lunedì 31 maggio 2010

Esami di maturità 2010







Tutto ciò che può essere utile per affrontare gli imminenti esami di Maturità. Si clicchi su: http://www.treccani.it/Portale/sito/scuola/dossier/2010/esame_2010/indice.html

domenica 30 maggio 2010

Lo "SciacquaLingua" si prende un giorno di riposo e augura agli amici blogghisti una felice domenica.

sabato 29 maggio 2010

Qui e quivi pari non sono


Alcuni ritengono, erroneamente, che gli avverbi di luogo “qui” e “quivi” si possano adoperare indifferentemente. No, amici, non è cosí: i due avverbi hanno significati diversi. Diamo la “parola” al compianto glottologo Aldo Gabrielli.
Quivi, avverbio di luogo, non è, come potrebbe sembrare, un composto di qui (latino ‘hic’), ma deriva dal latino ‘eccum ibi’, colà, là, in quel luogo: ‘Andrete a Roma, e quivi resterete’ (cioè resterete là, in quel luogo). Errore è quindi usarlo nel significato di ‘qui’, ‘in questo luogo’, che si riferiscono a luogo vicino a chi parla.

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Dalla rubrica di lingua del Corriere della Sera in rete:
declinazione di un verbo
Gentile dott. De Rienzo,
oggi in ufficio è stata posta la seguente questione. Se dico "La cosa più importante è..." il verbo che segue "stare" va declinato al maschile o al femminile? In breve, è corretto: "La cosa più importante è stata..." o "La cosa più importante è stato..."? Io direi che il verbo va al femminile perché "cosa", soggetto, è femminile, a una mia collega invece suona meglio il maschile. Ci può sciogliere questo dubbio?
Francesca
Risposta dell’esperto:
De Rienzo Venerdì, 28 Maggio 2010
Il femminile sicuramente.
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Cortese Professore, non saremmo cosí perentori nella risposta. Innanzi tutto vorremmo far rilevare alla gentile Francesca - e con tutto il rispetto - due cose: un verbo si coniuga, non si declina e il verbo “stare” nella frase della lettrice non c’entra nulla. Nel caso in oggetto si tratta del verbo “essere”. E il verbo essere si può concordare tanto con il soggetto quanto con il predicato nominale (cioè quello che si dice del soggetto). Nell’esempio di Francesca manca il predicato nominale. Lo mettiamo noi per fare un esempio: La cosa piú importante è stata il regalo che ho ricevuto. Si può anche dire (e forse è preferibile): La cosa piú importante è stato il regalo... (il regalo è stato la cosa piú...).



venerdì 28 maggio 2010

Fare l'offerta di Caino









Il modo di dire si riferisce a una persona che fa un’offerta, un regalo esclusivamente per il proprio interesse (o per dovere), senza accompagnarlo con parole di... “riconoscenza”, di “gratitudine” e di “stima”. Fa, quindi, un dono sgradito e, molto spesso, inutile. La locuzione sembra sia nata dall’interpretazione del passo della Genesi (IV, 3-6) dove si legge che Caino faceva a Dio offerte sgradite, diversamente da quanto faceva Abele, il fratello.

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Dallo “Scioglilingua” del Corriere della Sera in rete:
dubbio linguistico
Mi dica la forma corretta:
Se tu incontrassi una strega cosa le chiederesti?
Le chiederei se vorrebbe giocare con me. E le chiederei se vorrebbe essere mia amica.
OPPURE
Le chiederei se volesse giocare con me. E le chiederei se volesse esser mia amica.
(Firma)
Risposta dell’esperto:
De Rienzo Giovedì, 27 Maggio 2010
La seconda soluzione.
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Dubbio grammaticale
Le seguenti espressioni sono entrambe corrette o no?
1) Vi siete bevutI il cervello
2) Vi siete bevutO il cervello
Ringrazio anticipatamente e complimenti per la rubrica,
Antonio
Risposta del linguista:
De Rienzo Giovedì, 27 Maggio 2010
Vi siete bevuti il cervello.
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Gentilissimo Professore, ci auguriamo, veramente, di non farci “odiare” se indossiamo spesso gli abiti del censore. “Dubbio linguistico”: la prima soluzione è corretta perché si tratta di un’interrogativa indiretta, l’uso del condizionale, per tanto, è in regola con le leggi grammaticali.
“Dubbio grammaticale”: con i verbi adoperati in senso riflessivo apparente il participio passato si può accordare anche con la “cosa”: vi siete lavatO le mani; vi siete lavatE le mani.

