mercoledì 31 ottobre 2018

Le parole della neopolitica


Un articolo di Michele Cortelazzo pubblicato sul sito della Treccani.

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Due parole su un vocabolo tronco "bivalente": mal.  Questo termine alcune volte si vede scritto con l'apostrofo, altre volte no. Come mai? L'apostrofo non si mette, ovviamente, lanciando la monetina: testa, apostrofo; croce, no. Vediamo, dunque. Mal è la forma tronca tanto dell'avverbio male quanto dell'aggettivo malo: mal risolto (avverbio); mal partito (aggettivo). Nel primo caso, in funzione avverbiale, non si apostrofa mai: mal accolto (non *mal'accolto); nel secondo caso, in funzione aggettivale, si apostrofa esclusivamente con i nomi femminili che cominciano con una vocale. Quindi: mal'erba ma mal esempio. Concorre, come aggettivo, anche alla formazione di parole composte, alcune delle quali possono essere scritte sia in grafia unita sia in grafia analitica (scissa): malalingua, mala lingua; malafede, mala fede ecc.

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La lingua"biforcuta" della stampa

Laura Sgrò, avvocato dei parenti della ragazza scomparsa nel 1983: "Ci dicano perché il ritrovamento è stato messo in relazione al caso di Emanuela o di Mirella Gregori". Gli operai hanno trovato uno scheletro quasi intero e altri frammenti in un punto diverso.
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Nonostante l'Accademia della Crusca abbia dato parere favorevole sull'uso correttissimo di "avvocata", femminile regolare di avvocato, la stampa continua ad adoperare il maschile avvocato anche per una donna. Quanto a "in relazione al", se non cadiamo in errore, la forma corretta è in relazione con.  E a proposito di avvocato, interessante la nota d'uso di "Sapere.it": Il femminile regolare di avvocato è avvocata e così si può chiamare una donna che eserciti il mestiere di avvocato. È in uso anche avvocatessa, che però può avere tono scherzoso o valore spregiativo, come tradizionalmente hanno avuto diversi femminili in -essa. Alcuni poi preferiscono chiamare anche una donna avvocato, al maschile. Si tratta di una scelta che non ha basi linguistiche, ma sociologiche, e che comunque può creare, nel discorso, qualche problema per le concordanze.

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martedì 30 ottobre 2018

Sull'uso corretto di alcuni verbi


Considerazioni sull'uso corretto - a nostro modo di vedere - di alcuni verbi:

Adottare - Se apriamo un qualsivoglia vocabolario della lingua italiana al lemma in oggetto, leggiamo: prendere come proprio un figlio altrui attraverso l'atto legale dell'adozione. La famiglia Sempronio ha adottato un bimbo africano. È "legittimo" l'uso di questo verbo, dunque, in senso concreto. È "fuori legge" quando si adopera con il significato di "scegliere", "prendere", "attuare" e simili: domani adotterò, al riguardo, una decisione. Una decisione si prende, non si adotta.

Accompagnare - Molto spesso si fa seguire questo verbo dalla preposizione semplice o articolata "a": questa poltrona non s'accompagna al resto dell'arredamento; Pietro s'accompagna sempre a Lucia. La preposizione da adoperare è, invece, "con" (semplice o articolata) perché siamo in presenza di un complemento di compagnia o di unione. Correttamente, dunque: questa poltrona non s'accompagna col (con il) resto dell'arredamento; Pietro s'accompagna sempre con Lucia.

Affacciare - Il significato proprio del verbo è "essere orientato verso un determinato luogo" e, per estensione, "guardare": il balcone affaccia sulla piazza. Alcuni lo adoperano nell'accezione di "formulare", "ipotizzare", "esprimere" e simili. È un uso, questo, da evitare in buona lingua italiana. Un'opinione, un'idea non si affaccia, si esprime.

Elevare - Il verbo in oggetto vale "sollevare", non ci sembra corretto adoperarlo con altri significati come, per esempio, elevare una multa, dubbi, obiezioni. Si dirà correttamente, quindi: suscitare dubbi, obiezioni; infliggere una multa. 

Emettere - Propriamente significa "mandar fuori", "emanare", "produrre". È un francesismo scrio scrio, e per tanto da evitare, il suo uso nel senso di: diffondere, diramare, manifestare, promulgare, proporre ecc. Non diremo, per esempio, emettere una legge; diremo, correttamente, promulgare una legge.

