ogni neologismo, occasionalismo o meno, è documentato con due-tre citazioni, a volte una (es. neocrusc 'nuovo purista intransigente' A. De Benedetti 2009). Gli esempi hanno un taglio non strettamente lessicografico ma marcatamente enciclopedico. Il che ha il vantaggio di rendere piacevolmente leggibile e non cursoriamente consultabile il dizionario.

3. Per soddisfare i propri bisogni lessicali una comunità di parlanti ha a disposizione due possibilità. O (i) ricorrere alle potenzialità della struttura grammaticale della propria lingua e creare (i.a) parole nuove ("neoformazioni") es. renz/itudine 2014, bergogl/ismo 2014, e (i.b) significati nuovi ("estensioni semantiche") per es. rottamatore (1988, 2012), cinguettare 'twittare' (2009), cinguettìo 'tweet' (2010).
Oppure (ii) ricorrere ai "doni stranieri" (prestiti), sia (ii.a) integrali ("esotismi") per es. Brexit 2013, Russiagate 1999, stepchild adoption 2013, indignados 2011, sia (ii.b) adattati ess. adultescenza 2004 (< ingl. adultescence), Watsappite (< ingl. WhatsAppitis), gli ispanismi bergogliani (non già neoformazioni italiane): inequità 2013 (< spagn. inequidad), nostalgiare la schiavitù 2014 (< spagn. nostalgiar), giocattol/izzare 2015 (< spagn. juguetear 'giocherellare' < juguete 'giocattolo'), ovvero (ii.c) tradotti ("calchi") es. indignati 2011 (< spagn. indignados), adozione del figliastro 2016 (< ingl. stepchild adoption), il fine vita 1998, 2010 < ingl. life's end (già in Zingarelli 2009 e Garzanti 2010).

4. Se il numero delle parole e dei significati di una lingua è infinito, ogni lingua ha però una sua grammatica di formazione del lessico, tendenzialmente chiusa, possedendo la quale il parlante è in grado di capire termini nuovi, non prima incontrati. E tale grammatica è abbozzata nella "Premessa". Ogni lemma si conclude così con la esplicitazione della regola alla base della sua formazione, ovvero etimo sincronico (prefissati, suffissati (es. misericord/ina), parasintetici (ess. s/vacanz/are 'passare le vacanze', s/valvol/are 'uscire di testa', s/vap/are 'fumare una sigaretta elettronica'), composti, quali bergogliolatria, papalatria/papolatria, pseudo-anglicismi es. Papa-day, blends, conversione (ess. esodando s.m., esodato agg., s.m. da esodare v. da esodo), sigle, acronimi, abbreviazioni, ecc.) ed etimo diacronico (anglicismi ess. Wags acronimo ingl.; Wikileaks; writing 'graffitismo'; ispanismi es. chino s.m. 'pantalone alla cinese', futsal 'calcio a cinque' (ispanismo o lusismo), ecc.).
Per dare solo un'idea della grammatica della formazione delle parole in italiano, a partire dall'esempio Renzi è possibile ricostruire un paradigma di non meno di 41 neologismi, derivati a ventaglio e a catena, raggruppabili nei seguenti processi:
Tre blends o parole macedonia: Ren[zi X e]xit, Renz[i X Berl]usconi, Renzi[ X eco]nomics.
18 composti, spesso con confissi: filo/renzismo, Renzi-boy, Renzi-girl, Renzileaks, renzi/mania, Renzi-pensiero, renzi centrismo, renzi/centrico; filo/renziano, neo/renziano, proto/renziano, turbo/renziano; anti-renzi, anti/renzismo, anti/renzista, post-renziano, post-renzismo, pre-renziano, (ma anche suffissati: antirenz/ismo, antirenz/ista, post-renz/iano, post-renz/ismo, pre-renz/iano).
16 suffissati: renz-ata, -eggiare, -ese, -iano (da cui a ventaglio renzian/ità e renzian/izzare, da quest'ultimo a ventaglio i deverbali renzianizza/tore e renzianizza/zione); e ancora: renz/ino s.m. (e agg.), renz/ina s.f. (da lemmatizzare), -ismo, -ista, -ite, -itudine, -izzare (da cui a ventaglio il part. pass. e per conversione agg. renzizzato e il suffissato renzizza/zione).
Due prefissati: de-renzizzare (da cui il part. pass. e per conversione agg. derenzizzato, e il suffissato derenzizza/zione); e ultra/renziano.
Due agg. per conversione dal part. pass. i citati derenzizzato, renzizzato.

