domenica 30 settembre 2018

Sgroi - I grammatici dinanzi all'uso del parlante che li sovrasta

di Salvatore Claudio Sgroi *

L'enunciato (1) "SE SAREBBE COSÌ GENTILE DA FARCI STRADA..." nel nostro precedente intervento del 24 sett. è stato analizzato come esempio di dipendente dubitativa (o interrogativa indiretta o dipendente argomentale) al condizionale, con ellissi pragmatica della reggente ("le chiedo").
Sabatini, che l'aveva discusso nella sua rubrica di "Uno mattina in famiglia" (RAI-1, dom. 23 sett.), da parte sua aveva anche lui accennato a tale ipotesi, subito però scartata.
Dieci nostri amici-colleghi hanno letto il nostro testo, 5 con assenso e 4 con dissenso (1 ha sorvolato sull'aspetto sintattico), avanzando via e-mail anche un'analisi sintattica alternativa, insieme con giudizi sul carattere normativo. Per l'inevitabile feedback, possiamo quindi così classificarli e discuterli.

1. I favorevoli
 Un grammatico (piemontese) ha condiviso in toto la mia analisi sintattica, attestando nel contempo il suo uso personale e registrando le reazioni normative (neopuristiche) di altri parlanti ("l'orrore negli occhi degli interlocutori"):
"Sì, d'accordo: io lo dico con il condizionale (lo so per esperienza, perché mi è capitato di ascoltarmi in situazioni del genere), ma vedo spesso l'orrore negli occhi degli interlocutori quando pronuncio interrogative indirette con il condizionale in contesti così 'pragmatici' e 'intersoggettivi'".

Un secondo grammatico (Emilia-Romagna) si è dichiarato come linguista d'accordo con me e nel contempo da informante ha documentato il suo non-uso, senza giudizi negativi:
"come grammatico, condivido appieno (compresa la valutazione di (3) ["Sarebbe così gentile da farci strada se glielo chiedessi?"] come assai poco naturale); come parlante, non userei mai (1), ma solo (2) ["Se fosse così gentile da farci strada..."]; ma si tratta senz'altro di variazioni idiolettali".

Un terzo collega (siciliano) ha dichiarato: "Concordo pienamente con la tua analisi", aggiungendo: "1. È pragmaticamente una mitigazione [...]". E come parlante ha puntualizzato: "Certo che la direi se sarebbe". Ha quindi esteso la sua analisi semantica agli altri due ess.:
"La frase 2 [Se fosse così gentile da farci strada...] Molto forte implica eventualità della non disponibilità dell'interlocutore".
"La frase 3 [Sarebbe così gentile da farci strada...] crea distanza con l'interlocutore".

Un quarto grammatico (laziale) ha condiviso la nostra analisi ("condivido la tua lettura", ovvero il se sarebbe "d'accordo con te, nel tuo esempio non è ipotetico ma epistemico"), rivelando nel contempo "l'autocensura" quanto all'uso attivo di [1]:
"condivido la tua lettura (tutte e tre possibili e ben formate), che non la uso ma la userei se non fossi, malgré moi, anche io vittima dell'autocensura anti se sarebbe. Che però, d'accordo con te, nel tuo esempio non è ipotetico ma epistemico".

Un quinto grammatico (veneto) sembra essere d'accordo con la mia analisi: "Ipotizzerei un sottinteso '(mi chiedo) se sarebbe così gentile...' ". Nel contempo ha dichiarato tuttavia: "Ma non sono sicura".
E poi si è lasciato condizionare da un giudizio di sanzione non giustificato ("una frase sbagliata"), allorché nella stessa e-mail ha osservato:
"Tuttavia, resta il sospetto che sia una toppa per salvare una frase sbagliata, un rammendo non invisibile".

2. I contrari
Altri quattro colleghi invece hanno preso le distanze dalla mia analisi, intravedendo nella frase un esempio di "incrocio" di due frasi ([1] la interrogativa al condizionale e [2] la protasi col se + cong.).
 Un sesto collega (veneto) ha così ipotizzato un "incrocio", un "ibrido" del parlato, senz'alcun giudizio di condanna:
"Veramente ho la sensazione che la frase incriminata sia solo l'incrocio tra [1] Sarebbe così gentile....? e [2] Se fosse così gentile.... Quando parliamo ci capitano questi ibridi".

Un settimo collega (laziale) è stato netto nel dichiarare il suo dissenso ("non concordo con la tua spiegazione"), e ha proposto un'analisi alternativa ("un incrocio"), invocando neopuristicamente "la necessaria indulgenza", trattandosi di "parlato" e non di "scritto":
"secondo me la frase incriminata nasce da un incrocio tra due tipi diversi: [1] il condizionale di cortesia e [2] il "se" introduttivo di un'ipotetica; quindi non concordo con la tua spiegazione e, semmai, invocherei la necessaria indulgenza che spetta al parlato rispetto allo scritto".

Un ottavo collega (Emilia-Romagna) ha suggerito un incrocio, ma nel corso del discorso, ovvero una "con-fusione" di due costrutti, come se il parlante iniziasse con il SE e, dopo una pausa, continuasse col cond. Si tratterebbe quindi di una incertezza di pianificazione sintattica, non confermata però dalla pausa, invero assente:
"Penso anch’io a un’ellissi, o meglio la con-fusione di due domande
[2] “Se fosse così gentile da farci strada” + [3] “sarebbe così gentile da farci strada?”.
Probabilmente tra il SE… e il Sarebbe ci sarà stata una pausa"