Rimediare - Il significato proprio del verbo è "porre rimedio", "riparare". La stampa, quella sportiva in particolare, lo adopera nel significato di "subire", "riportare" e simili: il giocatore ha rimediato una contusione all'occhio sinistro. In buona lingua diremo: il  giocatore ha subito/riportato una contusione all'occhio sinistro.


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La lingua "biforcuta" della stampa


LA VERTENZA
Cimiteri Napoli, rientra la protesta: revocate le assemblee dall'1 al 4
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Di primo acchito il titolo sembra "perfetto" (privo di strafalcioni). No, non è cosí, l'errore c'è, anche se non dà nell'occhio, appunto. Qual è? La preposizione articolata apostrofata davanti a 1. Per il primo giorno del mese si usa l'ordinale, per i successivi il cardinale (siano essi scritti in lettere o no). Quindi: dal 1 al 4. Vale a dire dal primo al quattro. 1, insomma, nelle date si legge primo e nello scritto si mette l'articolo che si usa nella pronuncia.

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lunedì 29 ottobre 2018

Sgroi - W la grammatica ma "con juicio!"


di Salvatore Claudio Sgroi*

"Viaggio nella Grammatica", referenzialmente sottotitolato "Esplorazioni e percorsi per i bambini della scuola primaria", di Maria G. Lo Duca, edito da Carocci, -- va subito detto -- è un accattivante e 'amichevole' volume fondamentale per gli insegnanti delle scuole elementari (e medie) italiane.
Che poi un testo del genere possa essere utilizzato dai docenti (diplomati-laureati) nella scuola primaria (e secondaria), e adattato alla specificità delle proprie classi, considerata la mancanza nel curriculum, soprattutto per i diplomati, di un corso di Linguistica Generale e di Linguistica educativa, è un problema su cui preferiamo sorvolare.
Che la grammatica, cioè la teoria del funzionamento di una lingua, vada insegnata nelle scuole, anche elementari, è la tesi centrale dell'A. (cap. I "Sulla opportunità di 'fare grammatica' nella scuola primaria"), ed è da intendere come riflessione sugli usi della lingua già posseduta da un bambino (sia nativofono che stranierofono o allofono). La competenza linguistica è il primum su cui innestare elementi essenziali per una competenza meta-linguistica. Per essere ancora più espliciti, studiare il libro di grammatica non serve molto (o affatto) per imparare la lingua nelle diverse abilità (capire e produrre testi parlati e scritti).
Se lo sviluppo di una competenza meta-linguistica è essenziale per sviluppare l'intelligenza del bambino, e più in generale le sue capacità cognitive, è anche vero che occorre tener conto della sua maturazione cognitiva per proporre concetti astratti quali sono quelli di una teoria grammaticale.
Per affrontare tale problema in maniera adeguata (cap. 2 "Quale sillabo grammaticale nella scuola primaria?"), l'A. muove da un lato dai testi ufficiali, di riferimento per l'insegnante, quali sono i "Programmi didattici per la scuola primaria" (1985), le "Indicazioni nazionali per il curriculo per la scuola dell'infanzia e per il primo ciclo d'istruzione" del 2007 e del 2012, nonché il "Quadro di riferimento della prova d'italiano" (2013), ovvero prove Invalsi, -- testi tutti criticamente (benevolmente e costruttivamente) utilizzati. Dall'altro l'A. prende le mosse dalla grammatica tradizionale, nota agli insegnanti, ma qui criticamente rivisitata soprattutto nella direzione della grammatica "valenziale" di L. Tesnière (1959), diffusa in Italia da F. Sabatini (1984, DISC 1997).
Per gli indispensabili approfondimenti grammaticali l'A. segnala agli insegnanti una nutrita bibliografia, pur selettiva (pp. 261-73).
La novità centrale di questo volume è costituita dall'individuazione del sillabo grammaticale (concetti grammaticali con relativa terminologia e loro sequenziazione) alla portata dei bambini, sulla base di interviste a numerose classi con la collaborazione di una quindicina di suoi studenti autori di tesi di laurea ad hoc, puntualmente citati in bibliografia. Il tutto messo a confronto anche con altre ricerche sul campo di altri autori.
Il testo definisce così il sillabo grammaticale nel settore della "sintassi" (cap. 3), della morfologia/morfosintassi (cap. 4, le "categorie lessicali"), della grammatica testuale (cap. 5 "Oltre la frase") e della formazione del lessico (cap. 6 "Dentro le parole").
Per la esemplificazione c'è qui solo l'imbarazzo della scelta. Il "soggetto" non è più "colui che fa l'azione" o "ciò di cui si parla" (p. 143), considerati anche i facili controesempi (Maria ha l'influenza, A Marco piace lo sport), ma il primo argomento che si accorda col predicato verbale (pp. 125, 144).
La tradizionale sfilza di "complementi" è abbandonata a favore della nozione di "argomento" se necessario al senso della frase (es. Maria ha dato "il latte" "al gatto") e "circostante" se eliminabile (es. [domani] andrò in Francia).
Quanto al problema della norma la posizione sostenuta dall'A. è, direi, laica. A proposito del genere grammaticale dei nomi di professione (il/la sindaco, la sindaca, la sindachessa) l'A. dichiara infatti:

