martedì 31 dicembre 2019

La riffa...


In occasione della fine dell'anno riproponiamo un nostro vecchio intervento sull'«origine linguistica» della riffa.


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La lingua "biforcuta" della stampa

Da un "autorevole" quotidiano in rete:

Cosenza, il prefetto Paola Galeone indagata per concussione: mazzetta da 700 euro

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Correttamente: la prefetta. "Sapere.it" (De Agostini): Il femminile regolare di prefetto è prefetta, e così si può chiamare una donna che eserciti il ruolo di prefetto. Alcuni preferiscono però chiamare anche una donna prefetto, al maschile. Si tratta di una scelta che non ha basi linguistiche, ma sociologiche, e che comunque può creare, nel discorso, qualche problema per le concordanze. Infatti: il prefetto (…) 'indagata'. Si veda anche qui.

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mercoledì 25 dicembre 2019

Buone Feste

Questo portale augura un felice Natale e un sereno anno nuovo a tutti gli amatori della meravigliosa lingua italiana.

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giovedì 19 dicembre 2019

Papa Francesco e l' "influencer di Dio"


Il numero XXI - 2019 della "Rivista italiana di linguistica e di dialettologia" ospita un articolo di Salvatore Claudio Sgroi, dell'Ateneo catanese: «Papa Francesco e l' "influencer di Dio"».

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lunedì 16 dicembre 2019

Avviso





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venerdì 13 dicembre 2019

Grammatico e linguista


Riproponiamo un vecchio intervento con il quale cerchiamo di spiegare la differenza che intercorre tra il grammatico e il linguista. Accontentiamo, cosí, il cortese lettore Massimo C. di Carbonia.

  I profani, coloro che non sono addetti ai lavori - come usa dire - ritengono che grammatico sia sinonimo di linguista e viceversa. In linea generale non hanno torto, anche se - come vedremo -  c’è una piccola sfumatura nel significato dei due termini.
     I vocabolari che abbiamo consultato non aiutano a capire questa sfumatura; alle voci in oggetto recitano: «grammatico, studioso di grammatica»; «linguista, studioso di lingua (o linguistica)». Al lemma grammatica leggiamo: «l’insieme delle norme che regolano la lingua». A questo punto è più che legittimo ritenere che grammatico e linguista siano termini concatenati tra loro e, quindi, sinonimi.
     Le cose, però, non sono così semplici. Per carpire la notevole differenza tra il grammatico e il linguista occorre considerare la lingua, di volta in volta, da due punti di vista diversi. Ora da quello normativo -  «è bene scrivere così» - Paolo Bianchi e non Bianchi Paolo; ora da quello storico-comparativo, seguendo i vari mutamenti che nel corso dei secoli hanno subito alcuni gruppi di parole e cercando di spiegarne i motivi storici, appunto.
     Il primo punto, il normativo, è quello che di regola si prefiggono i grammatici e i compilatori dei vocabolari: raccomandare certe forme e certi costrutti a preferenza di altri. Ordinando il buon uso i grammatici sono - con le dovute eccezioni - molto conservatori: le parole nuove sono, in genere, snobbate e biasimate esplicitamente.
     Particolarmente rigorosi, potremmo dire morbosamente attaccati alle norme, sono stati due secoli fa i così detti puristi. La loro morbosità, il loro attaccamento alle norme, procurò a quei valentuomini l’epiteto, ora scherzoso ora dispregiativo, di linguaioli.
Il secondo punto, il comparativo, è di pertinenza esclusiva della linguistica (o glottologia, i due termini hanno press’a poco lo stesso significato). La glottologia si rifà ai metodi maturati -  due secoli or sono - nello studio scientifico delle lingue, vale a dire il metodo comparativo e la concezione storica.
     Il glottologo (o linguista), insomma, osserva un particolare fenomeno linguistico (e lo compara con altre lingue): che l’aggettivo pronominale o possessivo, per esempio, di terza persona loro è invariabile. Una volta stabilito questo dato di fatto, cerca di darsene una spiegazione prendendo a confronto le forme più antiche, le voci dialettali, comparandole con le forme di altre lingue sorelle o affini.
     Il metodo storico ci permette di vedere come alcune forme etimologicamente errate si siano saldamente radicate nell’uso e siano da considerare, quindi, perfettamente in regola con la legge della lingua. Il metodo storico, insomma, dà ragione ai portabandiera del detto l’uso fa la lingua. Un esempio?
     Quando nel latino parlato — durante il periodo di transizione dalla lingua classica a quella volgare -  per formare il participio passato di debere, dovere, i parlanti hanno cominciato a dire debutum (donde l’italiano dovuto), invece della forma corretta debitum, hanno imposto l’uso scorretto che è diventato…  corretto. Hanno fatto un po’ come i bambini che dicono, per esempio, romputo e non rotto.
     Mentre oggi, però, in casi come questi, i genitori e la scuola correggono l’errore, negli ultimi secoli dell’Impero, ma soprattutto nel Medio Evo, questa reazione non c’è stata, o per lo meno non abbastanza vigorosa, e il latino ha dato luogo alle lingue neolatine e alle forme scorrette convalidate dall’uso.
     Abituati, per tanto, a esaminare fenomeni di questo tipo, i glottologi (o linguisti) hanno finito con l’assumere un atteggiamento d’indifferenza nei confronti della lingua: a considerare, per l’appunto, semplici cambiamenti quelli che i grammatici (in special modo i puristi) considerano delle vere e proprie corruzioni linguistiche.
     I grammatici, insomma, sono essenzialmente conservatori; i linguisti, invece, stanno alla finestra: indifferenti che l’uso antico prevalga sul nuovo o viceversa. Per concludere, è giusta questa distinzione di ruoli, questa separazione netta fra i due punti di vista? Non crediamo, perché come insegna il vecchio adagio latino in medio stat virtus.
Il rigore assoluto dei grammatici va temperato dalla giusta considerazione che tutte le lingue con il mutare delle generazioni cambiano anch’esse.
Viceversa non bisogna prendere alla lettera il punto di vista storico, vale a dire l’indifferente storicismo che la linguistica, e con questa i glottologi, potrebbe incoraggiare.
Anche per i linguisti e i grammatici dovrebbe esserci -  per il bene della lingua - un incontro sulla via di Damasco.