5. Oltre l'elenco alfabetico delle 3.505 voci (pp. xxiii-xli) e la ricca bibliografia (pp. xv-xx), ma manca l'elenco dei quotidiani spogliati, prezioso è l'elenco degli "Elementi formanti" (pp. 777-824), ovvero prefissi (per es. s-, de-, iper-, ultra-, ecc.), suffissi (per es. -(a)bile, -(i)ale, -ese, -tore, -zione, ecc.), confissi (per es. anti-, -cidio, dopo-, e- < ingl. e-(lectrocnic), -poli, post-, pro-, ecc.), e i singoli costituenti delle 3.505 entrate. Senza dimenticare l'elenco dei nomi citati (pp. 825-69), da cui il lettore può individuare i nomi più citati e più produttivi lessicograficamente, per es. Berlusconi, Grillo, Renzi, Grasso, ecc.

 * Docente di linguistica generale presso l'Università di Catania


martedì 18 dicembre 2018

Avere i pisani


Tutti, indistintamente, abbiamo i "pisani" dentro di noi, anche se non ce ne rendiamo conto. State tranquilli, non stiamo vaneggiando, vogliamo soltanto dire che "avere i pisani" significa aver sonno. Questa locuzione - forse poco conosciuta - si adopera, soprattutto, nei confronti dei bambini allorché cominciano a sbadigliare, a chiudere gli occhi; insomma quando danno chiari segni di stanchezza e desiderano, quindi, andare a dormire. La locuzione deriva, con molta probabilità, da un gioco di parole - anche se secondo il poeta Giuseppe Giusti si rifarebbe alla "pesantezza dell'aria pisana" -  come "pisolare", "appisolarsi", "pisolino"... "pisani". È lo stesso gioco di parole, insomma, che si ha con altre espressioni come, per esempio, "andare a Piacenza" per "compiacersi" o "mangiare l'allodola" per "ricevere una lode".

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Didentro e di dentro - Avverbio e sostantivo. In funzione di sostantivo, cioè per indicare la parte interna di un qualsivoglia oggetto, è preferibile la grafia univerbata: Giuseppe ha ripulito il didentro della botte.

Disopra e di sopra - Avverbio di luogo. Entrambe le grafie sono corrette, anche se quella analitica (due parole) è maggiormente adoperata. La grafia univerbata è da preferire quando l'avverbio è adoperato in funzione di sostantivo maschile per designare la parte superiore (di qualcosa): prendere il disopra, prendere, cioè, il sopravvento.

domenica 16 dicembre 2018

Il regalo (di Natale)


Con l'avvicinarsi delle festività natalizie la gente è in preda all' «incubo regalo». Tutti si affannano alla ricerca di un dono per i familiari e per gli amici. Ma che cosa è questo regalo sotto il profilo esclusivamente linguistico? Vediamolo assieme. Anche in questo caso (come quasi sempre, del resto) dobbiamo chiamare in causa il padre della nostra lingua: il nobile latino. Per spiegarci, però, è necessario prendere il discorso un po’ alla lontana. I Latini, nostri progenitori, avevano un verbo, regere, passato in italiano tale e quale se si eccettua l’aggiunta di una "g". Questo verbo aveva un’infinità di significati: governare, guidare, reggere, condurre, dirigere. Il sostantivo re, infatti non è altro che un deverbale, vale a dire un nome derivato dal verbo in questione, precisamente è l’accusativo "re(gem)", tratto, per l’appunto, da regere. Il re, quindi, è colui che regge le sorti di una Nazione, di uno Stato. Da re sono stati formati gli aggettivi regio e regale. Da quest’ultimo, attraverso la lingua dei nostri cugini spagnoli, ci sono giunti i termini regalo e regalare. Il regalo, propriamente, è un dono al re, mentre lo spagnolo regalar – sempre propriamente – significa rendere omaggio al re. Attraverso i secoli il regalo ha perso il significato originario di dono al re assumendo l’accezione generica di dono, omaggio, regalo e simili; mentre il verbo regalare il significato, sempre generico, di offerta che si ritiene utile e gradita. Qui altre "informazioni" sul regalo.