"Qui potremmo far notare ai bambini come, di fronte al mutamento delle abitudini della società, anche la lingua cambi per adeguarsi ai nuovi bisogni. Alla fine però, ne possiamo essere certi, prevarrà la forma che i parlanti sceglieranno: i parlanti, cioè noi tutti, compresi quei parlanti molto particolari e molto potenti che sono i giornali, la radio, la televisione" (pp. 165-66).

Riguardo alla definizione del congiuntivo versus l'indicativo (pp. 193-96), l'A. ricorda che la moderna ricerca scientifica "ha definitivamente mostrato come la sistemazione tradizionale -- che assegna all'indicativo il compito di veicolare il certo e il reale e al congiuntivo il compito di codificare l'incerto e il non reale -- non regga [regge] alla prova dei fatti, cioè dei dati linguistici" (p. 193). Nei casi di oscillazione dei modi, sottolinea l'A., "la scelta tra il congiuntivo e l'indicativo è legata a differenze di registro (...)", per es. Credo che tu abbia/hai ragione; Mi dispiace che Maria sia/è andata all'estero; Se fossi venuto sarebbe stato meglio / se venivi era meglio). Sull'opportunità poi di proporre nelle elementari tale riflessione è risultato "decisamente troppo difficile per essere affrontata con qualche possibilità di successo" (p. 195). I bambini infatti "non vedono i fatti formali e semantici sui quali si vorrebbe discutere con loro" (ibid.). Opportuno è invece "spostare tra la II e III media la riflessione esplicita" (p. 196). Un'idea del danno cognitivo costituito in certi casi dalla grammatica tradizionale è fornita dalle spiegazioni di frasi come (1) "sebbene nevichi vado al lavoro" e (2) "anche se nevica vado al lavoro". Per qualcuno la (1) al congiuntivo (modo della irrealtà) "è sbagliata, perché sta nevicando"! Per altri la stessa frase è invece "giusta" perché "sebbene nevichi indica un'incertezza, cioè non si sa se nevica"! (p. 195).
Non meno interessanti le pagine dedicate alla punteggiatura (pp. 228-38), su cui si impone per l'A. una "attività riflessiva mirata", trascurata invece da uno "sciagurato modello didattico" (p. 129).
E ci fermiamo qua.

* Docente di linguistica generale presso l'Università di Catania














domenica 28 ottobre 2018

Piccolo dizionario di parole "difficili" (5)

Agatologia - Sostantivo femminile composto con le voci greche "agatòn" (bene) e "lògos" (discorso). Scienza che studia il bene, la perfezione propria dell'essere intellettivo.

Amitto (o ammitto) - Sostantivo maschile tratto dal verbo latino "amicere" (vestire, coprire). Sorta di fazzoletto che il sacerdote si pone sul collo e sulle spalle, sotto il camice e la pianeta, quando celebra la messa.

Anaglifo - Aggettivo. È tratto dalle voci greche "anà" (sopra) e "glypho" (scolpisco). Si riferisce a un oggetto scolpito a bassorilievo, o intagliato.

Apotegma (o apotemma) - Sostantivo maschile. Breve massima o sentenza che esprime con enfasi una verità importante. È tratto dal greco "apofteggo"  (parlo in modo preciso, conciso).

Balipedio - Sostantivo maschile, indica un luogo destinato alle esercitazioni di tiro, in particolare alle esercitazioni  delle artiglierie. Sostantivo composto con le voci greche "bàllein" (gettare) e "pèdion" (spianata).