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Non ci stancheremo mai di ripetere che la stampa deve “dispensare” la lingua correttamente, senza ambiguità.
Dalla Repubblica di ieri, pagina 45:
“La compagnia canadese in scena a Venezia completamente nuda”.
Ci domandiamo: chi era nuda, Venezia o la compagnia?
Ecco un classico caso di “anfibologia” *, che in buona lingua è da evitare.
Se i responsabili avessero scritto, correttamente, “La compagnia canadese, completamente nuda, in scena a Venezia” forse sarebbero stati accusati di “pornolingua”?
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http://it.wikipedia.org/wiki/Anfibologia


giovedì 27 maggio 2010

Io dò? Perché no?!


Dalla rubrica di lingua del Corriere della Sera in rete:

Salve Prof.,
leggevo il blog di un tizio abbastanza conosciuto e più volte ho visto "dò" come voce del verbo dare: è una forma arcaica o un semplicissimo errore che non mi sarei aspettato dal tizio?
(Firma)
Risposta del linguista:
De Rienzo Mercoledì, 26 Maggio 2010
È un errore.
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Gentile Professore, ci spiace contraddirla, ma dobbiamo farle rilevare che la sua perentoria risposta non è corretta. Le prime due persone singolari e la terza plurale del presente indicativo del verbo dare si possono accentare: dipende dal gusto stilistico individuale. Non lo dice l’estensore di queste noterelle, illustre “signor nessuno”, lo sostengono i sacri testi, tra cui il Treccani (si veda).

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Un verbo adoperato “malamente”: uniformare

Il significato letterale del verbo denominale sopra citato è “rendere di una medesima forma”: sono stati uniformati tutti i moduli prestampati. Molto spesso si adopera con il significato di “adattare”, “conformare”, “accordare” e simili: Giuliano si è conformato alle usanze della famiglia ospitante. A nostro modesto avviso, anche se i vocabolari ci danno torto, è un uso improprio che in buona lingua è da evitare. La forma “corretta” è: Giuliano si è adattato alle usanze della famiglia ospitante.

mercoledì 26 maggio 2010

Il resultamento


Gentile Dott. Raso,
mi sono imbattuto per caso nel suo meraviglioso e istruttivo sito: l’ho messo subito tra i preferiti. Lei rimane l’ultimo baluardo in difesa della nostra lingua, sempre piú “anglo-americannizzata” e maltrattata da quelli che - per “istituzione” - dovrebbero “dispensarla” correttamente: gli organi di informazione. Ma vengo subito al dunque. Ho letto su un giornale locale il termine “resultamento”. È chiaro che il cronista intendeva dire “risultato”. Le domando se esiste questo vocabolo perché nei vocabolari che ho consultato non ne ho trovato traccia.
Grazie se la mia richiesta sarà presa in considerazione.
Giacomo F.
Frosinone
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Cortese amico, il vocabolo “incriminato” esiste, anche se arcaico. È un sostantivo deverbale, provenendo, appunto, dal verbo “resultare” o “risultare”. I vocabolari, non tutti, lo registrano alla voce “risultamento”. Le copincollo ciò che riporta il “Treccani” in rete: “risultaménto (meno com. resultaménto) s. m. [der. di risultare], ant. o raro. – Il fatto di risultare, e quanto è risultato”. Si trova anche nel Dizionario della lingua italiana dell’accademia della Crusca (1829):
- Pagina 134.
Per quanto attiene alla “nascita” clicchi su:
http://www.etimo.it/?term=resultare&find=Cerca

domenica 23 maggio 2010

Acciaccoso


Tra le parole della nostra lingua da salvare metteremmo l’aggettivo denominale “acciaccoso”, derivato di acciacco con il suffisso “-oso” (latino “-osus”, indicante una certa qualità o condizione), che sta per “portatore di...”: un uomo acciaccoso, vale a dire portatore di acciacchi, quindi pieno di malanni. Lasceremmo acciaccato, cioè ammaccato, pieno di ammaccature, solo per le cose: un’automobile acciaccata.

sabato 22 maggio 2010

Tenersi fra due acque


Questa locuzione, che in senso figurato significa “essere neutrale”, barcamenarsi fra due o piú fazioni o persone cercando di non compromettersi con nessuno, dovrebbe esser nota ai blogghisti “marinari”. Il modo di dire, infatti, ha origini marinaresche: le acque sono quella di superficie e quella di profondità, immaginate - dai marinai - come strati distinti.

