martedì 31 maggio 2016

Confarrare

Perché i lessicografi non rimettono a lemma nei vocabolari un bel verbo dal "sapore" aulico, vale a dire confarrare? È un verbo denominale che significa "unire in matrimonio". È tratto dal verbo latino "confarreare" e questo da "farreum" (farro). Per una maggiore comprensione si veda anche qui e qui.

lunedì 30 maggio 2016

«I carceri»


Per la serie "La lingua biforcuta" della stampa segnaliamo questo titolo - che grida vendetta -  di un quotidiano in rete:


Via le prigioni dai centri storici, i nuovi saranno solo in periferia e all'avanguardia: istituti comprati da Cdp


Va da sé che "i nuovi" deve essere emendato in "le nuove" tanto se riferito a prigioni quanto se riferito a carceri. Carcere nella forma plurale è tassativamente femminile: il carcere / le carceri. In proposito si veda questo nostro vecchio intervento. Si veda anche qui (Dizionario di Ortografia e di Pronunzia).


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La parola di ieri proposta da "unaparolaalgiorno.it": campagna.

domenica 29 maggio 2016

Il sospetto...

«Nulla ispira a un uomo tanti sospetti quanto il fatto di saper poco». Questa massima di Francesco Bacone, capitataci, per caso, sotto gli occhi ci ha dato la stura per proseguire il viaggio attraverso la foresta del vocabolario italiano alla ricerca di parole di tutti i giorni, quelle che adoperiamo "per pratica" il cui significato nascosto non è noto a tutti. Il sospetto è una di queste parole. Il significato "scoperto", dunque, si  può apprendere consultando un qualsivoglia vocabolario dell'uso e "scoprire" cosí che detto termine può essere tanto sostantivo quanto aggettivo e che è tratto dal verbo sospettare che significa "dubitare", "supporre", "temere", ma l'accezione "principe" resta quella piú conosciuta, vale a dire "ritenere qualcuno colpevole di qualche misfatto, senza, tuttavia, alcuna prova certa": la polizia sospettava quell'uomo di essere l'esecutore dell'omicidio. Questo, dunque, il significato "scoperto"; e quello "nascosto", vale a dire il significato intrinseco della parola, del verbo? Per scoprirlo occorre rifarsi all'etimologia che ci rimanda al verbo latino "suspectare", intensivo di "suspicere", composto con "su(b)" (sotto) e "specere" (guardare), in senso proprio "guardare dal basso". Chi ha un sospetto, dunque, guarda la persona sospettata dal "basso in alto" e - in senso figurato - la "guarda fissamente a lungo". Insomma, come fa notare Ottorino Pianigiani, «il sospettare sembra "quasi dica guardar sotto la veste per scoprirvi il pugnale nascosto, ma che invece ha il senso originale di "guardar dal basso in alto", presa la similitudine dalla fiera che a muso alzato fiuta il vento, o dal guardar sottecchi proprio di chi guarda con diffidenza». Diffidare, infatti, non è sinonimo di sospettare, anche se meno "forte" di quest'ultimo? E la persona che sospetta non "teme", non "dubita", non "prende ombra"?
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Forse quasi nessuno dei nostri 25 lettori (rubiamo le parole al principe degli scrittori, Alessandro Manzoni) ha mai sentito parlare della topotesía perché pochissimi vocabolari attestano questo termine. Che cosa è, dunque? È un sostantivo femminile di origine greco-latina e vale "descrizione di un luogo non reale, immaginario". È composto con le voci greche "topos" (luogo) e "tithemi" (io colloco,metto, pongo).

sabato 28 maggio 2016

Fare la marionetta

Vi  è mai capitato, gentili amici, di dire o sentir dire da qualcuno «non fare la marionetta», comportati, cioè, da persona seria, assennata? Certamente sí. La marionetta, infatti, come recitano i vocabolari è un «piccolo fantoccio articolato che viene fatto muovere con alcuni fili collegati alle varie parti (braccia, gambe, testa ecc.)» e, in senso figurato o traslato, «persona che agisce meccanicamente, con scarsa serietà o solo perché guidata e incitata da altri». Colui che fa la marionetta si comporta, per tanto, come un fantoccio. Ma vediamo - perché è ciò che ci interessa in questa sede -  l'origine della marionetta da cui è stato tratto il modo di dire. Occorre tornare indietro nel tempo e fermarsi a qualche secolo fa, quando - in onore della Madonna - nelle processioni si portavano grossi e altissimi simulacri rappresentanti la Vergine Maria. Questa usanza era particolarmente sentita a Venezia. Il popolo "battezzò" quei semisacri pupazzi "Marione", vale a dire "grosse Marie"; mentre quelli piú piccoli, indipendentemente dal fatto che rappresentassero la Madonna o altri santi, furono chiamati "marionette", ossia "piccole marione".

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Un'altra parola - che segnaliamo ai nostri cortesi lettori - non a lemma in tutti i vocabolari: diversorio. Sostantivo maschile che vale "alloggio", "ospizio", "albergo".

venerdì 27 maggio 2016

L'aspetto "piú deteriore"

Due parole su un aggettivo che non si può "comparativizzare": deteriore. Molti (tutti?) lo adoperano al grado comparativo, "piú deteriore", non sapendo, probabilmente, che di per sé è di grado comparativo significando "piú cattivo", "peggiore". Viene, infatti, dal latino "deterior", comparativo dell' aggettivo (non documentato) "deter" (cattivo). Coloro, quindi, che dicono (e scrivono) "piú deteriore" cadono in un madornale errore in quanto è come se dicessero "piú peggiore". Questo "piú deteriore", insomma, è quanto di... deteriore si possa leggere in alcuni critici cinematografici che non provano vergogna nello scrivere frasi del tipo «l'attore ha messo in luce l'aspetto piú deteriore di sé». Queste firme eccellenti mettono in luce, invece, l'aspetto "piú deteriore" della loro lingua.