mercoledì 11 dicembre 2019

Montare in bigoncia

Riproponiamo questo modo di dire perché abbiamo avuto una discussione di carattere linguistico con un nostro conoscente,"operatore dell'informazione", il quale non ha perso tempo ed è salito subito in bigoncia. 

Sapete perché si dice e cosa significa “montare o salire in bigoncia”? L’espressione fa il paio con quella piú conosciuta e adoperata, “salire in cattedra”, vale a dire fare il saccente, pretendere di insegnare tutto a… tutti. 
     Il modo di dire, vecchiotto, per la verità, ‘chiama in causa’ la bigoncia perché anticamente era il pulpito (o la cattedra) dal quale si parlava nelle università e nelle accademie. 
     La locuzione, anche se ‘stantía’, dovrebbe essere nota agli amici blogghisti toscani, visto che a Firenze è in uso – se non cadiamo in errore – la variante “favellare in bigoncia”.
     Aggiungiamo – da parte nostra, e a costo di essere tacciati di presunzione – che il detto calza a pennello ai soloni della carta stampata e no: pretendono di sapere tutto, soprattutto in fatto di lingua. 
     Non sanno, poverini, che molto spesso, per non dire sempre, la loro lingua è “biforcuta” e fa a pugni con la grammatica italiana e, a volte, anche con il buon senso (linguistico). E a proposito di buon senso (o buonsenso) abbiamo notato, con stupore, che il vocabolario Garzanti lo pluralizza.


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Tallonare

Siamo certi di non avere «l'approvazione» dei cosí detti linguisti d'assalto perché condanniamo l'uso del verbo "tallonare" in quanto è un gallicismo derivato dal francese talonner.  Ma tant'è. La nostra lingua è ricca di verbi "endogeni" che fanno alla bisogna, secondo i casi: incalzare, urgere, stare alle calcagna, inseguire, pressare, pedinare, rincorrere.

martedì 10 dicembre 2019

Perché "fauna" e perché "flora"?


Tutti conosciamo il significato di fauna e di flora, se non altro basta aprire un qualsivoglia vocabolario della lingua italiana, il Devoto-Oli, per esempio e leggere: «Fauna, il complesso delle specie animali proprie di un determinato ambiente o territorio»; «Flora, il complesso delle piante spontanee o largamente coltivate in un determinato territorio». 
     Ma donde derivano questi nomi? Vediamolo assieme. 
     La fauna è pari pari il latino Fauna, nome della figlia di Faunus (Fauno), genio benefico delle campagne, dei monti e del bestiame. Questo genio era venerato soprattutto dai pastori, che lo ritenevano dio del gregge in quanto allontanava i lupi. Era raffigurato con orecchie appuntite, piedi di capra e corna. 
     Anche flora è il latino Flora, nome di una dea che i nostri antenati Romani veneravano come regina della primavera e di ogni fiore (latino florem), quindi di tutte le piante.