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Forse quasi nessuno sa che gli abitanti di Ravenna (lo sanno i ravennati?) hanno un doppio nome: ravennati (quello maggiormente conosciuto) e ravegnani. Quest’ultimo nome si ricollega, probabilmente, alla base prelatina del toponimo: “rava”. In origine indicava un “dirupo franoso”, poi una “fanghiglia” e simili. Ravenna, per tanto, è un derivato di “rava” con l’aggiunta del suffisso etrusco “-enna”, adoperato per designare una città.

venerdì 21 maggio 2010

Dar del fieno alle oche



Questo modo di dire ha lo stesso significato dell’altro, forse piú conosciuto, “portar vasi a Samo”, vale a dire fare una cosa inutile, perdere solamente del tempo che potrebbe essere impiegato in cose o attività piú redditizie. L’isola greca di Samo, nell’Egeo, nell’antichità era famosissima per i suoi vasi di ceramica verniciati di un rosso lucido, i “vasa samia”, lavorati magistralmente dagli artigiani che li esportavano in tutto il mondo allora conosciuto. Chi portava vasi a Samo faceva, quindi, una cosa “perfettamente inutile”. Come coloro che danno del fieno alle oche, le quali non mangiano erbe secche: si fa presto a darglielo, ma si butta via del tempo, tanto è vero che l’espressione ha assunto anche il significato di “gingillarsi”, “trastullarsi”. Il Gherardini, nel supplemento al suo vocabolario, alla voce in oggetto (vale a dire al motto “dar del fieno alle oche”, ndr) spiega: “Fare cosa di nessuna difficoltà, cose da non richiedere né ingegno né coraggio, siccome è di fatto il dare il fieno alle oche” e cita il solo esempio dell’Aretino in “Rime burlesche” (3.33): “ ‘ch’altro è saper dare all’oche il fieno. E altro è tracannar l’acqua dal legno; e altro è lo scarcare un corpo pieno’

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Dalla rubrica di lingua del Corriere della Sera in rete:
si potrebbe ... si potrebbero ...
Caro De Rienzo,
ho scritto "si potrebbe scrivere una ventina di cartelle".
Mi è sorto il dubbio: dovevo scrivere "si potrebbero scrivere ..."?
L'accordo è sulla ventina o sulle cartelle?
Mi dica. Grazie.
(Firma)
Risposta del linguista:
De Rienzo Giovedì, 20 Maggio 2010
Si potrebbe scrivere una ventina di cartelle.
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Gentile Professore, ventina significando “composto di circa venti unità” si può considerare un nome collettivo e in quanto tale l’accordo si può avere tanto con ventina quanto con cartelle.

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Esiste il verbo “sblusare”? E se se esiste che cosa significa?
Si clicchi su:
http://www.treccani.it/Portale/sito/lingua_italiana/domande_e_risposte/lessico/lessico_220.html


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Un'altra parola della nostra lingua da salvare: l'aggettivo TOSTANO. Significa presto, rapido, veloce, sollecito, subitaneo. Sembra derivi dall'aggettivo "tosto" con passaggio di significato da "saldo" a quello di "subito" con l'aggiunta del suffisso "-ano".


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Gentile dott. Raso,
sento spesso l’espressione “fare un putiferio”, oppure “è successo un putiferio” per indicare un litigio, un parapiglia, una scenata e simili. Ma cos’è questo putiferio?
Grazie
Pasquale U.
Salerno
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Cortese Pasquale, le “risponde”, per me, il linguista Ottorino Pianigiani:
http://www.etimo.it/?term=putiferio

giovedì 20 maggio 2010

Essere il sussi





Quest’espressione, probabilmente poco conosciuta, si riferisce alla persona che fa le spese delle burle e degli scherzi. È tratta da un vecchio gioco dei fanciulli. Si clicchi su http://www.etimo.it/?term=sussi

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Dallo "Scioglilingua" del Corriere della Sera in rete:
tre
Caro professore,
ho una domanda che riguarda il numerale tre, si scrive tre, ma ventitré, trentatré,vero? però se abbiamo a che fare con il numerale 8123 - ottocentoventitré anche dobbiamo scrivere tre con accento, ho ragione? ho trovato tanti siti in Internet dove non è scritto tre con accento in caso sopraddetto, questo è corretto? e per esempio se abbiamo il numerale 823.000 - 0ttocentoventitremila, in questo caso anche non possiamo usare l'accento scritto?
grazie per la risposta,
cordiali saluti
Silvia