Un nono collega (piemontese) ha rifiutato implicitamente la mia analisi ed esplicitamente il mio giudizio normativo sulla frase incriminata. Si è posto in primo luogo come italo-nativofono, che non usa tale forma, e ha valutato puristicamente l'uso altrui percepito errato ("per niente buona"), in quanto a suo giudizio sarebbe sociolinguisticamente "un idiotismo dell'italiano meridionale". Ha quindi optato per altre soluzioni decisamente canoniche [2] e [3], che ha analizzato da "grammatico":
"Come al solito, io ti dico il mio parere non come grammatico [...], ma come semplice 'parlante della strada' che dà giudizi in base alla propria competenza e al proprio uso. Dunque: per me la forma [1] con se sarebbe non è per niente buona, io non la userei affatto, e la percepisco come un idiotismo dell'italiano meridionale. La sola forma 'buona' per me è [2] se fosse, con un 'congiuntivo condizionale di cortesia' che diminuisce la forza illocutiva della richiesta. Io direi quindi o [3] sarebbe così gentile (senza se) o [2] se fosse così gentile (più cortese, meno invasivo). La terza possibilità [(3a) "Sarebbe così gentile da farci strada se glielo chiedessi?"] indicata da Sabatini mi sembra buona, ma troppo alambiccata nel parlato quotidiano".

3. Gli astenuti
Il decimo collega (Emilia-Romagna) ha bypassato sul problema dell'analisi sintattica, ed è stato invece attratto dall'aspetto normativo del costrutto (1), da cui ha preso le distanze come nativofono, ritenendolo neopuristicamente un "reato":
"Circa il dubbio che proponi nel tuo pdf: ho fatto fatica a vedere la 'buona' intenzione dietro [1] 'Se sarebbe così gentile'. Io di certo non lo direi, fermandomi a [2] 'Sarebbe così gentile'. Poi, certo, parlando si compiono molti reati, cui siamo abituati più o meno".

4. Un'ipotesi radicale
Senza dimenticare con F. de Saussure (1891), che "non bisogna dire proprio nulla; tutto ciò che si dice ha la sua ragion d’essere", o ancor prima con J. Baudouin de Courtenay (1870) che "è ridicolo lagnarsi dei fatti. Tutto ciò che esiste è razionale, naturale e legittimo: ecco il motto di tutte le scienze", -- possiamo avanzare una proposta teorica più radicale.
La frase da cui abbiamo preso le mosse -- (1) "SE SAREBBE COSÌ GENTILE DA FARCI STRADA..."-- non è un esempio occasionale di semplice "parole" ma un fatto "di langue". Paradossalmente finora non analizzato (salvo prova contraria) nelle grammatiche italiane. È quindi merito non piccolo di Sabatini averla presa in considerazione nella sua trasmissione.
Rispetto alla mia analisi, tenderei ora a renderla più radicale, considerando la (1) un es. di frase "dubitativa" non più dipendente, ma "indipendente, autonoma". Ovvero l'ellissi "le chiedo" si può invocare per spiegare etimologicamente come si è formata tale frase. Ma una volta che si è affermata (da quando non saprei precisare), accanto alla "dubitativa dipendente", si può anche ipotizzare la "dubitativa indipendente". Il sarebbe è infatti un condizionale, ovvero 'futuro potenziale', la cui cortesia è potenziata dalla presenza del Se congiunzione dubitativa (non già ipotetica, il che fa scartare l'ipotesi dell'"incrocio").
Il costrutto non può inoltre essere ritenuto di stampo popolare o di tipo meridionale, perché invero in bocca a parlanti colti sia settentrionali (vedi l'informante n. 1) sia meridionali (vedi: informante n. 3, e potenzialmente il n. 4).
La vicinanza del costrutto [1] col periodo ipotetico con duplice condizionale (4. se potrei lo farei), questo sì di stampo popolare, e direi panitaliano, lo rende metalinguisticamente sospetto, per effetto dell'insegnamento scolastico tradizionale mono-orientato, come se esistesse solo il "se" delle ipotetiche della possibilità o dell'irrealtà.

* Docente di linguistica generale presso l'Università di Catania











sabato 29 settembre 2018

Piccolo dizionario di parole "difficili" (2)


Epitalamio -  Sostantivo maschile composto con le voci greche "epì" (dinanzi) e "thàlamos" (letto nuziale o giorno delle nozze). Componimento poetico in occasione di uno sposalizio.

Erubiscente - Aggettivo tratto dal verbo latino "erubèscere" (arrossire) e vale "che diventa rosso" per vergogna o per pudore.

Faldistorio o faldistoro - Sostantivo maschile tratto dal germanico "Faldastol" (sedia) e questo dal basso latino "faldistorium" e indica un sedile pieghevole (senza spalliera) usato dal papa e dai vescovi in alcune funzioni sacre. In passato era adoperato anche da regnanti e nobili.

Flebotomo - Sostantivo maschile e aggettivo, indica la persona che in passato faceva salassi. È composto con le voci greche "phleps" (vena) e "tomos" (che taglia). Attualmente viene adoperato, spregiativamente, per indicare un chirurgo mediocre.

Gipsoteca - Sostantivo femminile. Formato con le voci greche "gypos" (gesso) e "thèke" (deposito, raccolta) indica un museo in cui sono esposti calchi in gesso di statue e bassorilievi di illustri artisti.

Lalofobia - Sostantivo femminile con il quale si definisce la paura morbosa di parlare; l'avversione alla loquacità. Dal greco "làlos" (loquace) e "fobìa" (timore, paura).

Lutolento o lutulento - Aggettivo che significa "fangoso", "sudicio", "sporco". Dal latino "lutum" (fango).