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La lingua "biforcuta" della stampa

ll mezzo, linea 708 ha preso fuoco in via Vinicio Cortese, nella periferia sud ovest. Il conducente aveva fatto scendere l'unico ospite. Non si segnalano feriti né intossicati

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Da quando coloro che usano i mezzi pubblici si chiamano "ospiti" e non piú passeggeri?

domenica 8 dicembre 2019

Ancora sul femminile dei sostantivi che indicano le professioni

Nonostante le raccomandazioni della prestigiosa Accademia della Crusca, i grandi "dicitori" radiotelevisivi e i grandi "scrittori" della carta stampata continuano, imperterriti, a bombardarci di strafalcioni linguistici tipo la ministro. Noi non ci stancheremo mai di condannarli. La sola forma corretta è la ministra. Vediamo, dunque, come si forma il femminile ortodosso.
     Le parole terminanti in -o, -aio/-ario mutano in -a, -aia/-aria: architetta, avvocata, chirurga, commissaria, ministra, prefetta, primaria, sindaca.
     Le parole terminanti in -sore mutano in -sora: assessora, difensora, evasora, revisora.
     Le parole terminanti in -iere mutano in -iera: consigliera, portiera, infermiera.
     Le parole terminanti in -tore mutano in -trice: ambasciatrice, amministratrice, direttrice, ispettrice, redattrice, senatrice.
     I sostantivi terminanti in -e/-a non mutano, ma chiedono l'anteposizione dell'articolo femminile: la custode, la giudice, la parlamentare, la presidente, la ciclista.
Come sopra per i composti con il prefisso capo-: la capofamiglia, la caposervizio
     Le forme in -essa vengono conservate solo per quelle cristallizzate da tempo: dottoressa, professoressa.  Non diremo, quindi, la "presidentessa", l' "avvocatessa" e simili. Per quanto attiene ai sostantivi maschili 

in "-e" diventano femminili  cambiando solo l'articolo: il giudice / la giudice. 
     Quelli in "-o" prenderanno la desinenza "-a" del femminile: il deputato / la deputata, il ministro / la ministra, il soldato / la soldata. Interessante ciò che dice il Treccani circa il suffisso "-essa".


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Due parole sul complemento di distanza perché non tutti i "sacri testi" lo riportano. Il complemento di distanza, dunque, lo dice la stessa parola, indica la... distanza che intercorre fra due persone o fra due cose. Si costruisce direttamente, senza l'ausilio di una preposizione. È introdotto dal verbo "distare" o dall'espressione "esser lontano": la scuola dista (è lontana) cinquecento metri dall'abitazione di Francesco. Adoperato in posizione assoluta richiede, tassativamente, la preposizione "a": la chiesa è a pochi metri dalla casa di Luigi.

sabato 7 dicembre 2019

Libri "utili"

Libri che possono dissipare dubbi orto-sintattico-grammaticali:

Scaricabile dalla Rete, gratuitamente, cliccando qui.

giovedì 5 dicembre 2019

Le parole della neopolitica


Un articolo di Michele Cortelazzo pubblicato sul sito della Treccani.

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Simile e dissimile

Si presti attenzione a questi due aggettivi perché si costruiscono in modo diverso. Il primo significa "analogo", "quasi uguale", "somigliante" e richiede la preposizione "a" (semplice o articolata): il tuo orologio è simile al mio; a volte acquisisce il significato di "siffatto", "tale": non avrei mai pensato a un simile (siffatto) gesto. Il secondo significa "diverso", è composto con il prefisso "dis-" (che indica 'negazione') e si costruisce con la preposizione "da" (semplice o articolata): il tuo comportamento è dissimile (diverso) da quello di tuo fratello.