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La parola che proponiamo da questo portale  - non registrata in tutti i vocabolari dell'uso - è il sostantivo deverbale temmirio. Sta per argomento certo, inoppugnabile quindi prova certa, sicura. È tratto dal verbo greco "tecmaíro" (io provo).

giovedì 26 maggio 2016

Essere il portavoce (di qualcuno)

Tutti conosciamo quest'espressione che, in senso figurato, si dice di persona che rende noto il pensiero altrui parlando in sua vece e si adopera, per lo piú, con connotazione spregiativa , con riferimento alla persona che ripete le malignità altrui. La voce non è schiettamente italiana, ma un prestito dal francese "porte-voix" e nel gergo marinaro sta a indicare il megafono, vale a dire quel tubo metallico con l'imboccatura concava alle due estremità, con cui si trasmette la voce da un punto all'altro della nave. Il vocabolo sembra sia del secolo XVII, ma è arrivato a noi solo due secoli fa . Il "Dizionario Enciclopedico Italiano" lo attesta, infatti, nel 1871. Alcuni linguisti ritengono, però, che il vocabolo era in uso da noi già mezzo secolo prima, anche se il significato di "persona maligna" è datato molto piú in là.

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La parola che portiamo all'attenzione dei nostri cortesi lettori è: pappaceci (o pappacece). Sostantivo maschile che sta per "fannullone", "buono a nulla", "scansafatiche". Da questo sostantivo sono nati alcuni modi di dire, si veda qui.

mercoledì 25 maggio 2016

Che amicaglia!

Segnaliamo un sostantivo snobbato dai vocabolari dell'uso (si trova solo qui): amicaglia. Sostantivo denominale femminile. Indica un gruppo di persone che ostenta (o ostentano) amicizia. Si usa, per lo più, in senso spregiativo. È composto con il sostantivo "amico" e con il suffisso "-aglia".

lunedì 23 maggio 2016

I verbi famulatori


Non crediamo di peccare di presunzione se affermiamo che la stragrande maggioranza (tutti?) dei lettori che seguono le nostre modeste noterelle - sul buon uso della lingua italiana - non ha mai sentito parlare dei "verbi famulatori" in quanto l'argomento è snobbato dai sacri testi grammaticali, quelli in nostro possesso, per lo meno. Sono cosí chiamati, dunque, i verbi servili o modali (volere, dovere, potere). Famulatorio è un aggettivo deverbale, non attestato in alcuni vocabolari, e vale "servizievole", "servile" e simili. Viene dal latino "famulatorius", da "famulatus", participio passato di "famulari" (essere disponibile, servizievole). I verbi dovere, volere e potere, dunque, sono famulatori perché sempre "servizievoli" nei confronti degli altri verbi.

domenica 22 maggio 2016

Guarisci? Ti difendi...

Riprendiamo il nostro viaggio attraverso il ricchissimo lessico italiano alla ricerca di parole "di tutti i giorni", quelle che adoperiamo per pratica il cui significato "nascosto", però, non è noto a tutti, fermandoci al verbo guarire. Il significato "scoperto"  - tutti lo sappiamo -  è "recuperare la salute", "rimettersi", "tornare a essere sano" e simili. Quello che non tutti sanno - probabilmente -  è il fatto che il suddetto verbo non è di origine squisitamente latina o, se si preferisce, italiana. Prima di vedere il suo significato "nascosto" ci sembra interessante rilevare che il verbo in oggetto può essere tanto transitivo quanto intransitivo: nel primo caso sta per "rimettere in salute" (guarire qualcuno da o di una malattia, si possono adoperare, indifferentemente, le due preposizioni); nel secondo caso vale "riacquistare la salute", "ristabilirsi": sono guarito ora di (o da) una malattia. E la persona che è guarita, per esempio, dall'influenza che cosa ha fatto? Si è difesa.  Sí, questa l'accezione "nascosta" del verbo che - come dicevamo - non è di provenienza "italo-latina" ma germanica, per l'esattezza longobarda: "warian", alla lettera 'tener lontano', quindi 'difendere'. In origine, infatti, il verbo in esame era adoperato nel significato di "preservare", "salvare", "difendere"; oggi si usa, per lo piú, nell'accezione nota tutti: "far tornare in salute chi è malato". Da guarire - ci sembra superfluo ricordarlo - sono nati i derivati "guaribile" (che può guarire), "guaritore" (la persona che opera una guarigione) e "guarigione" (il ristabilirsi in salute). E a proposito di quest'ultimo termine, è interessante ricordare una massima di Seneca: «Nulla è piú contrario alla guarigione del cambiare spesso i rimedi».

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La parola che segnaliamo "odora" un po' di volgare, ma non lo è: cacume. È cosí denominata anche una montagna dei monti Lepini, nel Lazio.



giovedì 19 maggio 2016

Che taffio ricco!

Ecco un termine - a nostro giudizio poco aulico - non attestato in alcuni vocabolari dell'uso: taffio. Sostantivo deverbale che sta per "ricco banchetto". Proviene, infatti, dal verbo taffiare.

mercoledì 18 maggio 2016

«Oggi» sta per ieri o per domani?