***

A proposito di "onde" e l'infinito

Alcuni lettori hanno contestato la nostra condanna circa l'uso di onde seguito da un infinito (intervento del 27 scorso) sostenendo che l’hanno  adoperato il Leopardi, il Parini, persino il purista Leonardo Salviati, per non parlare del Tommaseo (al punto 6) che lo ha registrato nel suo vocabolario. E che cosa significa? Un uso improprio è e un uso improprio resta!
Onde è un avverbio di moto da luogo, è il latino unde, e significa da dove: “onde venisti?, quali a noi secoli...” (Carducci). Da questo significato primitivo sono derivati tutti gli altri, sempre con valore di provenienza. Abbiamo, così, onde adoperato come pronome invariabile nel senso di di cui, da cui, con cui, per cui: «i diletti, l’amor, l’opre, gli eventi onde (di cui) cotanto ragionammo insieme» (Leopardi). Quando in onde manca l'idea della provenienza, insomma, è bene non adoperarlo.

Vediamo ciò che dice in proposito il linguista Giuseppe Pittàno: «Il significato fondamentale dell’avverbio onde (...) è quello di da quale luogo, da chi: onde vieni? onde ti viene tanto coraggio? (...) Abbastanza frequente è l’uso di onde più l’infinito: ti scrivo onde informarti, accorse onde aiutarlo. Si tratta di un uso condannato dai grammatici che consigliano di ricorrere in questi casi alla preposizione per: ti scrivo per informarti, accorse per aiutarlo». Il linguista Basilio Puoti - esagerando -  affisse a una parete del suo studio un cartello con la scritta: «Chi usa 'onde' in iscambio di 'affinché' o di 'per' è un solenne somaro!». Vincenzo Ceppellini nel suo "Dizionario Grammaticale" scrive che è scorretto l'uso (di onde) con l'infinito («Accorremmo sul posto per [e non onde] recare aiuto ai feriti»). Il vocabolario Palazzi: « ónde avv. di luogo, di dove; donde ll pron. di che, del quale, per il quale, con 'che: i mali onde era afflitto ll cong. affinché: te lo dico, onde ti serva di regola il dal che, per il che: onde avvenne che tutti corsero là ll M.E. evita di usare onde con l'infinito: onde raggiungere gli amici; dirai meglio: per raggiungerli». A questo punto, amici, seguite la vostra "coscienza linguistica".

giovedì 27 settembre 2018

La preposizione e la... proposizione


Riproponiamo un vecchio articolo sulla differenza tra "preposizione" e "proposizione" perché alcuni tendono a confondere i due termini.

Stupisce il constatare che molte persone confondono la preposizione con la proposizione, ritengono, cioè, i due termini l'uno sinonimo dell'altro. Vediamo, quindi – sia pure per sommi capi – che cosa è la proposizione (con la o).
Ce lo dice la stessa parola latina dalla quale deriva (propositio, cosa proposta alla considerazione, alla discussione e, per tanto, argomento, concetto) vale a dire «gruppo di parole unito a un verbo che esprima un pensiero riguardo a un dato argomento», insomma una frase: Giovanni legge attentamente; Paolo rimira le stelle; Giuliano risolve i cruciverba.
In tutti questi esempi ogni parola è unita a un verbo e forma, o meglio esprime un concetto proposto (proposizione) alla nostra attenzione. Gli ingredienti essenziali di una proposizione sono il soggetto e il verbo, senza quest'ultimo, anzi, non si ha alcuna proposizione in quanto il gruppo di parole risulterebbe slegato e non avrebbe alcun senso.
Ma cos'è il soggetto, elemento principe – dopo il verbo – di una proposizione? Semplicissimo: è la persona, l'animale o la cosa di cui si parla.
Viene dal latino "subiectus" ed è l'elemento sottoposto a un giudizio, vale a dire – per usare le parole del linguista Francesco Ugolini – «il termine di cui si afferma una maniera d'essere o d'agire».
Negli esempi sopra riportati affermiamo che Giovanni legge attentamente, che Paolo rimira le stelle e che Giuliano risolve i cruciverba; Giovanni, Paolo e Giuliano sono, per tanto, elementi sottoposti a una nostra considerazione.
Attenzione, quindi, non si confonda la preposizione con la proposizione: il figlio di un nostro conoscente ha scritto – in un compito in classe – che trovava «difficoltoso riconoscere i vari complementi contenuti in una preposizione». Riteniamo superfluo riportare il giudizio negativo dell'insegnante, fortunatamente di quelli con la i maiuscola. La preposizione - come leggiamo nel dizionario Sabatini Coletti - è quella «parte invariabile del discorso che, preposta a elementi lessicali, mette in relazione i diversi costituenti della frase».
E visto che siamo in tema di proposizioni (o frasi) evitate – se desiderate scrivere forbitamente – di adoperare l'avverbio onde seguito da un infinito (anche se "avallato" da alcuni vocabolari e usato da firme eccellenti): ti scrivo onde avvertirti del mio arrivo.
Si dirà, correttamente, ti scrivo per avvertirti del mio arrivo. Sì, siamo caduti nella pedanteria, ma non importa.
Onde, è bene ricordarlo, è un avverbio di luogo, precisamente di moto da luogo, è il latino unde e vale da dove; non ci sembra corretto adoperarlo, quindi, per introdurre una proposizione finale o causale. Non è, insomma, una parolina multiuso anche se molte così dette grandi firme non si fanno scrupolo alcuno dell'uso improprio.
Abbiamo sempre detto, infatti, che non tutti gli scrittori sono linguisti e che non tutti i giornalisti sanno adoperare la lingua a dovere. Voi, amici, seguite chi volete; se desiderate, però, scrivere (e parlare) correttamente diffidate di queste firme illustri.

martedì 25 settembre 2018

Piccolo dizionario di parole "difficili"


Briologia - Sostantivo composto con le voci greche "bryon" (muschio) e "logìa" (studio). Branca della botanica nella quale sono descritti e studiati i muschi.

Bromologia - Sostantivo tratto dalle voci greche "bròma" (cibo, alimento) e "logia" (studio, discorso). Trattato sugli alimenti.