mercoledì 4 dicembre 2019

Il polisemico presepio

Cominciamo con il dire che si può... dire tanto presepe quanto presepio; la prima è forma prettamente aulica (presepe). Forse non tutti sanno, però, che questo termine oltre a indicare la rappresentazione della nascita di Gesù Cristo ha anche altri significati, che riprendiamo dal Treccani in rete: dal lat. praesepium o praesepe «greppia, mangiatoia», comp. di prae- «pre-» e saepire «cingere, chiudere con una siepe (lat. saeps saepis)»]. – 
     1. a. Propriam. (ma ant.), la stalla o la mangiatoia in essa situata: Vattene, agnello pieno di talento, Caro al presepio e al capo dell’armento (Giusti); anche in senso fig., con sign. affine a quello fig. di greppia: i fuchi, ingorde bestie e pigre Che solo intente a logorar l’altrui, De le conserve lor si fan presepi (Caro). In partic., secondo il Vangelo di Luca (2, 6-16), la mangiatoia ove fu deposto Gesù alla sua nascita, e insieme la grotta in cui essa si trovava: in poveri Panni il Figliol compose, E nell’umil presepio Soavemente il pose (Manzoni). 
     b. Nell’uso com., rappresentazione plastica della nascita di Gesù che si fa nelle chiese e nelle case, nelle festività natalizie e dell’Epifania, riproducendo scenicamente, con figure formate di materiali vari e in un ambiente ricostruito più o meno realisticamente (talora anche anacronistico), le scene della Natività e dell’Adorazione dei Magi: fare, preparare il p.; le figurine del p.; un p. in cartapesta, in terracotta, in legno dipinto; un p. di ceramica faentina; un p. napoletano del Settecento; l’iconografia bizantina del p.; p. animato, in cui è dato movimento alle figure mediante congegni meccanici; p. vivente, in cui agiscono persone vere che rappresentano la scena della Natività. Più genericam., ogni rappresentazione iconografica della nascita di Cristo. 
     2. Nel culto di Mitra, lunga panca, simile a una mangiatoia, che si stendeva lungo le pareti della sala ipogea di culto; anche, denominazione delle varie recinzioni della sala stessa. 
     3.Negli stabilimenti industriali, prima che venissero istituite le camere di allattamento e gli asili nido, locale in cui durante le ore lavorative venivano accolti e custoditi i bambini lattanti delle operaie. 
     4. In astronomia, nome (nell’uso pop. anche greppia o mangiatoia) di un ammasso stellare visibile a occhio nudo come una grossa nebulosa, situato tra le stelle delta e gamma della costellazione del Cancro.

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Il plurale di girotondo?  Girotondi


Sarebbe interessante conoscere i motivi che hanno indotto Francesco Sabatini e Vittorio Coletti ad attestare - nel loro vocabolario - come invariabile il sostantivo girotondo. È l'unico dizionario - tra quelli consultati - che non ammette il regolare plurale girotondi. Mistero eleusino. Il sostantivo in oggetto, secondo la "legge grammaticale", si pluralizza normalmente perché è un nome composto di un sostantivo maschile singolare (giro) e un aggettivo (tondo). Esiste anche il plurale, raro, giritondi.

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La lingua "biforcuta" della stampa

Boom monopattini ecologici ma fuorilegge

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Non abbiamo l'avallo dei vocabolari e dei linguisti "doc", ma a nostro avviso fuorilegge, in questo caso, va scritto in due parole: fuori legge. I monopattini non sono dei banditi o dei fuorilegge. Sono "veicoli" fuori (della) legge, vale a dire illegali.


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Al Gran galà irrompe Ferrero: l'urlo da ultrà dopo il gol della sua Samp
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Correttamente: gran gala (senza l'accento sulla "a"). DOP, Dizionario di Ortografia e di Pronunzia:







martedì 3 dicembre 2019

La pazienza: si ha o si porta?


Il verbo portare significa - se consultiamo un qualsivoglia vocabolario - reggere, trasportare, indossare, recare, tenere e simili.
     Molto spesso, però, per contaminazione del francese, si usa come verbo tuttofare in luogo di verbi piú appropriati quali, per esempio, avere, sentire, dimostrare, serbare, prestare, indurre: portare odio, portare rispetto, portare pazienza.
     In buona lingua italiana si dirà: serbare odio, mostrare rispetto, avere pazienza. Si sentono e si leggono anche frasi tipo portare avanti una rivendicazione, portare avanti un discorso, portare avanti una lotta, portare una strategia e simili. Sono frasi, queste, non errate ma prive di buon gusto.
Il nostro idioma è ricco di altri verbi piú appropriati e piú incisivi atti a esprimere il medesimo concetto, ovviamente caso per caso. Vediamone qualcuno: sviluppare, promuovere, proporre, sostenere, condurre ecc.
     Nelle frasi su riportate diremo meglio, quindi: sviluppare (non portare avanti) un discorso; seguire (non portare) una strategia; condurre (non portare) una lotta.

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 L'angiarro

 Gli amici lettori che seguono le nostre noterelle, con molta probabilità, non si saranno mai imbattuti nel termine sopra citato.
     Il vocabolo, infatti, non è registrato nei comuni vocabolari non essendo un termine schiettamente italiano ma un arabismo entrato nella nostra lingua. Lo registra il Tommaseo-Bellini,  però. Ma cosa significa? Lo "domandiamo" allo stesso Tommaseo.

domenica 1 dicembre 2019

L'accattapane (mendicante) si pluralizza?