Ciò che stiamo per scrivere sarà censurato – siamo sicuri – da qualche linguista se, per caso, si imbatte in questo sito. Intendiamo parlare della locuzione “quest’oggi” che, a nostro avviso, è errata. Perché? Perché l’aggettivo ‘questo’ è insito in oggi, non c’è alcun motivo, quindi, di specificarlo. L’espressione, infatti, è il latino “hodie”, ovvero “ho(c) die”, “in questo giorno”. Diremo e scriveremo correttamente, quindi, “oggi”, non ‘quest’oggi’. C’è, forse, un ‘oggi’ che significa domani o ieri? Oggi è questo giorno, non quello o quell’altro.

 

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Al secolo…

 
Questa locuzione, che si prepone ai dati anagrafici di attori, scrittori, artisti e in genere ai dati di tutti coloro che usano uno pseudonimo, è tratta dal mondo religioso. I religiosi conventuali che decidono di ritirarsi a vita spirituale abbandonano tutti i beni del mondo materiale, compreso il proprio nome originario acquisendone un altro che non ricordi la “vita materiale” che si sono lasciati alle spalle: fra Giordano, al secolo Pomponio Pomponi. Il secolo – che come sappiamo sono cento anni – rappresenta, in questo caso, la vita del mondo terreno in contrapposizione a quella spirituale. 


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La parola del giorno (proposta da questo portale): metacronismo. Sostantivo maschile. Anacronismo consistente nell’attribuire, erroneamente, a un avvenimento una data posteriore a quella vera.

martedì 17 maggio 2016

(Fare le cose) Alla carlona

Chi non conosce questo modo di dire che vale "grossolanamente",  "alla buona", "senza cura", "in modo trasandato"? Fare una cosa, insomma, senza impegno, approssimativamente, come viene: lavorare alla carlona, vestire alla carlona, studiare alla carlona. Pochi, forse, ne conoscono l'origine. Vediamola assieme. "Carlona", innanzi tutto, è l'adattamento italiano del francese "Charlon", nome dato al re Carlomagno, detto, per l'appunto, re Carlone . Con "carlona" si intendeva "all'antica", "alla patriarcale", "alla buona" in quanto Carlomagno veniva descritto, nei tardi poemi cavallereschi, come un uomo molto semplice, alla buona, quasi "rustico". Un aneddoto spiega magnificamente l'origine dell'espressione. Una mattina Carlomagno aveva invitato a una battuta di caccia - che amava moltissimo - il "gotha" dell'aristocrazia. All'ora convenuta tutti i nobili si presentarono agghindati di tutto punto, con completi appena usciti dalle piú  note sartorie francesi; tutti, insomma, erano vestiti "all'ultima moda". Tra la sorpresa degli astanti, il buon Carlone si presentò, invece, vestito di un abito di taglio contadinesco e di stoffa molto rozza. Da quel momento si disse "vestire alla carlona", per vestire alla buona e, in seguito, per estensione, nacque l'espressione "fare le cose alla carlona", alla buona, appunto, senza il minimo impegno.

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Ecco un altro vocabolo che sarebbe da "rispolverare" e rimettere a lemma: chiamoso. È un aggettivo deverbale, tratto dal latino "clamare" (gridare) e vale "clamoroso", "che fa rumore".

domenica 15 maggio 2016

L'ablutofobia

Cortese dott. Raso,
 per caso mi sono imbattuto nel suo meraviglioso blog: cercavo una regola grammaticale. Ho visto che risponde anche ai quesiti. Ne approfitto per sottoporgliene uno. Mio figlio, grandicello (10 anni), ha una tremenda paura dell'acqua; tutte le volte che deve fare il bagno sono... dolori: piange e si dimena. La domanda è: c'è un termine per indicare questa "malattia" (paura del bagno)? Ho consultato tutti i vocabolari in mio possesso senza venirne a capo perché, onestamente, non so che voce cercare. C'è, dunque, un termine che fa alla bisogna?
Grazie in anticipo.
Giovanni T.
 Forlì
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Sí, gentile Giovanni, c'è un termine, non registrato da tutti i vocabolari dell'uso perché prettamente "scientifico": ablutofobia. È un sostantivo femminile ibrido perché composto con il verbo latino "abluere"  (lavare) e la voce greca "fobos" (timore, paura, panico), letteralmente significa "paura di lavarsi".

sabato 14 maggio 2016

Melograna o melagrana?

Sull' «abbondanza semantica» di questo frutto diamo la parola alla Crusca.

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La parola, di ieri, proposta da "unaparolaalgiorno.it": appercezione.

E quella segnalata da questo portale: obiurgare. Verbo di uso letterario e non comune. È pari pari il latino "obiurgare" e vale biasimare, condannare, rimproverare e simili. Alcuni vocabolari lo ignorano.

venerdì 13 maggio 2016

Le scarpe

Due parole, due, sulle scarpe. La scarpa, usiamo il singolare, non è voce schiettamente italiana, sembra sia arrivata a noi dal germanico "skarpa" (' tasca di pelle', 'sacca di pelle'). Le scarpe, infatti, a ben vedere, non sono una "tasca" in cui si infilano i piedi? Queste "tasche" hanno dato origine a molti modi di dire; citiamo i piú comuni: "non essere degno di lustrare le scarpe a qualcuno", vale a dire essere inferiore; "rimetterci anche le scarpe", rovinarsi economicamente; "mettere le scarpe al sole", morire di morte violenta (e improvvisa); "essere una scarpa vecchia", essere, cioè, una persona considerata inutile; "avere le scarpe che ridono", ossia scucite. Quest'ultimo modo di dire, forse poco conosciuto, si spiega con il fatto che quando si cammina con le scarpe scucite il movimento del piede solleva la tomaia (la parte superiore della scarpa) dalla suola e le scarpe, quindi, sembrano... "ridere".