Cachessia - Sostantivo. Dal greco "kakòs" (cattivo) e "exis" (condizione, disposizione). Indica lo stato di salute di un individuo il cui organismo è indebolito, denutrito per il cattivo "funzionamento" dello stomaco.

Callido - Aggettivo. Dal latino "callidus" (scaltro, astuto).

Consentaneo - Aggettivo tratto dal latino "consentaneus" (da 'consentire') e vale conforme, conveniente, confacente, coerente.

Docimastica - Sostantivo, variante di docimasia, dal greco "dokìmasìa" (esame, esperimento, prova). Indica l'«arte» di analizzare i minerali.

Entomologia - Sostantivo formato con le voci greche "èntomon" (insetto) e "logia" (studio, discorso). Branca della zoologia che si occupa degli insetti.

Etopea o etopeia - Sostantivo. È una figura retorica mediante la quale si indicano, si rappresentano il carattere, l'indole, l'agire, i costumi di un individuo. Dal greco "èthos" (costume, indole) e "poièo" (rappresento, faccio).

lunedì 24 settembre 2018

Sgroi - "Se sarebbe così gentile da farci strada..." Corretto o sbagliato?


di Salvatore Claudio Sgroi*

Nella rubrica linguistica di "Uno mattina in famiglia" in RAI-1 di domenica 23 è stato chiesto a Francesco Sabatini se la frase (1) "Se sarebbe così gentile da farci strada..." messa in bocca a due persone che si rivolgono a una terza sia corretta, o se non si debba invece dire (2) "Se fosse così gentile da farci strada...".
Il sospetto che la frase (1) "Se sarebbe così gentile da farci strada..." sia sbagliata dipende dal ritenere il "se" una congiunzione ipotetica. La frase (1) incriminata implica invero in quella particolare situazione comunicativa l'ellissi pragmatica di una frase reggente come "le chiedo". Si tratta quindi di una dubitativa (o interrogativa indiretta o dipendente argomentale) al condizionale con valore di futuro potenziale. Ed è quindi corretta.
Sabatini ha timidamente avanzato l'ipotesi del "se" dubitativo con tale ellissi ("si può sottintendere": "le chiedo"). Ma l'ha scartata ("direi di no") in quanto gli "suona male".
Nel contempo ha anche avanzato una seconda  possibilità espressiva, la frase (2) "Se fosse così gentile da farci strada ...", ovvero protasi di un periodo ipotetico della possibilità, con ellissi della principale (apodosi) per es. "saremmo contenti". E ciò probabilmente in ossequio all'imperativo scolastico del " 'se' ipotetico + congiuntivo e non il condizionale".
Il periodo ipotetico (2) "Se fosse così gentile da farci strada..."  abbreviato con l'ellissi della principale risulta però meno naturale, più forzato, rispetto all'enunciato col "se" dubitativo (1) "Se sarebbe così gentile da farci strada...".
Adottando poi la tattica dell'evitamento del "se" col condizionale, Sabatini ha suggerito un terzo periodo ipotetico: (3) "Sarebbe così gentile da farci strada se glielo chiedessi?". Dove la principale (l'apodosi) è nel contempo interrogativa diretta, con innalzamento del tono della voce, assente invece nella interrogativa indiretta (1). Ma la frase (3) risulta ancora meno naturale della (2), con valore metalinguistico più che linguistico rispetto alla (1)
In conclusione, i tre enunciati sono tutti corretti, con diverse sfumature semantiche: richiesta naturale indiretta, cortese, la (1) col "se" dubitativo con il condizionale; richieste più formali, la (2) e la (3) col "se" ipotetico con il congiuntivo, più forzata la (3) in quanto con valore più metalinguistico che comunicativo.

Qui l'intervento di Francesco Sabatini

* Docente di linguistica generale presso l'Università di Catania


domenica 23 settembre 2018

Complemento di paragone o complemento partitivo?


Molti studenti - dovendo fare l'analisi logica di un periodo - non riescono a distinguere il complemento di paragone da quello partitivo (le due espansioni o determinazioni sono, infatti, simili perché introdotte entrambe dalla preposizione [semplice o articolata] "di"). Che cosa fare, allora, per "districarsi"? Semplice. Basta rammentare che il primo (il complemento di paragone) dipende da un comparativo ("comparare", "paragonare", "confrontare"), vale a dire da un confronto di maggioranza o di minoranza fra due termini: il fiume Po è più lungo del Tevere (si paragona, infatti, la lunghezza del Po con quella del Tevere); gli amici di Paolo sono piú ricchi di quelli di Giovanni. Il Tevere e quelli (di Giovanni) sono, dunque, complementi di paragone. Il secondo complemento, quello partitivo, si ha in dipendenza di un superlativo relativo, vale a dire di un aggettivo che eleva al massimo grado una qualità di un solo elemento (rispetto all'insieme): Giovanni è il piú studioso degli alunni; questo quadro è il piú bello di tutti; questa automobile è la meno cara di tutte. "Il piú studioso", "il piú bello" e "la meno cara" sono superlativi relativi di conseguenza "degli alunni", "di tutti" e "di tutte" sono complementi partitivi.

***

Piccolo dizionario di parole "difficili": atrabiliare. Aggettivo denominale, da atrabile, composto con le voci greche "àtra" (nera) e "bìlis" (fiele). Si dice di persona che è costantemente di pessimo umore, irascibile, collerica.

sabato 22 settembre 2018

L'italiano perduto e quello ritrovato


Daniele Scarampi "incontra" Vittorio Coletti, accademico e consigliere  dell'Accademia della Crusca, sul sito della Treccani.