I vocabolari che abbiamo consultato (De Mauro, Devoto-Oli, Garzanti, Treccani, Palazzi, Olivetti, "Sapere.it") all'unisono attestano il sostantivo accattapane (cioè il mendicante, l'accattone, il pezzente) tra i nomi invariabili: l'accattapane / gli accattapane. No, il sostantivo in oggetto si pluralizza normalmente: gli accattapani. Perché ? Perché appartiene alla schiera dei nomi composti formati con una voce verbale e un sostantivo maschile singolare. I nomi cosí composti, dunque, prendono la normale desinenza del plurale: passaporto / passaporti; parafango / parafanghi; accattapane / accattapani. È composto, infatti, con il verbo accattare ('chiedere con insistenza') e il sostantivo pane. Resterà invariato solo se riferito a un femminile: Lorella e Vanessa sono proprio delle accattapane. Ma: Luigi e Giuseppe sono degli accattapani. Saremo lieti di condividere con il Gabrielli  gli eventuali  strali che dovessero arrivarci dai linguisti "ufficiali". Il dizionario Tommaseo-Bellini sembra darci ragione. La forma plurale, accattapani, si trova in alcune pubblicazioni ottocentesche.


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Appena - avverbio e congiunzione che riguarda un'azione già compiuta e conclusa. È scorretto, o per lo meno improprio, l'uso con un futuro semplice perché l'azione ancora non è stata compiuta e conclusa. Non diremo, per esempio:  "Ti telefonerò *appena arriverò" ma "ti telefonerò quando arriverò" (non appena sarò arrivato).

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"In questione", "essere in questione", "porre in questione" espressioni adoperate con le accezioni di cui si tratta, si parla, trattarsi, trattare, a nostro modesto avviso sono dei gallicismi da evitare in buona lingua italiana. Diremo correttamente, quindi, l'argomento di cui si parla... (non l'argomento in questione). Ma tant'è.


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La parola proposta da questo portale e non a lemma nei vocabolari dell'uso: smelia. Sostantivo femminile con il quale si indica una donna smorfiosa, saputella, saccente.


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La lingua "biforcuta" della stampa

Urne aperte fino alle 23. Alle 12 affluenza al 7,3%. È la quinta volta che i cittadini scelgono se dividere l'amministrazione: l'ultima non ci fu il quorum e per tre volte vinse il no
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Correttamente: nell'ultima.


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Abu Dhabi, a Hamilton l'ultimo Gp. Secondo Verstappen, la Ferrari di Leclerc è terza ma sub judice

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Correttamente: sub iudice (con la "i" normale). Nel  latino classico non esisteva la "J". Treccani: sub iudicesub i̯ùdiče› locuz. lat. (propr. «sotto il giudice»), usata in ital. come avv. Si veda anche qui.

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Coloro che ravvisino strafalcioni orto-sintattico-grammaticali (e "concettuali") in articoli giornalistici possono inviarli a questo portale (fauras@iol.it). I testi "incriminati" saranno pubblicati ed esposti al pubblico ludibrio.





sabato 30 novembre 2019

L'impossibile alla francese


Sappiamo già che saremo sbugiardati dai vocabolari e, soprattutto, dai gramuffastronzoli (se qualcuno di costoro dovesse imbattersi in questo portale) su quanto stiamo per scrivere; ma andiamo avanti per la nostra strada, come sempre, convinti della bontà della tesi che sosteniamo a spada tratta.
     Ci riferiamo all'uso corretto dell'aggettivo impossibile, che significa che non può essere, che non si può fare, che non si può attuare, che non può compiersi e simili: è impossibile affrontare un viaggio con due bambini così piccoli; credo sia impossibile che riesca a ottenere quello che chiede. Bene.
     Alcuni adoperano quest'aggettivo alla francese, dandogli un significato che non ha, ritenendolo sinonimo di difficile, intollerabile, insopportabile, intrattabile, scontroso, pessimo, insostenibile, inaccettabile e simili: c'è un traffico impossibile; mi ha fatto una proposta impossibile; ha un carattere veramente impossibile; fa un caldo impossibile.
     Gli amatori dell'italico idioma adopereranno - in casi del genere - gli aggettivi propri che fanno alla bisogna: c'è un traffico insostenibile; mi ha fatto una proposta inaccettabile; ha un carattere insopportabile, scontroso; fa un caldo insopportabile.
Un'ultima notazione. Il termine in oggetto può anche assumere il valore di sostantivo maschile: volere l'impossibile; tentare l'impossibile; fare l'impossibile ecc.