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A nostro avviso, modestissimo, il vocabolario Treccani (in rete) dovrebbe modificare quanto si legge al lemma "diaconessa":

diaconéssa s. f. [dal lat. tardo diaconissa, gr. διακόνισσα, femm. di διάκονος «diacono»]. – Nell’ordinamento della Chiesa primitiva, donna anziana, per lo più vedova, alla quale era affidata la cura dei malati e dei poveri, oltre che taluni uffici liturgici; in alcune confessioni protestanti moderne, donna con l’obbligo del celibato che si dedica a opere di carità e di assistenza.

"Celibato" si adopera raramente riferito a una donna per la quale il termine appropriato è "nubilato". Sí, il principe degli scrittori, Alessandro Manzoni, ha adoperato celibe riferito a una donna (Perpetua ... aveva passata l’età sinodale dei quaranta, rimanendo celibe) oggi, però...

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La parola proposta da questo portale: sabeismo. Si veda anche qui e qui.

giovedì 12 maggio 2016

L'amico del bus

Probabilmente ci ripeteremo, ma siamo rimasti sconcertati nel sentire, mentre aspettavamo il tram, una discussione tra alcuni studenti che sostenevano la tesi secondo la quale "filobus", sotto il profilo etimologico, significa "amico del bus". Costoro dicevano, infatti, che se "filantropo" significa amico dell'uomo, "filobus" è... amico del bus. Che sciocchezze, giovanotti. A scuola non vi hanno insegnato (si fa  per dire, vista la preparazione linguistica di certi docenti, anche universitari) che c'è filo e... filo? Il filo che forma la parola "filantropo" è un prefisso di origine greca,  "philo", dal verbo "philèo" ('amo'), e serve per la formazione di parole composte che indicano - secondo i casi - "amicizia", "cultura", "amore" per qualcosa: filosofia, "amore per la scienza". L'altro filo, invece, è il latino "filu(m)" e si adopera per la formazione di parole composte che indicano trasporto o comunicazione mediante un "filo": filodiffusione, filovia, filobus.

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Per la serie lingua "biforcuta" della stampa.

Da un quotidiano in rete:

Grave una donna che litiga con un ciclista: "Non puoi andare in bici sul marciapiedi"  

 Sarà il caso di "ricordare" al redattore titolista che il sostantivo 'marciapiede' non appartiene alla schiera dei nomi difettivi, ha un suo regolarissimo singolare: il marciapiede, i marciapiedi.


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Il termine che proponiamo, non attestato in alcuni vocabolari, è: decipiente. Aggettivo deverbale che sta per "ingannatore", "mendace" e simili. È tratto dal verbo latino "decipere" (ingannare).

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La pizza si condisce, si guarnisce o si farcisce? La parola alla Crusca.

 

mercoledì 11 maggio 2016

La corte d'«Assisi»

Pregiatissimo Direttore del portale,
 approfitto della sua consueta e cortese disponibilità per chiederle di pubblicare sul suo  sito - che risulta essere abbastanza seguito - una lettera aperta indirizzata ai lettori amanti della lingua.  L'argomento - fritto e rifritto, come usa dire - è di capitale importanza per me in quanto causa di notti trascorse totalmente in bianco. Mi presento e mi spiego. Il mio nome richiama alla mente, per assonanza, la città del Poverello: Assisi. Al contrario del santo, però, non perdono se prima non giudico. Sono, infatti, la corte d'Assise e, piú in generale, le assise nel significato di "adunanza", "assemblea", "consesso" e simili.  Come tutte le persone che si rispettano tengo moltissimo alla mia identità (e personalità): sono un sostantivo femminile esclusivamente plurale. E le notti in bianco che cosa c'entrano? Vi starete domandando. C'entrano eccome! I cosí detti mezzi di comunicazione di massa - radiotelevisioni e giornali - mi adoperano in modo orrendamente errato: mi "singolarizzano"; ciò è lesivo della mia personalità e turba i miei sonni. Ho deciso, quindi, di narrarvi la mia origine - e il perché del solo plurale - anche se, credo, i piú la conoscano e volutamente la ignorino e anche se so di già che per alcune "grandi firme" del giornalismo sarà come parlare al vento. Però... chissà. I Latini dicevano...  Vediamo, dunque.  Alcuni mi fanno derivare dal sostantivo femminile singolare assisa che significa "seduta" (attenzione: assisa ha anche l'accezione di "divisa", "uniforme" perché è un cosí detto sostantivo polisemico) derivante a sua volta dal verbo "assidersi". Il mio uso, però, è giunto a voi - che mi "fruite" - dalla lingua francese nella forma plurale:  les assises. Perché plurale? È presto detto. Il termine "assises" indicava le "sedute" di un'assemblea nel loro complesso. La corte d'Assise che cosa indica se non le "sedute" di un'assemblea di giudici? Le parole, si sa, corrono di bocca in bocca, dal colto all'ignorante, e molto spesso finiscono con l'essere "storpiate", come nel mio caso. Una mattina, gentili amici, rimasi di stucco sentendo un giornalista del Gr annunciare che «le corti d'Assisi di Roma e di Milano si contendono il processo». Ma non è finita. Un altro giorno, non ricordo su quale quotidiano, lessi che «l'assise del partito è cominciata questa mattina». Confesso che il mio cuore non resse: dovetti prendere un cardiotonico. Sí, la mia personalità - o, se preferite, identità - fu completamente calpestata. Nel primo caso mi hanno pluralizzato senza alcun motivo essendo già plurale; nel secondo caso, invece, da plurale, quale orgogliosamente sono, mi hanno barbaramente singolarizzato. Morale: in entrambi i casi la mia personalità è stata selvaggiamente violentata. Il sostantivo "assise", insomma, è solo plurale. Cosí sono "nato" e cosí voglio restare. Cortesi amici, io non sono come il patrono d'Italia che cristianamente perdona senza giudicare, io giudico, eccome! e le persone le giudico secondo l'uso che fanno di me. Se volete che non vi giudichi negativamente, quindi, e tenete alla mia amicizia, non continuate a usarmi violenza: lasciatemi sempre plurale. Cosí facendo io dormirò sonni tranquilli e voi non sarete tacciati di ignoranza linguistica.
Grazie, signor Direttore.