Risposta del linguista:
De Rienzo Mercoledì, 19 Maggio 2010
L'accentazione del numero tre non è obbligatoria.
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Ci spiace, cortese Professore, ma ancora una volta dobbiamo dissentire. I composti con “tre” si accentano sempre anche se nell’uso, purtroppo, l’accento è oscillante (ma obbligatorio). Tre, aggettivo numerale cardinale, si scrive senza l’accento; invece prendono sempre l’accento i suoi composti: ventitré, trentatré, quarantatré, centotré e via dicendo; però, mille e tre, duemila e tre e simili (senza accento), perché in questi casi ‘tre’, essendo staccato, è usato come parola a sé stante. I composti di ‘tre’, insomma, sono da considerare parole tronche e vanno sempre accentati: ventitré, quarantatré, centotré .


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A proposito di accenti, abbiamo inviato questa elettroposta al direttore di
Scudit
Segnaliamo un’ “inesattezza”. Là dov’è scritto “se (pronome atono)” va corretto in “se congiunzione”. Il pronome sé, infatti, atono o tonico, si accenta sempre.
Cordialmente

da (preposizione) e (congiunzione) la (articolo o pronome) li (pronome) ne (pronome) se (pronome atono) si (pronome) te (pronome) che (pronome)
dà (verbo dare) è (verbo essere) là (avverbio) lì (avverbio) né (congiunzione) sé (pronome tonico) sì (avverbio) tè (sostantivo) ché (congiunzione rara)


Ché, inoltre, non è una “congiunzione rara”: sta per “perché” e introduce una proposizione causale, interrogativa e finale.

mercoledì 19 maggio 2010

Perché le uova e non "gli uovi"?


Alcuni amici ci hanno chiesto il motivo per cui il plurale di uovo è uova e non come dovrebbe essere, “uovi”. I nomi maschili in “-o” non pluralizzano in “-i”? Come mai questo plurale “strambo” che non rispetta le regole? Non è affatto strambo, amici, c’è sempre una spiegazione per tutte le cose, soprattutto per quanto attiene alla lingua. E la spiegazione ce la dà il padre del nostro idioma, il nobile latino. Alcuni nomi maschili in “-o” hanno il plurale in “-a” - cambiando anche di “sesso” - perché “riflettono” il plurale neutro latino dal quale provengono. L’origine di questi plurali - che di primo acchito sembrerebbero strambi - va ricercata, dunque, nei plurali neutri latini da singolari in “-um”. Vediamo i piú comuni: riso-risa; paio-paia; miglio-miglia; migliaio-migliaia; centinaio-centinaia; uovo-uova, per l’appunto. Nei tempi andati si aveva il plurale maschile “ovi”e il femminile “ove”. Questi plurali si ritrovano, oggi, in alcuni dialetti, ma in buona lingua italiana sono assolutamente da evitare. Un discorso a parte riguarda la “mano”, che ha entrambe le desinenze maschili (mano-mani) ma il genere femminile in quanto lo ha “ereditato” dal latino. Vi sono, inoltre, alcuni maschili in “-o” con doppio plurale (“-i”, maschile; e “-a”, femminile) come, per esempio, “braccio”, che nella forma plurale può fare tanto “bracci” quanto “braccia”. Questi plurali, però, non si fanno a... braccio. Invitiamo, quindi, i gentili blogghisti a consultare un buon vocabolario, uno di quelli “vummaiuscolati”, prima di avventurarsi in un plurale errato.

martedì 18 maggio 2010

"A crudo"


Ciò che stiamo per scrivere non sarà condiviso, forse, da qualche linguista “d’assalto”. Nel caso non ce ne facciamo un cruccio e andiamo avanti per la nostra strada. Veniamo al dunque. In tutti i programmi “gastronomici” delle varie emittenti televisive non si sente altro che l’espressione “a crudo”: l’olio va messo a crudo. Crudo, ricordiamolo, è un aggettivo e un sostantivo (http://www.etimo.it/?term=crudo&find=Cerca ) il cui significato primario è “non sottoposto a cottura” e non c’è alcun bisogno di farlo precedere dalla preposizione “a”: prosciutto crudo (non cotto, dunque). Qualcuno chiederebbe al pizzicagnolo di un supermercato “due etti di prosciutto ‘a’ crudo”? Perché l’olio o altre sostanze alimentari debbono essere “a crudo”? E a proposito di crudo, che in senso figurato significa “rude”, “duro”, “rozzo”, il corrispettivo avverbio è crudamente, non crudemente, come si sente e si legge spesso. Concludiamo ponendoci un interrogativo: a quando l’espressione “a cotto”?
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"A crudo", secondo il Tommaseo-Bellini, "dicesi di operazione fatta sopra le cose di terra prima di cuocerle" (vasi di terra, ecc.).