Filoneismo - Sostantivo maschile: amore per le cose nuove. Dal greco "philos" (amico) e "nèon" (nuovo).

Pretèrito - Aggettivo tratto dal latino "praeterire" (passare oltre). Vale omesso, passato e simili.

Repente - Aggettivo che sta per "improvviso", "inatteso", "subitaneo". Dal latino "rèpere" (serpeggiare). 

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Due parole sull'uso corretto della preposizione articolata degli. Viene spesso adoperata come articolo partitivo, ma in buona lingua è meglio non abusarne: ho incontrato degli amici che non vedevo da molto tempo. La legge grammaticale ne proibisce l'uso in compagnia di una preposizione: quell'ottimo vino si abbina *con degli antipasti. In questo caso l'uso della preposizione articolata degli è errato perché c'è la preposizione con. Diremo correttamente: quel vino si abbina con alcuni antipasti.


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sabato 27 ottobre 2018

Due verbi adoperati, spesso, impropriamente: procedere e procurare

Non avremo - siamo sicuri - la  "benedizione" dei linguisti (tutti?) se, per caso, si imbatteranno in questo sito. Vogliamo parlare dell'uso improprio - per non dire scorretto - di due verbi: procedere e procurare. Andiamo con ordine. Procedere, come si evince dall'etimologia, significa "inoltrarsi", "avanzare", "proseguire", "continuare" e simili: è impossibile procedere stanti le condizioni atmosferiche. Molto spesso viene adoperato nel significato di "provvedere": abbiamo proceduto alla spedizione di quanto richiestoci; procederemo subito a saldare il conto. In buona lingua ci sono altri verbi che fanno alla bisogna come "provvedere", appunto, "effettuare" e simili. Quest'uso improprio (ma a parer nostro scorretto) lasciamolo al linguaggio burocratico. E veniamo a procurare. Questo verbo - secondo l'etimologia - vale "fornire", "ottenere", "trovare", "procacciare", "custodire" e simili: mi puoi procurare un biglietto per lo stadio? Alcuni lo adoperano nell'accezione di "cagionare", "provocare", "causare", "arrecare": quel figlio non fa altro che procurargli dispiaceri; il terremoto ha procurato molti danni. A nostro modo di vedere quest'uso non è ortodosso. Se si vuole scrivere in buona lingua italiana ci sono altri verbi "piú appropriati".

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Cinque parole della lingua italiana a rischio estinzione. Si veda qui.



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venerdì 26 ottobre 2018

Il pronome "che" e la virgola

Leggendo articoli di giornali e pubblicazioni varie ci imbattiamo - molto spesso - nell'uso errato della virgola con il pronome relativo "che". La virgola si mette prima o dopo il "che"? Dipende. Si mette prima quando il soggetto della relativa non è lo stesso della principale: quando parto, e ho premura di arrivare il  prima possibile, prendo sempre l'aereo, che è il mezzo di trasporto piú veloce. In questo periodo il soggetto della principale è io (parto) e quello della relativa è l'aereo (che) la virgola, per tanto, si colloca prima del "che". Si pone dopo il pronome 'che' nelle parentetiche, vale a dire quando la frase che segue il che si può sopprimere non alterando il senso del periodo: ero sicuro che, come ho sempre pensato, non avresti rifiutato l'offerta. Come si può vedere il senso non cambia se nel periodo eliminiamo "come ho sempre pensato"; la virgola, dunque, si pone dopo il pronome che. Attenzione, infine, a non mettere mai la virgola tra il che e il verbo che segue: ora ti saluto, prendo l'autobus che sta arrivando e non *prendo l'autobus che, sta arrivando.

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Abbrunare e abbrunire. Si presti attenzione all'uso corretto dei due verbi: sono sovrabbondanti ma non sinonimi perché cambiano di significato a seconda della coniugazione. Coniugato con la prima - abbrunare - significa mettere il bruno in segno di lutto: per la ricorrenza tutte le bandiere sono state abbrunate. Abbrunire - della terza coniugazione - significa diventare bruno: tutti gli alpinisti - in cima alla montagna - abbrunirono. In alcuni modi e tempi si coniuga inserendo l'infisso "-isc-": io abbrunisco, noi abbruniamo.