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La parola che segnaliamo oggi, ripresa dal Treccani, è il verbo codiare, vale a dire seguire qualcuno, pedinarlo, "spiarlo". Essendo un verbo denominale, derivando da coda, a nostro avviso è preferibile la forma arcaica codeare, come si può leggere nel Tommaseo-Bellini.

martedì 10 maggio 2016

La lingua "biforcuta"

Riprendiamo la nostra "carrellata" sulla lingua "biforcuta" della stampa. Dopo l'aggettivo e sostantivo "addetto" che  secondo alcuni soloni di un quotidiano in rete si costruisce con la preposizione "di" e non con la "a", come prescrive la grammatica della lingua italiana, vediamo qualche altro strafalcione.  Cominciamo (anzi ri... cominciamo) dall'avverbio "meno" adoperato, nelle frasi disgiuntive, con il significato (errato) di "no": «La commissione deve decidere se approvare l'emendamento o meno». La forma corretta è "decidere se approvare o no l'emendamento". Il "la", nota musicale, non si accenta mai. Abbiamo letto su un giornale, che non citiamo per carità di patria, che «il segretario del partito ha dato il là alle consultazioni». Il "la" si accenta solo quando ha valore di avverbio di luogo: fatti piú in là. Il verbo impartire significa "dare", "distribuire tra due o piú persone" e non può essere adoperato con l'accezione di "concedere". Il generale,  per tanto,  "impartisce" (cioè "dà") gli ordini; il presidente della Repubblica concede, invece, la grazia, non la "impartisce". Ci è capitato di leggere anche questa smarronata in un articolo di un cosí detto opinionista che si picca di "fare la lingua". Ma forse voleva dire una "boccaccia linguistica". Dite voi, amici, se questa non è una lingua "biforcuta".

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Ancora un termine che ci piacerebbe fosse messo a lemma nei vocabolari dell'uso: lautetrico. Si veda qui e qui.

lunedì 9 maggio 2016

Prendere riviera

La locuzione che avete appena letto, di uso raro, per la verità e quindi  poco conosciuta, ci è stata tramandata dal linguaggio marinaro di un tempo. Si adopera, naturalmente, in senso figurato e significa "essere usciti, finalmente, da una situazione difficilissima" e poter riprendere, anzi," poter cominciare una nuova vita piú tranquilla e serena della precedente". Nel gergo marinaro di un tempo l'espressione si adoperava per mettere in evidenza il fatto  di essere riusciti ad approdare felicemente  ma soprattutto di essere riusciti a riparare in un porto per sfuggire al maltempo e controllare lo stato del natante.

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Segnaliamo un verbo da portare - a nostro giudizio - all'attenzione dei lessicografi per restituirgli il posto che merita nei vocabolari: accerrare. Si veda qui e qui.

domenica 8 maggio 2016

Addetto "di" o addetto "a"?

Secondo i redattori titolisti di un quotidiano in rete l'aggettivo e sostantivo "addetto" si costruisce con la preposizione "di" e non, correttamente, con la "a":

"Fuori servizio", scioperano a Torino gli addetti del commercio e del turismo

Per costoro, insomma, si è addetti "di" qualcosa e non "a" qualcosa, come riportano i migliori vocabolari della lingua italiana. Addetto significa, infatti, "destinato", "adibito". Si dice "adibito di qualcosa" o "adibito a qualcosa"? C'è ancora qualcuno disposto ad accusarci di censurare la lingua "biforcuta" della stampa?

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La parola che ci piacerebbe fosse "rispolverata" e riportata agli... onori dei vocabolari è: palante. Aggettivo deverbale che significa "girovago", "vagante", "vagabondo", essendo tratto dal verbo latino "palari" ('andare di qua e di là').


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Auguri a tutte le mamme lettrici di questo portale
 
 

sabato 7 maggio 2016

Il trillino


Forse ci ripetiamo - e nel caso chiediamo scusa "preventivamente" -  ma vogliamo parlare di un neologismo che ci è venuto alla mente quando siamo stati interrotti nella nostra conversazione con un amico dal trillo del telefono portatile - il "cellulare" - che questi porta sempre con sé. Se apriamo un qualsivoglia vocabolario alla voce o lemma "cellulare" possiamo leggere: "furgone per il trasporto dei detenuti". D'accordo, cellulare significa anche "che riguarda la cellula o le cellule"; il nome, però, non ci sembra appropriato e proponiamo ai lessicografi di mettere a lemma, nei vocabolari, "trillino": Giovanni, prendi appuntamento attraverso il trillino. Comunemente il cellulare è chiamato anche "telefonino", vocabolo composto di cinque sillabe; "trillino", invece, è piú breve (tre sillabe) e piú... onomatopeico. Qualcuno obietterà che il termine proposto non è un neologismo essendo il diminutivo di trillo (voce già attestata nei vocabolari) e, per tanto, abbiamo scoperto l'acqua calda. Non è cosí. E vediamo subito il perché. In linguistica sono chiamate neologismi anche parole da tempo in uso ma... usate con un nuovo significato come, per esempio, "austerità" per indicare una limitazione delle spese e dei consumi. I termini in uso da tempo, ma impiegati con un significato diverso da quello originario sono chiamati "neologismi semantici". Trillino, dunque, a nostro avviso, ha tutti i requisiti previsti dalla "legge linguistica" per indicare quell'aggeggio - oggi tanto "di moda" - che se chiamato cellulare richiama alla mente le cariche delle forze dell'ordine durante i cosí detti anni di piombo. Quando uscite di casa, quindi, non prendete il... cellulare per i vostri affari, sibbene il "trillino".