***

Riproponiamo un vecchio articolo sull'uso non ortodosso di tre verbi: iniziare, riaprire e presiedere.

venerdì 21 settembre 2018

Lettera aperta alla redazione del vocabolario Treccani


Cortese Redazione, "sfogliando" il vocabolario in rete, al lemma "-ale", abbiamo letto: «-ale. – Suffisso usato nella terminologia chimica per indicare la presenza, in un composto organico, di un gruppo aldeidico, come in citralegeraniale, ecc.». Riteniamo sia il caso di ampliare la "dicitura" del lemma in oggetto perché il predetto suffisso (anche "-iale" e "-uale), dal latino "alis", serve principalmente per la formazione di aggettivi derivati da sostantivi che indicano uno stato, un'appartenenza, una condizione, una relazione: autunnale, collegiale, intellettuale ecc. Si usa anche per formare sostantivi derivati da altri sostantivi: viale, portale, grembiale. Si adopera anche, con valore "accrescitivo", in alcuni sostantivi denominali maschili: piazzale. Certi che la nostra segnalazione sarà tenuta nella dovuta considerazione, ringraziamo e porgiamo distinti saluti. F.R.

***

Alcune persone, anche quelle cosí dette acculturate, credono che nientedimeno e nientemeno abbiano il medesimo significato e adoperano, quindi, i due termini indifferentemente. No, hanno accezioni e usi diversi. Il primo, avverbio e congiunzione avversativa, sta per tuttavia, non per tanto. Il secondo è solo avverbio e significa nondimeno. Si possono adoperare indifferentemente solo nelle esclamazioni perché entrambi indicano, in questo caso, l'idea di meraviglia: ha scomodato, nientemeno, il direttore; sei corso subito? Nientedimeno!

giovedì 20 settembre 2018

Finalmente si è ammansata...


Forse pochi sanno che ammansire appartiene alla schiera dei verbi sovrabbondanti avendo il "gemello" ammansare - probabilmente poco conosciuto e, quindi, poco usato -  della I coniugazione e con il medesimo significato, appunto: calmare. Sono entrambi transitivi. Va da sé che il presente indicativo di ammansare è io ammanso e quello di ammansire è io ammansisco, con l'inserimento dell'infisso "-isc-". Si può dire benissimo, quindi, "Giulia, finalmente, si è ammansata", con buona pace di qualche "linguista d'assalto".

***

Ai tempi della scuola ci hanno insegnato molte “inesattezze”, come quella che il gerundio non si può adoperare se non si riferisce al soggetto della proposizione reggente e non si può trovare a inizio di frase. Niente di piú “falso”, lo sostiene Francesco Sabatini (già presidente della “Crusca”) rispondendo a un quesito di un lettore.

Il lettore ci pone un quesito che rivela, ancora una volta, come le spiegazioni approssimative di molti libri di grammatica (desiderosi di essere soprattutto brevi) possono creare dubbi d’ogni sorta. La regola che mette in guardia dall’usare, in una frase implicita, il gerundio riferito a un altro soggetto che non sia quello della frase reggente, gli è stata forse presentata in maniera tanto cieca da fargli supporre che, tolto questo caso, il gerundio non si possa usare. Quella regola invece si completa dicendo che il gerundio di una frase implicita può riferirsi anche a un soggetto diverso da quello della reggente a patto che quel soggetto venga introdotto, con un nome o un pronome: la frase citata come difettosa – Essendo tu un bravo studente, io ho stima di te – è invece assolutamente corretta. C’è un solo accorgimento da rispettare: il soggetto di un gerundio non riferito al soggetto della frase reggente va posposto al gerundio (Essendo tu …; non Tu essendo, una posizione accettata nell’uso antico, che oggi suonerebbe aulica). È chiaro che quest’uso è proprio di uno stile un po’ ricercato, dal momento che più comunemente si dice: siccome sei un bravo studente, … o visto che sei …. Esistono poi altri casi di non “coreferenza” del gerundio al soggetto della frase reggente: quando si mette al gerundio un verbo impersonale (Piovendo a dirotto, non siamo usciti di casa); quando si introduce un cosiddetto “soggetto generico” (Ripensandoci, le tue parole non mi sono piaciute; cfr. L. Renzi, Grande grammatica italiana di consultazione, vol. II, Bologna, Il Mulino, 1991, pp. 572-574), meglio ancora quando un soggetto generico del gerundio si associa a una reggente impersonale: (sbagliando, s’impara)».


mercoledì 19 settembre 2018

Violazioni delle norme grammaticali in articoli giornalistici, in testi burocratici e di narrativa


Un articolo di Luigi Spagnolo, sul sito della Treccani, circa le violazioni vere e proprie della norma grammaticale da parte di giornalisti, saggisti, scrittori, burocrati ecc.

***

 Da un giornale in rete:

A Rebibbia si è recata il procuratore aggiunto Maria Monteleone, coordinatore del pool dei magistrati che si occupa dei reati sui minori.

------------------

L'estensore dell'articolo probabilmente non sa che in lingua italiana esistono i regolari femminili procuratrice e coordinatrice. Ora lo sa.

***

La parola proposta da questo portale e a lemma - sembra - solo nel Palazzi: acciaccinare. Verbo che vale "affaccendarsi in qualcosa con poco (o senza) profitto".

martedì 18 settembre 2018

Si è d'accordo "su" o d'accordo "con"? Dipende...


Da "Domande e risposte" del sito Treccani:

È corretto dire "non sono d'accordo con ciò che dici"? Alcuni dicono la preposizione "con" non sia corretta.

RISPOSTA

Lei non dia retta a chi la consiglia male: si può essere d’accordo “in” (siamo d’accordo in tutto e per tutto), “con” (sono d’accordo con te [persona] ero d’accordo con ciò [cosa] che dicevano), “su” (su questo siamo tutti d’accordo?) “per” (siamo d’accordo per stasera [sottinteso: vederci, sentirci, incontrarci ecc.]).