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La parola proposta da questo portale: núgale. Aggettivo che sta per "frivolo", "di poco conto", "sciocco" e simili. L'etimologia è incerta. Sembra provenga dal latino nugae, 'cose di nessuna importanza'. I vocabolari dell'uso tacciono...

venerdì 14 dicembre 2018

Lo "stranierese"


Riproponiamo un nostro vecchio intervento sull'uso dello stranierese di cui sono infarciti i giornali; uso che, spesso e volentieri, fa fare delle figure "caprine" agli autori degli articoli.

Scartabellando tra le nostre cose ci è capitato sotto gli occhi il Giornale di qualche anno fa in cui un titolo ha richiamato la nostra attenzione: «Scrivete straniero e sarete puniti».
L’articolista era Luciano Satta che in quel quotidiano era il titolare di un’interessantissima rubrica di lingua: «Non usate parole straniere perché le sbagliate o ve le sbagliano» (si riferiva, forse, alla scomparsa figura del correttore di bozze? NdR). «E quando le sbagliate la brutta figura è tutta vostra». Seguiva un elenco di vari incidenti nei quali sono incorsi, ultimamente, scrittori e giornalisti di grido: errori di traduzioni, lettere saltate, accenti errati e arbitrii sintattico-grammaticali. Mai parole furono più sante e attuali.
Oggi, con la rivoluzione tecnologica avvenuta nei giornali (ma non solo), i pezzi non vengono più composti (scritti) dai tipografi e inviati in correzione al vaglio di personale altamente qualificato (correttore di bozze); oggi gli articoli vengono composti al videoterminale dai giornalisti che sono gli unici responsabili degli eventuali strafalcioni; prima, con la composizione a piombo, l’ignoranza grammaticale del redattore era imputata all’ignoranza del correttore di bozze. Il progresso tecnologico sta mettendo a nudo molte verità nascoste. Ma torniamo ai barbarismi di cui trabocca la carta stampata e no.
Personalmente, e a costo di sembrare codini (reazionari), siamo per un reciso no alle parole straniere, non tanto per la brutta figura (di cui si preoccupa, bontà sua Luciano Satta), quanto e soprattutto perché il barbarismo che imperversa sulla stampa ha fatto dimenticare agli articolisti (e ai lettori, loro malgrado) il buon uso della lingua madre.
Una riprova lampante di quanto affermiamo è un titolo di un quotidiano locale (che non menzioniamo per carità di patria): «Tra pentiti e non». Quel non, maledettamente errato, balza evidente agli occhi del lettore accorto.
Gli avverbi di negazione no e non hanno usi nettamente distinti. Il primo (no) appartiene alla schiera delle così dette parole olofrastiche, dal greco " hòlos", (intero) e  "phrazo", (dichiaro), che, riassumendo in sé un’intera frase, debbono essere sempre isolate e in posizione accentata (non debbono essere seguite, cioè, da un’altra parola): vieni o no? È evidente, da questo esempio, il fatto che il no è olofrastico, sottintende e riassume o non vieni.
Il secondo avverbio (non) non si può trovare mai in posizione accentata (cioè da solo), si usa sempre come proclitico, vale a dire unito a una parola che necessariamente lo deve seguire: vieni o non vieni? Il titolo incriminato, per tanto, avrebbe dovuto recitare - in forma corretta - 
«Tra pentiti e no».
Moltissime penne sono convinte del fatto che l’uso di termini stranieri dia un tono ai loro scritti e li adoperano indiscriminatamente (a volte senza conoscerne il significato); assistiamo, così, a spettacoli linguistici orrendi. Tanto per cominciare, gentili amici, lo stranierese resta sempre singolare.
Abbiamo letto, in una cronaca sportiva, che 
«la squadra azzurra aveva molte chanches». Satta ha ragione da vendere, questo titolo è doppiamente errato: la grafia e la forma plurale del vocabolo barbaro. I critici cinematografici e televisivi amano scrivere ciack o ciak in luogo della forma corretta italiana ciac. Gli economisti scrivono crack per indicare un fallimento, un crollo bancario, invece dell’italianissimo crac.
Questi ultimi sbagliano doppiamente volendo adoperare un termine straniero al posto di quello italiano che fa tanto... volgare. La voce, infatti, non è inglese - come comunemente si crede - ma tedesca: Krach. Se non si vuole adoperare l’italiano crac si usi, almeno, il termine straniero corretto che è Krach, appunto. Questa voce si è diffusa in tutte le lingue europee - quindi anche in quella inglese - in seguito al crollo bancario avvenuto a Vienna il 9 maggio 1873.
Potremmo continuare ancora, ma non vogliamo tediarvi oltre misura.