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La parola proposta da "riesumare" è: lacerío. Sostantivo maschile, vale rimbombo, suono assordante e simili. È un deverbale, tratto da lacerare, sulla falsariga di "mormorio", da mormorare.

venerdì 6 maggio 2016

Sottomettere e sottoporre

Vittorio Coletti (Crusca) sull'uso "corretto" dei due verbi.

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La parola (di ieri) proposta da "unaparolaalgiorno.it": fioretto.
E quella segnalata, anche se desueta, da questo portale: agrofilace. Con questo sostantivo si indicava (indica?), un tempo, una guardia campestre.

giovedì 5 maggio 2016

Povera lingua italiana!


Dal prof. Aldo Onorati riceviamo e volentieri pubblichiamo.

La morte dell'articolo determinativo il

La lingua scritta tradita dalla lingua parlata

Quante pagine di analisi grammaticale alla scuola elementare! Almeno ai miei tempi, quando si doveva esaminare la frase nei minimi particolari – e sia benedetta la memoria di quel modo di imparare a scrivere! - il era articolo determinativo maschile singolare. Il tavolo, ad esempio; il lavoro, il complesso, il dubbio, il treno, il mare, il monte. Ve l’immaginate un bambino (o addirittura un adulto) vergare sul foglio: la tavolo, illa lavoro, illa complesso, la dubbio, la treno, illa mare, illa monte? Bocciatura certa agli esami o, come si usava fino a qualche lustro fa, rimandati a settembre. Eppure, se acuite bene l’udito, vi accorgerete che – specie le donne – in televisione, ai telegiornali, in diversi programmi pure ‘culturali’, oltre alla punteggiatura sballata per cui si saltano i punti fermi e le virgole, magari prendendo fiato dove il discorso è corrente, è invalso (e si sta espandendo) il vezzo ridicolo, dannoso, fastidiosissimo di trasformare l’articolo il, maschile, nel la, femminile. Inoltre si è creato un nuovo ‘articolo’, finora mai sentito: illa. Vi prego di farci attenzione. Non sto scherzando. Non molti lo notano ma, se avvertiti, si accorgono della stortura linguistica e ne sentono il fastidio. Ripeto: non bastava il massacro della sintassi, l’errore nei verbi, l’annullamento della consecutio temporum, il congiuntivo cancellato dalle regole, le pause trasgredite, l’espunzione delle virgole, dei punti fermi, dei puntini di sospensione, del punto interrogativo e di quello esclamativo (per fortuna non tutti i divi della tv stanno a questo livello di sgrammaticatura): è stato creato un nuovo articolo e, di conseguenza, inaudite preposizioni articolate. Povera lingua nostra, già tanto compromessa nella sua purezza per la quale sudarono il padre Dante e Petrarca, Boccaccio, Pietro Bembo, Ariosto, i cruscanti e gli anticruscanti, Pietro Verri, la decoratività del Marino fino a una sorta di disgusto per le polemiche linguistiche, che giunsero perfino allo ‘sciopero della lingua’ fra Sei e Settecento. Accese furono le diatribe fra i conservatori e quelli che accoglievano (italianizzandole) parole di altre nazioni e neologismi adattabili alla nostra parlata cantabile. Oggi prevale un linguaggio misto, non solo nei termini ma anche nella costruzione della frase e del periodo. Anglismi, forestierismi, borborigmi, disarticolazioni del linguaggio e del periodo, idiomi di ‘gruppo’ fra i giovani, impermeabili al nostro udito di lettori di Manzoni, coprolalie gratuite anche nei romanzi di gran voga, idiotismi di ogni genere. E ora, dalla grande mamma Tv, anche un nuovo articolo che lega il femminile al maschile e conia assonanze terribili a orecchie abituate ai lettori del telegiornale e del giornale radio di una volta, selezionati e inappuntabili!

Aldo Onorati


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Ecco un vocabolo che ci piacerebbe fosse "riesumato" e rimesso a lemma nei vocabolari: infrunito.  Aggettivo che vale "dissennato", "stolto" e simili.

mercoledì 4 maggio 2016

Dettagli... e non solo

Dalla dott.ssa Ines Desideri riceviamo e volentieri pubblichiamo.

A mio avviso le locuzioni anche se e se anche non possono essere adoperate indifferentemente.

Nella frase “Se anche tu volessi sparire sei già stato avvistato” mi sembra inevitabile che “anche tu” sia inteso come “tu compreso”, “se anche tu (come altri/insieme ad altri) volessi sparire…”. Poiché il significato non è quest’ultimo, ritengo che sarebbe stata da preferire la forma “Anche se tu volessi sparire…”.