lunedì 17 maggio 2010

Il passato sigmatico


Da un sondaggio svolto tra parenti, amici e conoscenti - scelti tra le persone non sprovvedute sotto il profilo linguistico - abbiamo notato, con immenso stupore, il fatto che nessuno ha mai sentito parlare del “passato o perfetto sigmatico”. Siamo rimasti stupiti, ma... sotto sotto ce lo aspettavamo perché è uno di quegli argomenti che le grammatiche ignorano o riservano - quando lo trattano - ai soli addetti ai lavori. Ciò è un male, perché la lingua è di tutti e tutti devono avere l’opportunità di conoscerne i “segreti” al fine di migliorare, ciascuno, la propria “conoscenza glottologia”. Cos’è, dunque, questo “perfetto sigmatico”? Diciamo subito, a scanso di equivoci, che non ha nulla in comune - se non la parte etimologica - con il “sigmatismo”, cosí chiamato in medicina il difetto che alcuni mettono in evidenza nel pronunciare la consonante “S”. Il passato o perfetto sigmatico - dalla lettera “sigma” dell’alfabeto greco corrispondente alla nostra “S” - è un tempo (il passato remoto) dei verbi irregolari in cui la prima persona singolare termina in “si”. Di questi verbi, parte si rifanno al latino come “misi”; parte sono frutto di analogie latino-volgari, come “risposi”, coniato sul modello del latino volgare “responsi” in luogo del classico “respondi”, per attrazione del supino “responsum” (il “responso” non vi dice nulla?); parte ancora per assimilazioni delle consonanti, come nel caso di “dissi”, dal latino “dixi” in cui la consonante “X” è stata assimilata dalla “S”. E sempre a proposito del perfetto sigmatico , riteniamo utile ricordare che il passato remoto “apparsi” è desueto ma non scorretto, come abbiamo avuto occasione di sentire da alcuni soloni della lingua. Come pure non sono errate le forme “apparii”, “apparí” e “apparirono”, adoperate da Giovanni Pascoli (un “pennivendolo”?): “Bianca bianca nel tacito tumulto / una casa apparí sparí d’un tratto” (“Il lampo”, 4-5).

domenica 16 maggio 2010

AVVISO

"il Cannocchiale" fa di nuovo le bizze. Le noterelle linguistiche, quindi, saranno leggibili, permanentemente, su questo sito.

giovedì 13 maggio 2010

Mettere il fodero in bucato


Il rag. Rompini fu chiamato d’urgenza dall’usciere addetto al pubblico: un signore, stanco dell’estenuante attesa e della lunghissima fila, aveva messo a soqquadro la sala d’attesa - si fa per dire - dove la gente si accalcava per poter accedere agli sportelli. “Corra, ragioniere - gridò il commesso - una persona del pubblico ‘ha messo il fodero in bucato’ !”. Il direttore dell’agenzia lí per lí non capí il linguaggio del suo dipendente; “costui è impazzito”, pensò; poi si rese conto che un pazzo, in effetti, c’era: era uno del pubblico che, in preda a un “raptus da stanchezza”, aveva dato in escandescenza rompendo varie suppellettili. L’usciere voleva dire, infatti, che una persona era improvvisamente impazzita e usò quel modo di dire desueto per non dire sconosciuto. “Mettere (o fare) il fodero in bucato” significa, dunque, impazzire. Ma qual è l’origine di questa locuzione? È presto detto. Nei tempi andati si chiamava “fodero” una sorta di sottana fatta di pelliccia e la stessa pelle concia di qualche animale per foderare i vestiti. Ora mettere una pelliccia (‘fodero’) nel bucato è da pazzi in quanto, si sa, si rovinerebbe. Probabilmente, in passato, qualche donna deve averlo fatto se ciò ha dato origine al modo di dire.