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Il verbo paragonare - forse non tutti lo sanno - ha due distinti significati e si costruisce, per tanto, con due diverse preposizioni: 'con' e 'a'. Cominciamo con il dire che è transitivo e in quanto tale, nei tempi composti, prende l'ausiliare avere. Ma veniamo al dunque.
     Quando ha l'accezione di confrontare e simili richiede la preposizione con: caro amico, non puoi paragonare (mettere a confronto) il tuo lavoro con quello di Osvaldo.
     Nel significato di assomigliare è seguito dalla preposizione a: visto il tuo comportamento ti paragono a un animale.




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La lingua "biforcuta" della stampa


Attacco al London Bridge, due morti, diversi accoltellati. Ucciso l'aggressore: "Era un'islamista in libertà vigilata"

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Islamista si riferisce all'aggressore, che è maschile. Correttamente: un islamista, senza apostrofo, dunque.

(L'orrore è stato emendato)


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Il 1° dicembre è domenica ecologica

a Bologna e nei Comuni dell'hinterland

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Correttamente: Il 1 dicembre (senza esponente). Crusca: : Le indicazioni comprendenti anche mese e giorno sono introdotte modernamente da un articolo maschile singolare: «il 20 settembre 1870». Per estensione, si può aggiungere che, nel caso di una data come 11/10/1989, l'articolo che vi si anteporrà sarà l' (seguendo la pronuncia della data: l'undiciottobre millenovecentoottantanove); stessa regola vale per le date che iniziano con 1: anche per queste, si considera il modo in cui tali date vengono pronunciate e quindi si scriverà il 1/2/2003 (cioè il primo febbraio duemilatré). Infatti, come specifica Serianni, "Per i giorni del mese si usa l'ordinale per il giorno iniziale [...], ma il cardinale per i giorni successivi, siano o non siano accompagnati dal giorno del mese [...]."
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Coloro che ravvisino strafalcioni orto-sintattico-grammaticali (e "concettuali") in articoli giornalistici possono inviarli a questo portale (fauras@iol.it). I testi "incriminati" saranno pubblicati ed esposti al pubblico ludibrio.





venerdì 29 novembre 2019

La Crusca si è rifatta il "vestito"


L'Accademia della Crusca ha rinnovato il suo guardaroba, il sito, infatti,  ha un nuovo vestito. Ci sembra piú snello e piú "avvolgente" e per questo ci complimentiamo. 
 Abbiamo notato, però, un "neo": dopo aver inviato un commento appare la dicitura Grazie! Il tuo commento è stato inviato alla redazione che provvedrà a pubblicarlo. Quel "provvedrà" ci lascia perplessi. Se non cadiamo in errore il verbo provvedere si coniuga come vedere, tranne il futuro e il condizionale che seguono la regolare coniugazione, non hanno, cioè, le forme sincopate: provvederò e provvederei (vedrò e vedrei). 
     Sarebbe interessante conoscere le motivazioni che hanno indotto i responsabili del sito a compiere questa scelta stilistica che non ci sembra ortodossa.

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Due parole sul verbo "diffidare" perché non sempre è adoperato correttamente. Questo verbo, dunque, appartiene alla prima coniugazione ed è intransitivo. 
     Significa "sospettare", "non fidarsi", "non riporre fiducia", "dubitare" e simili e si costruisce con la preposizione "di" (non "da", come si legge sempre sulla stampa): diffidate "delle" imitazioni, dunque (non "dalle"). 
     Adoperato transitivamente acquisisce il significato di "intimare di compiere o non compiere una determinata azione": la polizia ha diffidato il malvivente a presentarsi  in questura ogni mattina per apporre la firma sul registro; il preside ha diffidato gli alunni a non fumare nelle aule e nei corridoi della scuola. 
     È in uso anche la forma "diffidare da" (nel senso di "non compiere una determinata azione"): il preside ha diffidato gli alunni dal fumare nelle aule e nei corridoi della scuola. A nostro avviso non è un uso da seguire.

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Vocabolario Palazzi: diffidàre intr. (aus. avere) non aver intera fiducia; e si costruisce con la prep. di: diffida di chi non ride mai ll tr. T. giur. intimare ad altri di fare o non fare una cosa.