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La "lingua biforcuta"

L'omicidio di Roma 
 Desirée, il testimone: "Voleva l'eroina, quelli gliel'hanno data ma poi si è sentita male" 
Svolta nelle indagini: 3 fermi. E qualcuno organizza delle 'ronde'
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Ci piacerebbe conoscere l'omicida che ha ucciso Roma. No, non abbiamo bevuto. Il vocabolario Treccani in rete al lemma omicidio riporta: «omicìdio s. m. [dal lat. homicidium, comp. di homo «uomo» e -cidium «-cidio»]. – Il delitto di chi sopprime una o più vite umane: commettere un o.; reato di o.; colpevole, imputato, reo di o.; è stato accusato di tentato o.; processare, condannare per omicidio (...)». Se non siamo in errore, per tanto, "l'omicidio di Roma" è un... orrore linguistico perché Roma non è una "vita umana".

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giovedì 25 ottobre 2018

La crociera "salperà"?


Il ritorno del Titanic nel 2022.

Ecco com'è la nave all'interno

La crociera salperà da Dubai

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Anche questa volta - con umiltà - chiediamo ai responsabili del titolo, che avete appena letto, se il verbo "salpare" - nel caso specifico - si può riferire a una "crociera" oltre che alle imbarcazioni. Che noi sappiamo il verbo in questione si può adoperare, in senso figurato, con il significato di "andar via", "partire", "scappare", "fuggire" e simili nei confronti delle persone non delle cose astratte o concrete. Vediamo ciò che dice il vocabolario Treccani in rete: «salpare (ant. sarpare) v. tr. e intr. [voce di etimo incerto*]. – 1. tr. Tirare su l’ancora o le ancore dal fondo del mare, ricuperarle a bordo: la nave ha già salpato le ancore e si stacca dalla banchina; il padrone ... L’ancora sarpa e fa girar la proda Verso ponente (Ariosto); una galea salpa L’ancora (D’Annunzio). Per estens., con riferimento ad altri oggetti sommersi, tirare in superficie, ricuperare: s. la rete; s. una mina, una boa. 2. intr. (aus. essere, non com. avere) Con sign. più ampio, levare le ancore, gli ormeggi per staccarsi dalla banchina e prendere il largo, e quindi partire: la nave sta per s.; la flotta salperà domani da Genova; arrivarono quando la nave era già salpata; nella notte era venuto l’ordine della partenza, e la squadra aveva salpato, all’alba (De Roberto). In senso fig., con riferimento a persona, andarsene, partire: è salpato per altri lidi; è salpata per altra destinazione, senza avvisare nessuno».
Vediamo anche il vocabolario Sabatini Coletti (DISC), sempre in rete: salpare[sal-pà-re] v.
• v.intr. (aus. essere) [sogg-v] Detto di imbarcazione, levare l'ancora, sciogliere gli ormeggi e partire; spesso con specificazione del punto di partenza (la nave salperà dal porto di Napoli) o della destinazione (la flotta è salpata per il Mar Rosso) || scherz. s. per altri lidi, andare a cercare altrove fortuna.
• v.tr. [sogg-v-arg] Tirare su e recuperare a bordo qlco., perlopiù l'ancora, dal fondo del mare.

* L'etimo secondo Ottorino Pianigiani.


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La parola proposta da questo portale, ripresa dal GDU del De Mauro: slandra. Sostantivo femminile con il quale si indica una ragazza poco seria. L'etimologia del termine secondo il Pianigiani.

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martedì 23 ottobre 2018

Gli o li?


Un articolo di Luigi Spagnolo - pubblicato sul sito della Treccani - invita i fruitori dell'italico idioma a non cadere nel trabocchetto sull'uso di "li" e "gli" (il primo è solo pronome, il secondo   può essere sia articolo sia pronome, ndr). Alla fine elenca alcuni organi di stampa in cui i vari articolisti hanno adoperato "gli" per "li". Nella presentazione dell'articolo, che immaginiamo sia stata redatta dalla redazione (ma "estratta" dall'articolo in questione), abbiamo riscontrato - a nostro avviso - un errore nella costruzione del verbo "indurre".

 La comune origine (dal dimostrativo latino ille) del pronome di terza persona (singolare e plurale) e dell’articolo determinativo induce talvolta nell’italofono l’indebita sostituzione del pronome li con gli.

 A nostro avviso il periodo "corretto" dovrebbe recitare: La comune origine (...) del pronome di terza persona (...) e dell'articolo determinativo INDUCE talvolta l'italofono NELL'indebita sostituzione del pronome li con gli.   