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Ecco un’altra parola, un verbo per l’esattezza, che ci piacerebbe fosse “rispolverata” e rimessa in circolazione: alleppare (o leppare). I vocabolari moderni, infatti, non la registrano. Significa “fuggire”. Fra i testi che la... attestano il vocabolario di Policarpo Petrocchi e quello del Tommaseo - Bellini. Per l’origine diamo la “parola” a Ottorino Pianigiani:
http://www.etimo.it/?term=leppare&find=Cerca .

mercoledì 12 maggio 2010

Il sarcasmo e l'ironia


Si presti attenzione a due vocaboli che alcuni ritengono l’uno sinonimo dell’altro: ironia e sarcasmo. I due termini hanno un albero “genealogico” diverso. L’ironia (http://www.etimo.it/?term=ironia ) è una figura retorica consistente nel far capire, dal contesto, il contrario di quanto si dice con l’intento critico o derisorio: ma bravo! con tono di rimprovero; che bel consiglio che mi hai dato! (mi hai dato, cioè, un pessimo consiglio). Quando all’ironia si aggiunge una determinata carica di disprezzo o di astio si ha il sarcasmo, altra figura retorica (http://www.etimo.it/?term=sarcasmo ). Celeberrimo il sarcasmo di Dante verso la sua città:
“Godi, Fiorenza, poi che se’ sí grande,
che per mare e per terra batti l’ali,
e per lo ’nferno tuo nome si spande!”

martedì 11 maggio 2010

"Porta allarmata"


Egregio Dott. Raso,
ho visto sulla porta di una Banca il cartello "Porta Allarmata", mi sono fatta due risate pensando alla povera porta preoccupata...
Ma è corretto dire porta allarmata?
Grazie e cordiali saluti
Francesca
(Località non specificata)
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Gentile Francesca,
di primo acchito si resta interdetti: come può una porta essere - come lei giustamente dice - “preoccupata”?
L’espressione non piace neanche a me, preferisco “porta dotata di dispositivi di allarme”, ma non è scorretta. Allarmato, nell'accezione che c'interessa è, ovviamente, presente sul GRADIT, del De Mauro:
“allarmato: Dotato di un dispositivo di allarme: attenzione, porta allarmata”.
È inoltre lemmatizzato sul Sabatini Coletti 2002:
“allarmare: Con significato tecnico di recente acquisizione [...] collegare ambienti e varchi a un impianto di allarme: allarmare le porte.”
E sul Devoto-Oli 2007:
“allarmato: Dotato di un sistema di allarme: impalcatura allarmata”.
E in altri autorevoli vocabolari.

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Forse è il caso di ricordare che “reticenza” e “riluttanza” hanno significati diversi. Perché questa precisazione? Perché molto spesso la stampa adopera i due sostantivi deaggettivali indifferentemente. Vediamo, dunque, cosa dice il vocabolario Gabrielli in rete cliccando su
reticenza e riluttanza.

http://www.etimo.it/?cmd=id&id=14523&md=26c841557caf5d52a27f866c6fee22f9

http://www.etimo.it/?cmd=id&id=14694&md=e91b99acb79e016c75695045a84b6380

lunedì 10 maggio 2010

La briffalda



Tra le parole da salvare della nostra lingua metteremmo “briffalda”, anche se di origine non schiettamente italiana, ma francese. Chi è questa briffalda? È una donna di malaffare. Ai nostri orecchi il termine sembra “piú gentile” di prostituta, di meretrice e di peripatetica. Ottorino Pianigiani ci “spiega” come si è giunti dall’antico francese “brifaut” (‘ghiottone’, ‘avido’) all’accezione di donna dai facili costumi: http://www.etimo.it/?term=briffalda .

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Due parole su un verbo che - a nostro modesto modo di vedere - molto spesso è adoperato, soprattutto dai cosí detti mezzi d’informazione, a sproposito: subire. Il significato proprio di questo verbo è “sopportare”, “ricevere qualcosa di avverso, di sgradito”: Giulio, finalmente, ha finito di subire le angherie di certi amici. Ci viene da sorridere, quindi, quando sulla stampa leggiamo frasi tipo “la produzione ha subíto un leggero rialzo”. Il rialzo si “sopporta”? Ancora. Visto il significato passivo del predetto verbo non si dica o si scriva “subire passivamente”.
http://www.etimo.it/?term=subire&find=Cerca