giovedì 28 novembre 2019

Fatturare e adulterare


Breve viaggio attraverso la foresta del vocabolario alla ricerca di parole omofone (parole che hanno la medesima grafia e il medesimo suono) ma di significato diverso di cui la nostra lingua è molto ricca. Prendiamo, per esempio, il termine fattura, parola omofona, appunto, ma con diversi significati.
     Quello più comune è noto a tutti; se non altro basta aprire un qualsivoglia vocabolario e leggere: «l’atto e l’effetto del fare; l’opera di artigiani in genere e lista nella quale è annotato l’importo delle spese occorse per compiere un lavoro e quello richiesto, da chi l’ha eseguito, per la sua prestazione».
     Ma fattura vale anche stregoneria, malia. C’è fattura e… fattura, quindi. Questa stessa parola, dunque, come può contenere significati così diversi tra loro? La diversità è solo apparente in quanto la matrice è unica: il latino factura, tratto da factus, participio passato di facere (fare). A questo punto possiamo dire che la fattura, propriamente, è l’ azione del fare.
     Un sarto, per esempio, quando fattura un abito non compie l’azione del fare (un vestito)? Quindi lo… fattura. La medesima cosa vale per la fattura commerciale. Colui che compila la lista del lavoro svolto con il relativo costo non fa altro che compiere l’azione del fare… la lista. Bene. La medesima cosa fa colui che compie una stregoneria.
     In origine, però, la fattura non valeva stregoneria come la intendiamo oggi, bensì fare sacrifici agli dèi, attendere alle cose sacre. E in latino si diceva, infatti, facere rem sacram, fare una cosa sacra, vale a dire compiere l’azione del fare una cosa sacra operando con la mano. Di qui il significato estensivo di compiere l’azione del fare filtri, incantesimi e via dicendo. Da questa azione è nato il verbo denominale fatturare con i relativi significati: annotare in fattura le vendite effettuate; compiere un incantesimo; affatturare e manipolare; adulterare; sofisticare; alterare una sostanza mescolandovi materie estranee.
     A questo proposito occorre notare, però, che non sempre adulterare e fatturare sono sinonimi l’uno dell’altro, vale a dire che non necessariamente fatturare ha un valore negativo come il cugino adulterare. E spiega benissimo questo concetto Giuseppe Cusmano nel suo Dizionario metodico-alfabetico di viticoltura ed enologia. Vediamo.
     «Un vino può essere adulterato, e può essere fatturato. Si adultera un vino aggiungendogli sostanze nocive alla salute, come acido solforico, fucsina (un colorante, ndr) ecc.; si fattura unendogli sostanze innocue alla salute, come alcol, zucchero».
     Di matrice diversa, invece, le due accezioni di scampo, altra parola omofona incontrata in questo viaggio. Il primo significato, quello di salvezza da un pericolo, da un grave rischio viene dal verbo scampare, composto della particella s e il sostantivo campo e propriamente vale uscir salvo dal campo (di battaglia): non c’è più scampo.
     La seconda accezione, quella di crostaceo marino commestibile (scampo, appunto), proviene da una voce veneziana composta sempre della particella s più il sostantivo greco hippocampos e divenuto scampo per la caduta delle sillabe iniziali hippo


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La parola proposta da questo portale e non a lemma nei vocabolari dell'uso: nebulento.  Aggettivo denominale che sta per "nuvoloso", "nebbioso", tratto dal  latino  nebula (nuvola).

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La lingua "biforcuta" della stampa

Politica|

La deputata Wanda  Ferro nominata commissario regionale di Fratelli d'Italia in Calabria
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Forse i titolisti del giornale non sanno che nella lingua di Dante il femminile di commissario è commissaria. Ora lo sanno.
"Sapere.it" (De Agostini): Il femminile regolare di commissario è commissaria, e così si può chiamare una donna che abbia il compito o il ruolo di commissario. Alcuni preferiscono però chiamare una donna commissario, al maschile, specialmente se il ruolo è di alto livello. Si tratta di una scelta che non ha basi linguistiche ma sociologiche, e che comunque può creare, nel discorso, qualche problema per le concordanze.



martedì 26 novembre 2019

Irriscrivibile? E chi lo vieta!?

Da "Domande e risposte" del sito Treccani:
Siccome in rete non riesco a trovare nulla a riguardo chiederei il parere della vostra istituzione. Il termine "irriscrivibile" (ogni giorno è irriscrivibile.) si può ritenere corretto? Non trovo sinonimi che includano questo senso di scrittura a penna e i giorni il cui corso non si può riscrivere.
Risposta
Non tutti i composti con in- con valore negativo o sottrattivo sono presenti e adoperati nella lingua italiana, anche se in- è un prefisso da sempre molto produttivo nella nostra lingua. Irriscrivibile 'che non può essere riscritto' non è documentato né è presente nei dizionari della lingua dell'uso. Va detto, però, che il significato della parola è piuttosto trasparente (molti i modelli che funzionano: irripetibile 'che non può essere ripetuto').