----------------------------

A nostro avviso la risposta sarebbe piú comprensibile se articolata cosí: si è d'accordo CON qualcuno; si è d'accordo SU/IN qualcosa. Sono d'accordo CON Luigi SU quanto ha detto. La preposizione "con" dell'esempio della redazione «ero d'accordo con ciò [cosa] che dicevano» non ci sembra "appropriata". D'accordo, insomma, segue la stessa norma che regola il verbo "concordare": si concorda CON qualcuno SU qualcosa. Il verbo in oggetto può essere sia transitivo sia intransitivo. Nel primo caso acquista il significato di comporre una divergenza, superare contrarietà: dopo estenuanti trattative le parti hanno concordato UN periodo di riposo. Nel secondo caso (concordare) assume l'accezione di "coincidere": le tue idee concordano (coincidono) CON le mie. Quando il suddetto verbo, però, sta per convenire, essere d'accordo si costruisce con le preposizioni SU o IN per le cose e con la preposizione CON per le persone: concordo CON te SU quanto hai esposto; concordo CON te IN tutto e per tutto.

***

La parola proposta da questo portale: fengofobia. Sostantivo femminile con il quale si designa la paura, l'orrore per gli oggetti eccessivamente luminosi. È composto con le voci greche "phéggos" (luce) e "phobie" (paura, timore).


lunedì 17 settembre 2018

Delitto e reato: sinonimi?

Il delitto "comprende" un qualunque reato. Compiono un’azione delittuosa, dunque, tutti coloro che, come dice l’etimologia del termine, vengono meno al dovere e commettono una mancanza. Il delitto sotto il profilo etimologico è il latino “delictum” (crimine, derivato dal supino del verbo “delinquere”). Il verbo latino, a sua volta, è composto della particella “de”, con valore intensivo e del verbo “linquere” (lasciare indietro, mancare e, per tanto, venir meno al dovere, commettere una mancanza, una colpa). Da delitto, per estensione, abbiamo “delinquente”, colui che si allontana dalla retta via. Due parole sul reato, da molti considerato sinonimo di delitto. Il reato, in realtà, ha un’etimologia diversa, provenendo dal latino “reus” (imputato), tratto, a sua volta da “res” (cosa) che costituisce la “premessa”, cioè il debito per il quale il reo (il colpevole) è chiamato a comparire davanti al giudice. In proposito ci piace riportare un pensiero dello scrittore francese Balzac: «I delitti sono proporzionati alla purezza della coscienza e quello che per certi cuori è appena un errore per alcune anime candide assume le proporzioni di un delitto».

***

La parola proposta da questo portale e  "lemmata" non in tutti i vocabolari dell'uso: sbiobbo. Aggettivo e sostantivo. Si dice di persona piccola, deforme e rachitica. Si veda anche qui.

domenica 16 settembre 2018

Curiosità idiomatiche


Vi siete mai chiesto/i perché chi uccide su commissione era/è chiamato "sicario", oggi sostituito dal termine barbaro "killer"? Perché la persona che compie questa "missione" era fornita di "sica", vale a dire di un pugnale atto a sgozzare le vittime designate. Oggi questi "professionisti" dispongono di armi piú moderne, ma il termine antico è rimasto.

L'abito talare - chi non lo sa? - è la veste indossata dai religiosi. Ma tale abito può essere portato anche da persone che non hanno niente che vedere con la religione. Perché? Perché questo indumento indica una veste lunga fino alle calcagna. Viene, infatti, dal latino "talus" (tallone). Potremmo dire, quindi, stando all'etimologia, che alla prima alla Scala tutte le signore erano in abito talare.

La vacca e la mucca, cioè la femmina dei bovini adulti, pur essendo parole sinonime hanno "origini etimologiche" completamente diverse. La vacca è pari pari il latino "vacca". La mucca, invece, è il germanico-elvetico Mücken (moscerino).  Sembra che i Lanzichenecchi e i mercenari svizzeri - calati nel nostro Paese - trovassero le nostre vacche gracili e placide in confronto alle loro e le chiamarono, appunto, "moscerini" (Mücken). Il termine si diffuse rapidamente in tutta la Penisola e venne italianizzato in mucche.

***

Ecco uno dei tanti vocaboli che pure avendo la medesima grafia cambia di significato secondo la pronuncia (ortoepia): foro. Pronunciato con la "o" aperta (fòro) questo sostantivo indica la piazza dell'antica Roma, oggi designa il tribunale; con la "o" chiusa (fóro) si intende un'apertura, un buco. Quindi: Giulio è un principe del fòro (tribunale); Claudio ha fatto un fóro (buco) nel muro per farvi passare il filo del telefono.

Due parole sull'uso del verbo rimbalzare. È un verbo intransitivo della I coniugazione e si può coniugare con entrambi gli ausiliari (essere e avere) quando è adoperato assoluto (da solo): il pallone, lanciato con poca forza, non ha/è rimbalzato subito. Prenderà l'ausiliare essere quando è indicato il luogo del rimbalzo: il pallone è rimbalzato oltre la linea del campo.