domenica 9 maggio 2010

Denigrare e ingiuriare


Alcuni amici blogghisti ci hanno pregato di spendere due parole sul significato “coperto” del verbo denigrare. Ci sembra che l’argomento sia già stato trattato (www.faustoraso.ilcannocchiale.it) , nel dubbio lo riproponiamo. Tutti sappiamo - “per pratica” - che il verbo ‘denigrare’ significa “diffamare”, “screditare”, “togliere ad altri il buon nome con volontaria malizia”. Bene. Soffermiamoci un attimo (non “attimino”, per carità!) su quest’ultima accezione per scoprire il significato “coperto” del verbo. Quando denigriamo una persona, dunque, le togliamo il buon nome; ma come? tingendolo di nero. Denigrare vale propriamente “tingere di nero” provenendo pari pari dal latino ‘denigrare’, composto con la particella intensiva “de” e “niger” (nero). Adoperato estensivamente nel senso di “annerire il buon nome”, il verbo in oggetto ha acquisito, in lingua volgare (l’italiano), il significato figurato di ‘diffamare’, tingendo di nero, appunto, il buon nome di una persona. Quando, invece, insultiamo qualcuno, vale a dire l’oltraggiamo*, l’ingiuriamo, figuratamente gli “saltiamo sopra”. Anche questo verbo, usato in senso figurato, è pari pari il latino “insultare”, forma intensiva di “insilire”, ‘saltar su’, formato con la particella “in” (sopra, su, contro) e “salire” (saltare). Non diciamo, infatti, sempre in senso figurato, che quella persona mi è “saltata addosso”? Vale a dire mi ha offeso, ingiuriato. E a proposito di ingiuria, cioè di offesa che lede materialmente o moralmente, quando la “mettiamo in atto” non facciamo altro che una cosa “ingiusta” ledendo il diritto di una persona. Questa voce, infatti, è un derivato del latino “iniurius” (‘ingiusto’), composto del prefisso “in” negativo (‘che toglie’) e “ius” (diritto). L’ingiuria, quindi, è “tutto ciò che è fatto in onta al diritto di alcuno”, quindi ‘danno’, ‘affronto’, ‘oltraggio’. L’ingiuria, insomma, è ogni fatto detto o scritto dolosamente allo scopo di “togliere il buon nome” a una persona ed è affine quindi, non uguale, alla denigrazione.
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http://www.etimo.it/?cmd=id&id=11898&md=bbaefb23dfe8bd2f523378f2217fcf31

sabato 8 maggio 2010

Lamentare...


A proposito del verbo denominale ‘lamentare’, che propriamente significa ‘manifestare dolore o dispiacere’ (http://www.etimo.it/?cmd=id&id=9576&md=f9b0c7fd2c04e0a413c12e1f30679228 ) e che molto spesso è adoperato impropriamente, ci piace riportare quanto sostiene il linguista Luciano Satta. “Ci sono tre morti e cinque feriti”, non sarà bellissimo, ma sempre meglio di “Si lamentano tre morti e cinque feriti”, ciò che istiga alla macabra osservazione che per i feriti può andar bene ma che i morti non possono lamentarsi. Lasciamo dunque un poco in pace questo ‘lamentare’, battuta a parte; e lasciamolo in pace sia nel caso dei morti e dei feriti, sia quando il ‘lamentare’ riguarda gli ‘ingenti danni’ .

venerdì 7 maggio 2010

C'è investimento e... investimento


Pregiatissimo dott. Raso,
seguo da tempo, e con molto interesse, le sue preziose “noterelle” sul buon uso della lingua italiana. Le scrivo per una curiosità che mi “assilla” da tempo. L’ “investimento”, come recitano i vocabolari, ha duplici significati: ‘’Urtare con violenza, soprattutto con un mezzo di trasporto: ha evitato per miracolo l’investimento d'un pedone. Impiego di una determinata somma di danaro in capitale o in un'impresa fruttifera: investire in azioni, in titoli, in terreni; investimenti azionari, immobiliari, ecc.’’.
Come si spiegano questi significati che, in apparenza, sono in antitesi tra loro?
Grazie e ancora complimenti per il suo impareggiabile sito.
Tiberio A.
Viterbo
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Gentile Tiberio, grazie per le sue belle parole. Le faccio “rispondere”, per quanto attiene alla sua curiosità, da Ottorino Pianigiani. Clicchi su
http://www.etimo.it/?cmd=id&id=9309&md=79699757a517e961232189e4c8d97c17