Possiamo esprimere la stessa considerazione per la frase “… e se anche spogliarsi non fosse necessario non ci va più di mescolarci e di stringere quel vincolo…”: “anche spogliarsi”, in aggiunta a quale altra azione (già compiuta)? – verrebbe da chiedersi. Meglio, dunque, “Anche se spogliarsi non fosse necessario…”

“… quelli stessi che li sottomettevano…”:  grave errore, come sappiamo, poiché il pronome dimostrativo  che precede “stessi” deve essere sempre “quegli”, non “quelli”.  Eppure siamo in presenza di un errore piuttosto frequente, giacché mi è capitato di incontrarlo più volte, recentemente, e sempre in scritti di carattere letterario. Cito soltanto un altro esempio, tratto da “Alla ricerca del tempo perduto” (M. Proust – traduzione di G. Marchi): “… quelli stessi che sbadigliano…”.

“… che vede sempre come uno strumento irritante al quale esigere sempre maggior sforzi…”: probabilmente si tratta di un refuso – alla stregua di vedetta anziché vendetta e di “… carattere che non ogni tanto non contraddica se stesso…”, nello stesso libro – ma la preposizione articolata doveva essere “dal” (quale esigere…).

“… doveva avere una vita così vuota ed era così entusiasta che il maestro gli permetteva di riempirla…”: d’obbligo, a mio avviso, l’uso del congiuntivo imperfetto “permettesse”.

Avevo la scusante della gioventù, mi dissi.”: qui troviamo un errore molto più frequente di quanto si pensi, nei testi letterari. In frasi di questo genere – nelle quali si esprime un pensiero del passato e solitamente accompagnate da espressioni quali “mi dissi”, “pensai”, “immaginai” – gli autori (o i traduttori) ritengono opportuno l’uso del tempo passato (l’imperfetto “avevo”, in questo caso), senza considerare che il pensiero, nel momento in cui si presenta, viene formulato nel presente: “Ho la scusante della gioventù, mi dissi.”

“De gustibus…”

Personalmente preferisco che si adoperi il vocabolo “gioventù” per intendere “i giovani” e “giovinezza” per intendere un’età della vita. Tornando, dunque, all’ultima frase citata, a mio avviso la forma migliore sarebbe stata “Ho la scusante della giovinezza, mi dissi.”

“… se fosse visibile o se si trovasse in indumenti intimi…”: una persona “in indumenti intimi” è visibile. La frase risulta, dunque, banale: meglio “presentabile, decoroso, decente,…” o  aggettivi simili.

“… la targa non indicava alcuna specialità…”; “… lo si consultava anche per disturbi che non avevano nulla a che vedere con la sua specialità…”: qui ci troviamo davanti a un esempio simile a “gioventù-giovinezza”. Sebbene il vocabolo “specialità” possa essere adoperato anche in campo medico, perché non preferire “specializzazione”, che a me – in questo caso - pare più appropriato?

Sorvolo, caro dottor Raso, sull’espressione – da lei aborrita – “… nulla a che vedere…”.

“… come potrebbe inferirsi da questo ritratto…” :  non sarebbe meglio “… come si potrebbe inferire (dedurre) da questo ritratto…”?

 “… goderselo nel qui e ora…”: forse l’autore (o la traduttrice) ha voluto ricorrere a un artificio stilistico, ma a me “nel qui” non piace. Trovo, infatti, più efficace – anche sotto l’aspetto puramente stilistico – “… goderselo qui e ora…”.

E ora, caro dottor Raso, a mo’ di ringraziamento per la sua gentile ospitalità, riporto una frase che certamente lei apprezzerà molto:

“… impegnata nell’esercizio che a quei tempi si chiamava, in Spagna, ‘jogging’ o ‘footing’, non saprei, un paese così negato per le lingue in generale quanto propenso ad appropriarsi di termini altrui che non capisce e neppure sa pronunciare.”.

Ehm… paese lo avrei scritto con l’iniziale maiuscola, poiché la Spagna è una nazione.

(Spunti e citazione sono tratti da “Così ha inizio il male” di Javier Marías, traduzione di M. Nicola)

Ines Desideri


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La parola che proponiamo oggi, anche questa relegata nella soffitta della lingua, è: panseleno. Sostantivo sinonimo di plenilunio (fase di luna piena).

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Dal vocabolario Sabatini Coletti in rete:

ossitono

[os-sì-to-no] agg.
  • ling. Di parola di due o più sillabe, che ha tonica l'ultima sillaba SIN tronco (p.e. “città”, “partirò”)
  • In funzione di s.m. (f. -na), parola o.
L'esempio riportato, "parola ossitona", non ci sembra corretto. In questo caso "ossitona" non è sostantivo ma aggettivo.