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lunedì 22 ottobre 2018

Autodemolitore: chi esegue l'autodemolizione

Sempre per la serie la "lingua biforcuta" della stampa

Borghesiana sequestrato

autodemolitore abusivo

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Chi ha sequestrato l’uomo deve essere punito secondo la legge.

È stata sequestrata un’autodemolizione abusiva, non l'autodemolitore. Per non essere tacciati, ancora una volta, di presunzione e arroganza* nei riguardi dei massinforma (mezzi di comunicazione di massa) diamo la "parola" al vocabolario Treccani e al DISC, entrambi in rete:

Treccani: autodemolitóre s. m. [tratto da autodemolizione]. – Chi esercita il mestiere, o comunque opera nel settore di attività dell’autodemolizione. autodemolizióne s. f. [comp. di auto-2 e demolizione]. – Propr., demolizione di autoveicoli (vecchi o inservibili); comunem. il termine viene usato, per lo più al plur., per indicare officine o centri che provvedono alla raccolta e alla demolizione (con eventuale riutilizzazione delle parti ancora valide) di autoveicoli in disuso.

Sabatini Coletti (DISC): autodemolizione


[au-to-de-mo-li-zió-ne] s.f. Demolizione di vecchi autoveicoli; l'officina che la esegue.

* Qui

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La parola proposta da questo portale: biutoso. Aggettivo denominale che sta per "pastoso", "molle" e simili. Si veda anche qui (scrivendo il vocabolo su "cerca parola", in alto a destra).



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domenica 21 ottobre 2018

La preposizione "senza" e il plurale di "tricolore"


Da due quotidiani in rete:
Risparmiatori in fuga: così i capitali tricolore tornano in Svizzera
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TRAFFICO DI ORGANI
Muore in vacanza in Egitto, la salma torna in patria senza cuore e reni
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Prima di scrivere queste righe abbiamo inviato due "mail" alle redazioni segnalando gli strafalcioni e invitandole, quindi, a emendarli. Ma le perle fanno ancora bella mostra di sé sulle pagine dei due giornali. Andiamo con ordine. L'aggettivo "tricolore" si pluralizza normalmente. Il titolo corretto, dunque, avrebbe dovuto recitare: «(...) cosí i capitali tricolori tornano in Svizzera». Non abbiamo le Frecce Tricolori, fiore all'occhiello della nostra Aeronautica militare? La preposizione impropria "senza" regge due o piú sostantivi, davanti al secondo (e a quelli successivi) si pone la negazione o la congiunzione o, mai la "e": senza garbo, grazia. Il secondo titolo avrebbe dovuto recitare, per tanto: «(...) la salma torna in patria senza cuore reni. Siamo  presuntuosi e arroganti?* Diamo la "parola" al vocabolario Treccani in rete:  Quando si escludono due cose, la congiunzione correlativa a senza è , più raram. olo tennero in cella tre giorni, s. mangiare né bereè uno strozzino, s. pietà né riguardo per nessuno (meno spesso, s. pietà o riguardo).

* Qui
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sabato 20 ottobre 2018

Scendere dal pero


Questo modo di dire, probabilmente, non è molto conosciuto e di conseguenza poco adoperato. Si invita una persona a "scendere dal pero" affinché abbandoni un atteggiamento di superiorità, di snobismo e simili per rendersi conto di appartenere alla schiera delle "persone normali". La locuzione, insomma, si usa nei confronti di persone presuntuose e superbe. L'espressione richiama l'immagine di colui/colei che dopo essere sceso/a da una pianta molto alta vede tutto ciò che lo/la circonda in un'ottica diversa. Torna, insomma, alla realtà della vita quotidiana. Realtà oscurata dall'«altezza» (presunzione) dell'albero.

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Si presti attenzione al verbo lamicare, della prima coniugazione e intransitivo, perché nei tempi composti può prendere tanto l'ausiliare essere quanto l'ausiliare avere, ma non "ad capochiam". Prenderà l'ausiliare essere quando, usato nella forma impersonale, vale "piovigginare": giovedí è lamicato tutta la giornata; l'ausiliare avere, invece, quando indica - in senso figurato - il pianto dei fanciulli: il bimbo ha lamicato tutta la notte. Si veda qui e qui.