giovedì 13 settembre 2018

L'avventora e la difensora

Facciamo un po’ di chiarezza sulla formazione del femminile dei nomi (o sostantivi) la cui terminazione è “-tore”; vedremo fra poco il perché di questa scelta. I sostantivi in “-tore”, dunque, generalmente indicano la professione o l’occupazione sociale: pittore, direttore, uditore, imprenditore, scrittore, lettore, governatore ecc. Questi nomi – secondo la regola generale – formano il femminile mutando la desinenza del maschile “-tore” in “-trice”: pittore, pittrice; attore, attrice; imprenditore, imprenditrice. Non mancano, come sempre, alcune eccezioni come pastore il cui femminile è ‘pastora’; tintore, ‘tintora’; avventore, ‘avventora’. Solo l’uso di un buon dizionario e la lettura costante di ottimi autori possono sciogliere i dubbi che spesso ci assalgono quando dobbiamo “femminilizzare” alcuni nomi che indicano professioni.  Ci  è capitato di leggere, non ricordiamo dove, una ‘fattrice’ in luogo di fattora. Forse l’errore è spiegabile con il fatto che l’articolista ha voluto applicare la regola dei nomi in “-tore” e, giustamente, il fattore è diventato ‘fattrice’, facendoci pensare, però, a una donna che fa le fatture, non alla moglie del fattore o a una donna proprietaria di una fattoria. Se costui avesse consultato un buon vocabolario non sarebbe caduto in questo ridicolo errore. La nostra lingua, amici, è piena di  insidie; non bisogna mai essere sicuri di nulla e un bagno di umiltà eviterebbe a molte cosí dette grandi penne di cadere nel baratro (linguistico). Ma torniamo al femminile occupandoci dei nomi in “-sore”. Anche se siamo "sbugiardati" dai vocabolari consigliamo "difensora", in luogo di difenditrice, per il femminile di difensore. ‘Questo sostantivo, contrariamente alla regola che stabilisce che il femminile dei sostantivi in “-sore” si ottiene mutando la desinenza del maschile in “-itrice (persuasore, ‘persuaditrice’; recensore, ‘recensitrice’) ha il femminile, per l’appunto, in “sora”: difensora. Difenditrice è, propriamente, il femminile di difenditore, anche se non molto comune.

mercoledì 12 settembre 2018

Sbandare e sbandire


Si presti attenzione ai due verbi del titolo, ché non sono sinonimi, come alcuni, erroneamente, credono. Il primo, della prima coniugazione, può essere tanto transitivo quanto intransitivo. Usato transitivamente sta per "inclinarsi su un fianco" (dar di banda) e si dice di imbarcazioni, di veicoli o di ciclisti che, appunto, si inclinano su un fianco: la barca, per il mare agitato, sbandava. Si usa anche nella forma riflessiva con l'accezione di "uscire dai ranghi": finita l'assemblea, tutti si sbandarono. Adoperato intransitivamente e riferito a un veicolo che va un po' di qua e un po' di là richiede l'ausiliare avere: l'auto ha sbandato a causa della velocità. Il secondo, sbandire, della terza coniugazione, è la forma intensiva di bandire e significa "mandare in esilio". In alcuni tempi si coniuga inserendo l'infisso "-isc-" tra il tema e la desinenza: noi sbandiamo, essi sbandiscono. 

***

Chissà per quale motivo l'autorevole DOP, Dizionario di Ortografia e di Pronunzia, al contrario degli altri vocabolari, ritiene il sostantivo vice solo maschile e non epiceno (ambigenere) e non specifica che è invariabile.

martedì 11 settembre 2018

Sgroi - Il "mio" Nencioni, linguista "puro" (non purista)


Il prof. Salvatore Claudio Sgroi, dell’università di Catania, ricorda il presidente emerito dell’Accademia della Crusca, Giovanni Nencioni, a dieci anni dalla scomparsa.

di Salvatore Claudio Sgroi

 1. Chi era Giovanni Nencioni?
Come emerge dalla nutrita bibliografia (1929-2003) in rete nel sito dell'Accademia della Crusca,  Nencioni si caratterizza innanzi tutto come studioso di formazione giuridica (1929-1935), laureato con P. Calamandrei nel 1932 e tesi edita nel 1935, con una promettente carriera di giurista però non proseguita.
Poi, per 10 anni (1936-1946) funzionario al Ministero della P.I., ministro G. Bottai.
Quindi, per un altro decennio (1939-1950) glottologo, allievo di V. Bertoldi, e prof. di Glottologia nel 1944-45, a Roma, al posto dell'epurato Antonino Pagliaro.
Nel successivo cinquantennio -- 1950-2000 -- prof. di Storia della lingua italiana a Bari e a Firenze, e di Linguistica Italiana a Pisa. Per oltre un trentennio (1972-2000) presidente alla guida dell'Accademia della Crusca.

1.1. Autore di saggi "aperti" avveniristici
Nencioni è autore di oltre 250 titoli, con netta preferenza per saggi capaci di intravedere e additare strade per la futura ricerca, rispetto a opere sistematiche o manualistiche.
Saggi che lo definiscono: a) storico della lingua italiana (da Dante ai giorni nostri), b) storico del pensiero linguistico italiano (dal '500 ai giorni nostri), c) filologo tout court di testi del '500 e del '900.
Ma qui mi piace privilegiare il linguista teorico, la cui formazione giuridica e glottologica lo mette al riparo da ogni tentazione "neo-puristica".
Poche citazioni testuali -- spesso anti-convenzionali e tutt'altro che eufemistiche -- servono a definire il suo orizzonte teorico sul linguaggio umano e le lingue storico-naturali.

2. L'oggetto della linguistica
L'oggetto della glottologia/linguistica è per Nencioni la realtà linguistica, ovvero la lingua della eterogenea e mobilissima collettività dei parlanti nella triplice funzione bühleriana rappresentativa, comunicativa ed espressiva. Saussurianamente la lingua, oltre ad essere "una delle istituzioni umane", è un complesso di elementi interdipendenti e coerenti, che formano un tutto unitario, risultante dalla compenetrazione di tre sistemi (fonetico, morfo-sintattico e lessicale). Il cui funzionamento è caratterizzato da un "dinamismo metabolico" con tendenze innovative del singolo parlante, dettate da cause interne ed esterne, e innovazioni che devono trovare compatibilità strutturali e sociali nel tempo e nello spazio.