giovedì 13 dicembre 2018

"Ripristinare" il correttore di bozze


Con l'avvento delle nuove tecnologie gli editori dei giornali hanno deciso di non avvalersi piú - anche per limitare i costi - di quel  losco figuro che, con certosina pazienza,  andava a caccia dei refusi (errori di battitura) e contemporaneamente "raddrizzava" - secondo le norme orto-sintattico-grammaticali - gli articoli degli operatori dell'informazione: il correttore di bozze. Questa figura professionale era invisa sia ai giornalisti, alle cosí dette grandi firme, in primis, sia ai poligrafici. Gli uni perché vedevano che i loro scritti erano sottoposti al vaglio di un "essere inferiore" che si permetteva di  correggere quanto scrivevano, gli altri perché erano costretti a "ribattere" (riscrivere) gli articoli corretti. Questa figura, dunque, non c'è piú: gli strafalcioni che si vedono sui giornali cartacei (e su quelli in rete), un tempo imputabili all'ignoranza e alla svista del revisore, sono, oggi, esclusivamente opera dell'estensore dell'articolo. Oggi, insomma, leggere un giornale (cartaceo o in rete) è estremamente faticoso: virgole sparse qua e là come fossero del sale, orrori ortografici, concordanze sballate, periodi sospesi (che non finiscono), date errate, uomini che diventano donne e viceversa, personaggi storici collocati in epoche diverse, capoluoghi di regione errati, fiumi che diventano mari e viceversa, potremmo continuare...  Alcuni esempi tratti da giornali in rete:

Un 49enne residente a Torgiano è stato arrestato per rapina, resistenza e minaccia a pubblico ufficiale e denunciato per atti persecuoti, lesioni e possesso ingiustificato di arma ..

Terremotati al gelo: è Cascia risulta infatti la città più fredda dell'Umbria con il termometro che è sceso, la notte tra martedì e mercoledì, a -11,4 gradi secondo quanto 

Risarcita per le offese social
l'assessore devolve tutta
la somma in beneficenza

"Ha offerto anche l'amica. E agli incontri col pm...". Avvocatessa sexy, i dettagli scabrosi emersi in aula

Tenta di rubare
un'auto accesa
Preso e arrestato

L'uomo, un 47enne, era stato arrestato nei mesi scorsi nell'ambito di un’operazione antidroga contro un un gruppo che aveva collegamenti con un clan mafioso

L’AVVISO
Richiamate dal mercato cozze contaminate dal vibrione del colera


Regione Sicilia, approvate le variazioni di Bilancio. Il presidente dell'Ars: "Salvi

Forse sarebbe il caso che gli editori... 

martedì 11 dicembre 2018

Tranquillezza? Sí, tranquillezza


Un interessantissi-mo articolo di Vittorio Coletti - pubblicato sul sito dell'Accademia della Crusca - sulla correttezza del termine tranquillezza.