martedì 3 maggio 2016

Fare il becco all'oca

Ci auguriamo che la maggioranza dei nostri lettori - che da tempo sono in quiescenza  - possano (possa, per i puristi) dire, con la massima onestà, di avere sempre fatto il becco all'oca, ovvero di aver sempre portato a buon fine il lavoro loro affidato. Questo è, infatti, il significato della locuzione, probabilmente poco conosciuta e, per tanto, poco... adoperata. Il modo di dire si usa con una certa enfasi e con un senso di soddisfazione. Per questo ci auguriamo che siano molti i lettori che lo hanno "sperimentato sulla propria pelle". Ma veniamo all'espressione per spiegare la quale ciascuno narra la propria storiella, nessuna però  convincente. Noi riportiamo quella - a nostro avviso - piú credibile narrata da uno dei "notisti" al "Malmantile racquistato",  Paolo Minucci. Questi, dunque, "rende nota"  la storia cantata da Francesco Cieco di Ferrara nel poema il  "Mambriano": «Gli indovini avevano predetto a Licarno, re di Cipro, che sua figlia Alcenia sarebbe diventata prima madre e poi sposa. Il sovrano, al fine di scongiurare questa predizione ed evitare, cosí, il disonore che sarebbe caduto su di sé e sulla sua famiglia, fece costruire un immenso giardino con le mura molto alte e una torre. Dentro la fortezza aveva libero accesso soltanto la governante. Un bel giorno, durante un convivio, un giovanotto ricchissimo, certo Cassandro, figlio del conte Giovanni di Famagosta, fu informato della cosa e disse che con i soldi lui poteva permettersi tutto (corsi e ricorsi "storici", ndr). Licarno, allora, lo sfidò e gli promise che se avesse conquistato il cuore di Alcenia entro un anno gliela avrebbe data in moglie; diversamente lo avrebbe fatto decapitare. Il giovane rampollo non si perse d'animo: si fece costruire una mastodontica oca meccanica, perfetta in tutto, priva, però, del becco. Introdottosi tramite questa nella torre, tra un gioco e l'altro, fece il becco all'oca; poi tornato davanti al re Licarno gli disse che sua figlia era madre prima che sposa. A riprova del 'fatto' fece portare davanti al re l'oca meccanica. Il sovrano,  meravigliatissimo,  esclamò: "È fatto il becco all'oca!". Cassandro, allora, entrò dentro il finto animale per dimostrargli come era riuscito a eludere la stretta sorveglianza e a introdursi nottetempo nella torre. Licandro premiò l'astuzia del giovanotto dandogli in sposa sua figlia incinta». Conclude il Minucci: «È da questa trasformazione di Giove in Cigno che è nato il proverbio "è fatto il becco all'oca", che significa... il negozio è fatto o perfezionato».

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La parola proposta, ma relegata nella soffitta della lingua, è: soffoggiata. Sostantivo femminile. Indica qualche cosa che si porta sotto il braccio "nascosta" dal mantello o dal cappotto. Si veda anche qui.

lunedì 2 maggio 2016

La lingua "acidula" della stampa

Se, per ipotesi, tra le molte leggi e leggine se ne varasse una che interdicesse le persone con scarsa padronanza della lingua italiana - vogliamo peccare di presunzione - dallo scrivere moltissime “penne” della carta stampata (e no) dovrebbero cambiare mestiere. Sì, proprio così. Siamo rimasti scioccati nel leggere su un quotidiano che “fa opinione” il termine “interditore” in luogo della forma corretta “interdittore” (con due “t”). Diciamo subito – a scusante dell’autore (una così detta grande firma) del pezzo incriminato – che alcuni vocabolari non registrano la parola in oggetto. 
Ciò non significa, però, che colui che scrive per il pubblico – diffonde, quindi, la “cultura” – sia esentato dal conoscere la corretta grafia dei termini che adopera. Interdittore, cioè “proibitore”, viene dal latino “interdictor” e divenuto in italiano interdittore, appunto, per la legge linguistica dell’assimilazione: la consonante “c” è stata assimilata dalla “t”. L’assimilazione – forse è bene ricordarlo – è un processo linguistico per cui dall’incontro di due consonanti la prima diventa uguale alla seconda, cioè si “assimila”.
Diverso, invece, è il caso dell’aggettivo “brettone” – che le solite “grandi firme” scrivono erroneamente con una sola “t”. La forma corretta è con due “t” (brettone), non perché in questo caso “entra in vigore” la legge dell’assimilazione linguistica, ma perché il termine viene dal tardo latino “britto, brittonis” dove la doppia “t” è insita nella radice. Bretone, con una sola “t” e che alcuni ritengono grafia corretta, è l’italianizzazione del francese “breton”. Gallicismo che sconsigliamo vivamente se si vuole scrivere e parlare la lingua di Dante in modo corretto. Un'altra prova di quanto affermiamo si ha leggendo questo titolo di un giornale in rete:


Torino, superati i valori di monossido e di acido cloridico

In questo caso il redattore titolista ha dimostrato di aver frequentato con scarso profitto le aule scolastiche. L'acido in questione si chiama "cloridrico", il nome è composto, infatti, con il sostantivo "cloro" (non schiettamente italiano derivando dal francese chlore) e il suffisso "-idrico".

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La parola che segnaliamo è: stronchino. Aggettivo e sostantivo maschile. Si dice di bambino zoppo o privo di qualche arto.

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Lettera aperta alla "Treccani"


altrettanto (ant. altretanto) agg. e avv. [da altro e tanto]. – 

1. agg. Quanto l’altro, nella stessa 
misura di un altro o di altra cosa: cinquanta paternostri con a.avemarie (Boccaccio); ho provato per la tua vittoria a. gioia che se avessi vinto io; la mamma vuole a. bene a te che a me. Usato come pron., con valore neutro, la stessa cosa, la stessa quantità o misura: egli si voltò, e chi lo seguiva fece a.; tu hai speso dieci euro e io altrettanto. E come risposta a un augurio: «Buon appetito!» «Grazie, altrettanto».

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Cortese Redazione,
a mio avviso, modestissimo, andrebbe emendata la dicitura "usato come pronome neutro con valore avverbiale". Altrettanto, oltre che aggettivo e avverbio,  è un pronome a tutti gli effetti e segue le varie flessioni. L'esempio, quindi, "tu hai speso dieci euro e io altrettanto" andrebbe emendato in "io altrettanti (dieci)". Nell'esempio citato "altrettanto" non ha valore neutro, riservato questo agli aggettivi, ma è un pronome a tutti gli effetti.
Cordialmente