2.1. Caratteri del linguaggio verbale
Illuminanti, decisamente anti-convenzionali, certe sue definizioni delle proprietà del linguaggio verbale. Da quella più neutrale: «la lingua propriamente detta viene usata, prima o poi, a tradurre tutte le esperienze umane», a quella, certamente, meno convenzionale e più sorprendente: «una lingua intera deve disporre di mezzi per significare tutti i sentimenti e le idee dell’uomo, anche i più abbietti», ovvero in termini più crudi e meno eufemistici: «una lingua veramente comune deve essere in grado di dar voce a tutta l’esperienza d’un popolo, anche ai gerghi, al turpiloquio e alla bestemmia».

2.2. Lingua vs teoria linguistica
Nel rapporto tra lingua e teoria linguistica, se la teoria dev'essere coerente, priva di contraddizioni, e semplice, la sua adeguatezza rispetto all'oggetto è sempre relativa e approssimativa. In termini icastici Nencioni dichiara ai lettori de "la Crusca per voi": «Le lingue naturali non sono algebriche e danno scacco matto ai grammatici e ai loro volenterosi settatori. Mi verrebbe la voglia di maledirle se non fossi loro creato e vassallo». E così continua: «Per superare le ambiguità, le arcaicità, le lacune che la affliggono, e rendere chiara, univoca, attuale la comunicazione [la lingua] confida nell’intuito, nelle capacità d’integrazione e d’interpretazione, nella collaborazione insomma dell’interlocutore e del lettore. Essa è un atto non di sola intelligenza ma di vita, non di sola comunicazione ma di comunione».

3. Ruolo dell'insegnante e della Scuola nell'educazione metalinguistica e linguistica
Qual'è il ruolo dell'insegnante dinanzi alla continua variabilità della grammatica della lingua e alla tendenziale fissità della grammatica dei grammatici? «La grammatica della lingua -- avverte Nencioni --è più ampia e più mobile di quella dei grammatici».
Secondo Nencioni, per quanto riguarda l'educazione meta-linguistica, lo studio cioè della grammatica teorica, «L’insegnante di lingua potrà profittare di questo stato di agitazione [dell’italiano] non per violare la norma necessaria o per rinnegarla, ma per spiegarne la natura e per togliere di mezzo tante false regole grammaticali enunciate da una tradizione razionalistica e restrittiva, ripristinando le flessuose libertà di cui la nostra lingua godeva in antico e che, represse nello scritto, si sono mantenute nel parlato».
Riguardo invece all'educazione linguistica, al potenziamento cioè della competenza della lingua a livello di comprensione e produzione, parlata e scritta, per Nencioni, "Soltanto la scuola può dare al giovane la consapevolezza del suo primo bene, la lingua; soltanto la scuola può insegnargli, fuori di un utopistico spontaneismo, a conquistarla e dominarla pienamente nei suoi vari registri, orali e scritti, e può infine mantenerlo in contatto coi testi ‘classici’, del nostro passato".

3.1. Norma ed errore
Qual'è la soglia che separa la norma dall'errore per Nencioni? "Una giusta spregiudicatezza nei confronti della norma e dell’errore, -- sostiene Nencioni -- e la capacità di trasformare i dubbi in problemi suscitando nei giovani la responsabilità della lingua che li realizza come individui e come cittadini, sono frutto di una cultura storica e tecnica che l’Università – dobbiamo riconoscerlo – non ha saputo, fino ad oggi, impartire ai futuri insegnanti".
Se Nencioni da un lato non può non ritenere come scorretti gli usi poco comunicativi della lingua da parte di qualsiasi tipo di parlante, dall’altro non ha dubbi nello stabilire la soglia da non superare per non incorrere nell’errore. Tale soglia è costituita dal cosiddetto «italiano popolare», ovvero nella sua 'tastiera' (o architettura) della lingua nazionale, dall'«italiano deficitario» o «italiano selvaggio».

3.2. Nencioni e gli esotismi
Quanto al problema degli esotismi, ovvero degli angli(ci)smi, la sua posizione è 'laica', libertaria dinanzi agli anglicismi tecnologici in quanto internazionalismi: «nel mondo scientifico e tecnologico in cui viviamo fare opera di purismo linguistico (...) -- sostiene Nencioni -- equivarrebbe a chiudersi in una cultura nazionalistica, inconcepibile, se non come determinazione politica, nella cultura internazionale e scientifico-tecnologica cui oggi partecipiamo».
L'Autore ribadisce ciò col richiamo allusivo a Machiavelli: «un isolamento puristico della lingua nazionale è -- scrive Nencioni -- improponibile, anche perché un antico fiorentino ci ha autorevolmente insegnato che ‘le lingue non possono esser semplici, ma conviene che sieno miste con l’altre lingue’».
Quanto agli anglicismi comuni, di moda, transeunti, egli ritiene che tale problema rientri nell'ambito dell'Educazione linguistica, che deve perseguire il fine di un insegnamento di una lingua consapevolmente chiara e rigorosa, i cui esempi dovrebbero essere forniti dai mass media cartacei e radio-televisivi.

4. Il credo epistemologico di G. Nencioni
In conclusione, volendo definire l’orizzonte epistemologico di Giovanni Nencioni, si può pertinentemente attribuire a lui quanto egli scrisse a proposito del classicista Giovanni Puglisi Carratelli, propugnatore di una «concezione umanistica del conoscere scientifico» ispirata a Ippocrate e a Tucidide, caratterizzata da tre momenti distinti ma inseparabili: a) interpretazione del passato (anamnesi), b) intelligenza del presente (diagnosi), c) previsione per comprendere il presente (pronoia), rinunciando nel contempo al miraggio di una conoscenza totale della realtà, ovvero con la consapevolezza del carattere relativistico del sapere, che è sempre relativo ai criteri di interpretazione del divenire umano.

(Per le fonti delle citazioni cfr. S.C.Sgroi, Maestri della linguistica italiana, Alessandria, Edizioni dell'Orso 2017, capp. I-II-III).