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La lingua "biforcuta" della stampa

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Domandiamo, con umiltà, ai titolisti del giornale in rete quando sono cambiate le regole ortografiche della lingua italiana. Da quando si possono apostrofare le preposizioni articolate plurali?

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venerdì 19 ottobre 2018

Quando la stampa dà il buon umore...



Roma, la folle movida dei ragazzi:
il salto nella spazzatura in mutande

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Alcune volte la lingua "biforcuta" della stampa ti mette di buon umore. Non sapevamo che la "monnezza" avesse le mutande. È proprio vero: non si finisce mai d'imparare. Eravamo convinti che il titolo "corretto" avrebbe dovuto recitare: «(...) il salto in mutande nella spazzatura».

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La parola proposta da questo portale: salamistra. Sostantivo femminile che vale "donna saccente", "saputella", "presuntuosa". Si veda anche qui.


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giovedì 18 ottobre 2018

Il «menevadismo»


Un interessante articolo di Michele Cortelazzo - pubblicato sul sito della Treccani -  sul menevadismo e altri neologismi.
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La parola proposta da questo portale: garbello. Sostantivo maschile con il quale si indica un setaccio di vimini.

mercoledì 17 ottobre 2018

Si ringrazia per scherzo?


Ciò che stiamo per scrivere non avrà - probabilmente - la benedizione di qualche linguista in quanto la locuzione di cui intendiamo parlare è - come suol dirsi - di uso corrente o, per lo meno, sulla bocca dei vari intrattenitori radiotelevisivi. Ci riferiamo alla locuzione "grazie davvero". Fateci caso: non c'è un ospite dei vari salotti televisivi che non venga congedato con un "grazie davvero". Questa espressione, grazie davvero, lessicalmente corretta, fa a pugni - a nostro avviso -  con la logica. E ci spieghiamo.  Si può ringraziare per scherzo? Far seguire grazie dall'avverbio davvero ci sembra un nonsenso: si ringrazia, punto e basta. Grazie significa "mostrare gratitudine", "manifestare riconoscenza" e la gratitudine e la riconoscenza non possono non essere  "vere", "reali" (davvero). Si può far seguire il grazie (per mettere in evidenza la "gratitudine") da "molte", "tante", ma non da "davvero".
Grazie, secondo il Vocabolario Gabrielli in rete:

interiez.

1 Esprime ringraziamento, riconoscenza: g. delle premure, delle notizie, dell'accoglienzag. milleg. di cuoretante g.
‖ Formula che si usa per accettare o rifiutare gentilmente qualcosa: “vuol bere qualcosa?” “Sì, g.!”“una sigaretta?”, “no, g.”
‖ Dire grazie, mostrare la propria riconoscenza: ho fatto tanto per lui e non mi ha neanche detto g.


2 iron. Formula usata per sottolineare l'ovvietà di un'affermazione o il carattere retorico di una domanda: “ti piacciono le donne belle, ricche e intelligenti?” “g.!”
‖ Grazie a, per merito, per volontà di: g. a lui mi hanno assuntograzie a te, ora ci troviamo nei guai
‖ Grazie a Dio, grazie al Cielo, formula di soddisfazione, sollievo e sim.: g. al Cielo siete tornati!g. a Dio ho trovato casa!
B s.m. inv.
Ringraziamento: un g. particolare a quelli che mi hanno aiutato

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La lingua "biforcuta" della stampa

Deportazione ghetto di Roma, Mattarella: "Ferita insanabile, svuotare depositi di intolleranza"
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Si deportano le persone, non le cose

Treccani in rete: deportazióne s. f. [dal lat. deportatio -onis, attraverso il fr. déportation; v. deportare]. – Pena mediante la quale il condannato viene privato dei diritti civili e politici, allontanato dal luogo del commesso reato o di residenza e relegato in un territorio lontano dalla madrepatria: condannare alla d.; le d. in Siberia, nelle colonie penali; colonia di deportazione. Per estens., trasporto di un condannato in luogo di pena fuori dei confini della madrepatria; trasferimento coatto di gruppi di condannati politici o di minoranze civili invise o sospette in campi di lavoro o di concentramento: le d. di massa o in massa operate dai nazisti.




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lunedì 15 ottobre 2018

Siamo presuntuosi e arroganti?