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Irriscrivibile non è attestato nei vocabolari dell'uso, si trova, però, in alcune pubblicazioni. Se il termine "prenderà piede"  i lessicografi dovranno prenderne atto e "lemmarlo" nei dizionari.



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La lingua "biforcuta" della stampa

Così il diamante verde più grande del mondo è scampato al furto

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Ci può essere un diamante "piú grande del mondo"? Correttamente: piú grande al mondo.


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Porto Cesareo

Una donna ingoia un amo 'dimenticato' da cuoco all'interno di una polpetta di polpo

È fuori pericolo dopo intervento chirurgico operata

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Se è stata operata è ovvio che la paziente è stata sottoposta a un intervento chirurgico.


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Cento posti da netturbino a Messina, pubblicato l'elenco dei candidati
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Correttamente: posti di netturbino. Treccani: « (...) Impiego, ufficio che costituisce l’occupazione abituale e da cui si traggono, tutti o in parte, i mezzi di sostentamento: essere alla ricerca di un p.; trovare un p.; offrireprocurare un p.; avere un buon p., un ottimo p., un pmiseromodestoperdereconservare il p.; ci tengo al mio p.!; seguito dalla specificazione dell’impiego: mettere a concorso trecento pdi maestroè vacante il pdi segretariodi redattore capo; anche con riferimento a cariche elevate: aspirare a un ppiù altosi sono presi i pmiglioriavereoccupare un pdi grande responsabilitàessere ai pdi comando. (...)».




lunedì 25 novembre 2019

Le varie funzioni di "dietro"


Come preposizione impropria vale nella parte posteriore; al di là di un'altra cosa e si unisce direttamente al sostantivo che segue: dietro la casa; dietro la piazza. 
Alcuni, soprattutto i cosí detti gramuffastronzoli, preferi-scono accompagnarlo con la preposizione (semplice o articolata) a: dietro alla facciata; dietro al mobile. Riteniamo, questo, un uso non molto "ortodosso" e, quindi, da evitare in buona lingua italiana. Dietro è di per sé una preposizione, sebbene impropria, per quale motivo (grammaticale) farlo seguire da un'altra preposizione? È obbligatoria, invece, la preposizione di quando dietro è seguito da un pronome personale: dietro di voi; dietro di loro. Quest'ultima preposizione (di) si tramuta in a, però, quando è espresso un concetto di moto a luogo (reale o figurato): andava sempre dietro a lei; correva sempre dietro alla moda.
      In funzione avverbiale dietro significa nella parte posteriore e spesso è accompagnato con altri avverbi di luogo o preceduto dalla preposizione di: sedeva dietro o di dietro, vale a dire nella parte posteriore.
E, sempre come avverbio, può assumere un valore temporale con il significato di dopo: ha commesso un errore dietro l'altro. In funzione di sostantivo raddoppia il gruppo "di" iniziale, didietro: il didietro della vettura.
     Concludiamo queste due parole, due, riportando quanto dice in proposito l'illustre linguista, ormai scomparso, Aldo Gabrielli, un padre della lingua:
      «Con dietro si costruiscono numerose locuzioni scorrette che è necessario evitare; non si dica dietro sua domanda, ma a sua domanda; dietro consegna, ma alla consegna; dietro versamento ma contro versamento, all'atto del versamento; dietro il vostro intervento ma per il vostro intervento; dietro la vostra assicurazione ma dopo la vostra assicurazione (...)».
E tante altre ancora, che omettiamo per non tediarvi oltre misura. In caso di dubbi un vocabolario, con la V 'maiuscolata' però, farà alla bisogna.



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Due parole sul verbo intransitivo vaporare, che nei tempi composti può prendere tanto l'ausiliare avere quanto l'ausiliare essere, ma non ad capochiam.
Prenderà l'ausiliare avere quando sta per esalare vapore (quando è stato tolto il coperchio il liquido ha vaporato); l'ausiliare essere quando assume l'accezione di svanire (non è stato trovato più nulla: tutto era vaporato).


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Si presti attenzione ai verbi schiattare e schiattire, non sono sovrabbondanti, non sono, per tanto, l'uno sinonimo dell'altro. Il primo, della prima coniugazione, significa "scoppiare", "crepare" e simili. Il secondo, della terza e coniugato nella forma incoativa (con l'inserimento dell'infisso "-isc-" tra il tema e la desinenza), sta per "emettere brevi gridi" ed è sinonimo di "squittire".


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Coloro che ravvisino strafalcioni orto-sintattico-grammaticali (e "concettuali") in articoli giornalistici possono inviarli a questo portale (fauras@iol.it). I testi "incriminati" saranno pubblicati ed esposti al pubblico ludibrio.