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A proposito di "tranquillezza", forse non tutti sanno che "tranquillare" sarebbe da preferire al piú comune "tranquillizzare". È, infatti, pari pari il latino tranquillare. Tranquillizzare ricalca il francese tranquilliser. Il "tranquillante" che cosa è se non il participio presente sostantivato di tranquillare? Qualcuno dice: "Dammi un tranquillizzante"?

lunedì 10 dicembre 2018

I capiredattori, i caporedattori, i redattori capo, i redattori capi. Quale plurale corretto?

Ancora un vocabolo il cui plurale  fa accapigliare linguisti e lessicografi: caporedattore. I vocabolari si contraddicono: caporedattori, capiredattori, redattori-capi, redattori-capo. Insomma: chi pluralizza il primo termine, chi il secondo, chi tutt'e due. Colui che consulta i vocabolari non sa, quindi, che pesci prendere. Come comportarsi, dunque? Noi consigliamo di attenersi a quanto scrive il linguista Aldo Gabrielli circa la formazione del plurale dei nomi composti con "capo". 
      «Nomi composti con capo più un sostantivo. Li dividiamo in due categtorie, a seconda della funzione che ha la componente capo.
·         Prima categoria: capostazione. Qui capo ha funzione di soggetto (e di "comandante", di colui che è "a capo di...", ndr).
·         Seconda categoria: capocronista. Qui capo ha funzione di semplice attributo (con l'accezione di "primo", "principale", ndr).
·         Per capirlo, proviamo a ribaltare la parola. Ecco: capostazione non può diventare stazione-capo, mentre capocronista può diventare cronista-capo.
·         Noi daremo la forma plurale solo all’elemento principale del composto: nel primo caso a capo: i capistazione (i "comandanti" della stazione, ndr), nel secondo a cronista: i capocronisti. Qualche altro esempio della prima categoria: capoclasse, il capo della classe, caporeparto, il capo del reparto, e ancora capoturnocaposquadracapotrenocaposerviziocapofamigliacapodivisionecapofilaca-popostocaposezione. Il primo elemento è preminente, e lo metteremo al plurale: capiclassecapirepartocapiturnocapisquadracapitrenocapiserviziocapifamigliacapidivisionecapifi-lacapipostocapisezione. Se il nome è al femminile, la componente capo rimarrà invariata: le capostazionele capoclassele caporepartole capoturnole caposquadrale capotreno eccetera.
·         Passiamo ora ad esempi della seconda categoria: capomacchinista: potremmo benissimo dire macchinista-capo. E così capotecnicocaporedattorecapocomicocapocuoco: qui è preminente il secondo elemento, e sarà questo solo che faremo plurale: capomacchinisticapotecnicicaporedattoricapocomicicapocuochi. Seguono questa regola anche capoluogo (luogo "principale", ndr)capolavorocapoversocapodanno che al plurale diventano capoluoghicapolavoricapoversicapodanni. Se il nome è al femminile, se ne farà regolarmente il plurale femminile: la capotecnicale capotecnichela capocomicale capocomichela capocuocale capocuochela capomastrale capomastrela capocronistale capocronistela caporedattricele caporedattrici eccetera»

Se capo segue il sostantivo resterà invaiato sia per il maschile sia per il femminile: redattore capo / redattori capo; redattrice capo / redattrici capo

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La parola proposta da questo portale: frenologia. Sostantivo femminile composto con le voci greche "phrèn" (mente) e "lògos" (discorso). Dal De Mauro:« teoria, affermatasi nel XIX sec., secondo la quale le varie facoltà psichiche sono localizzate in determinate zone dell’encefalo, il cui sviluppo si può dedurre dalla forma esterna del cranio»