"Sos acne": un nuovo ambulatorio all'Idi. All’Istituto Dermopatico dal 16 ottobre apre un centro dedicato alla malattia della pelle

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Spesso siamo accusati di presunzione e di arroganza nei confronti degli operatori della carta stampata e no. Soprattutto nei riguardi di coloro che hanno il compito di redigere i titoli, un mestiere rischioso, come ci ricorda il prof. Salvatore Claudio Sgroi, in questo magistrale articolo. Esaminiamo il titolo su riportato e vediamo se i nostri strali contro i massinforma (mezzi di comunicazione di massa) sono giustificati. L'Istituto Dermopatico è un ospedale in cui si curano (e si studiano) le malattie della pelle; "dermopatico" significa, infatti, "che si riferisce alla dermopatia", sostantivo femminile composto con le voci greche "derma" (pelle) e "patia" (affezione, sofferenza, malattia). La "malattia della pelle", per tanto, è già "dentro" il nome dell'istituto o dell'ospedale. Il titolo corretto avrebbe dovuto recitare: «...  All'Istituto Dermopatico dal 16 ottobre un centro dedicato a questa malattia» (acne). L'ospedale in questione, insomma, già si occupa delle malattie della pelle. Il titolo del giornale, invece, fa pensare che solo ora il nosocomio abbia aperto un reparto per le patologie della pelle. Siamo arroganti e presuntuosi?

domenica 14 ottobre 2018

La menzogna (e la bugia)

A proposito delle menzogne riguardanti il caso di Stefano Cucchi, il giovane romano "pestato" in una caserma dei carabinieri, riproponiamo un nostro articolo proprio sulla menzogna.

La bugia e la menzogna non sono sinonimi? Come mai alcuni preferiscono la bugia alla menzogna? Gentili amici, sarebbe come domandarci per quale motivo alcuni preferiscono dire “bello” e altri, invece, “grazioso”. La differenza “sostanziale” – per quanto ne sappiamo – non esiste; esiste, invece, quella etimologica. La bugia ha origini ‘barbare’, cioè straniere, mentre la menzogna è schiettamente un termine italiano in quanto i suoi natali sono latini. Probabilmente – a nostro modo di vedere – chi preferisce dire bugia lo fa per togliere quel senso di “pesantezza” che ha, invece, la menzogna. La bugia, infatti, ha un “sapore” bambinesco. Questo, ripetiamo, è solo un nostro modestissimo parere avvalorato dal fatto che con il termine bugia si intende anche quella macchiolina bianca sulle unghie (si dice, infatti, ai bambini che si forma quando dicono le bugie) il cui vocabolo scientifico è “leuconichia”. Ma veniamo alla differenza etimologica, cominciando dal nome barbaro. Se apriamo un qualunque vocabolario della lingua italiana alla voce bugia, leggiamo: asserzione contraria alla verità. La sua origine, come detto, non è squisitamente italiana ma franco-germanica: bauzia (‘bausi’) che significa ‘cattiveria’, ‘frode’, ‘malizia’. Da bugia è stato coniato il verbo “bugiare” (dire bugie) il cui uso, però, è desueto: molti vocabolari, infatti, lo hanno relegato nella soffitta della lingua. Sono vivi e vegeti, invece, gli altri derivati: bugiardaggine; bugiarderia (vizio di dire bugie) e bugiardo.
Piú complessa l’origine di menzogna (con la “z” aspra) tratta dal latino tardo “mentionia”, derivato di “mentiri” (mentire). Ma andiamo con ordine. Dal verbo latino “mentiri”, tratto da “mens, mentis” (mente, cervello, intelletto) che in origine valeva “fingere con la mente”, attraverso vari passaggi semantici sono nate le forme “mentionia” e “mentionéa”, quest’ultima piú vicino alla forma odierna italiana. Chi dice una menzogna, quindi, sotto il profilo strettamente etimologico “finge con la mente”, fa, per tanto, una “asserzione contraria alla verità” (ed ecco “scoperta” la somiglianza con la bugia). Quanto alla desinenza “-ogna” (menz ‘ogna’) o sta per “umnia”, come nel latino “calumnia”, divenuto “calugna” e italianizzato “calunnia” o come finale aggettivale femminile (sempre latino) “onéa”, che si riscontra anche nelle voci dialettali piemontesi come, per esempio, in “ambriac-ogna”, ubriachezza e in “tisic-ogna”, tisichezza.



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La parola proposta da questo portale: sbergolare. Parlare a voce alta, quasi gridando. Qui e qui.