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Dalla rubrica di lingua del Corriere della Sera in rete:
accordo del participio passato
Scusi, è argomento già trattato ma sono in difficoltà...
Rivolgendosi a una donna è giusto dire:
ti ho pensata o ti ho pensato?
Grazie
(Firma)
Risposta del linguista:
De Rienzo Giovedì, 06 Maggio 2010
"Ti ho pensata", perché il complemento oggetto è espresso da una particella con valore di pronome personale anteposta al verbo.
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Cortese Professore, una piccola correzione alla sua risposta. Nell’esempio riportato dal lettore il verbo pensare è “in veste” intransitiva (ti ho pensata>>ho pensato a te) e in quanto tale non può reggere il complemento oggetto. La particella pronominale “ti”, quindi, è un complemento di termine. La regola da lei menzionata, inoltre, vale tassativamente per i pronomi clitici ‘lo’, ‘la’, ‘li’, ‘le’ e ‘ne’. Con le altre particelle clitiche ‘mi’, ‘ti’, ‘ci’, ‘vi’, ‘si’ la concordanza con il complemento oggetto non è obbligatoria, dipende dal gusto di chi parla o scrive: Giuliana, ti ho vista oppure Giuliana, ti ho visto.

giovedì 6 maggio 2010

C'era un paio o c'erano un paio (di amici)?


Gentilissimo dott. Raso,
mio figlio (III media) ha scritto in un componimento in classe che “fuori c’era un paio di amici ad attenderlo”. L’insegnante, “scandalizzata”, ha corretto “c’era” in “c’erano” sostenendo che in casi del genere il verbo deve essere tassativamente di numero plurale. Io non sono convinto. Lei che ne pensa?
Grazie
Federico S.
Frosinone
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Cortese Federico, sono io a scandalizzarmi per la “pochezza linguistica” della docente. Paio appartiene alla schiera dei cosí detti nomi collettivi e in quanto tali possono avere il verbo tanto nel numero singolare quanto nel numero plurale: c’era un paio di amici; c’erano un paio di amici. In casi del genere, insomma, il verbo si può concordare sia con il soggetto grammaticale (paio) sia con il soggetto logico (amici). Dipende dal gusto stilistico di chi scrive. Personalmente prediligo la concordanza a senso.

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Tra le parole da salvare, quelle, cioè, che sono state relegate nella “soffitta della lingua”, vedremmo “brigoso”, vale a dire litigioso, rissoso. È tratto dal basso latino “briga” che significa rissa, contesa. È un aggettivo riferibile tanto a persone quanto a cose: è un uomo brigoso. Riferito a cose assume il significato di “che dà noia, molestia” e simili: è un lavoro brigoso.


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Dallo “Scioglilingua” del Corriere della Sera in rete:
D'alto bordo
Perché si dice "prostituta d'alto bordo". Che significa l'"alto bordo"?
Grazie
(Firma)
Risposta del linguista:
De Rienzo Mercoledì, 05 Maggio 2010
La parola al Forum.
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L’espressione “d’alto bordo” che significa importante, autorevole, di condizione sociale elevata, è una metafora tratta dal gergo marinaro. Il bordo della nave è il fianco della nave stessa. Una nave, quindi, può essere d’alto o di basso bordo. Se il bordo (fianco) emergente dall’acqua è alto si dirà “d’alto bordo”; se, invece, l’altezza è ridotta si dirà “di basso bordo”. Di qui, appunto, l’uso figurato della locuzione.

mercoledì 5 maggio 2010

Vertito: participio passato di "vertere"





Dalla rubrica di lingua del Corriere della Sera in rete:
Participio passato
Professore, in questo momento proprio non mi sovviene: qual è il participio passato del verbo "vertere"?
Grazie e buona giornata.
(Firma)
Risposta dell’esperto:
Risposta De Rienzo Martedì, 04 Maggio 2010
Non esiste. Ci troviamo di fronte a un verbo difettivo.
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Cortese Professore,
il participio passato di vertere ci “sarebbe”, sebbene di uso rarissimo: VERTITO. Ne fa menzione Aldo Gabrielli nel suo “Dizionario Linguistico Moderno” (pag. 1178) e si trova anche in alcuni libri tra cui "Giurisprudenza italiana e la legge riunite", Volume 95‎
Unione tipografico-editrice torinese - 1948
... si fosse trattato di giudizio tra un cittadino italiano ed un cittadino
sanmarinese, ma non quando il giudizio fosse vertito, come era vertito difatti...

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Mettiamo alla prova il nostro italiano cliccando su
http://www.treccani.it/Portale/sito/lingua_italiana/prova_di_italiano/glossogramma_32.html

martedì 4 maggio 2010

La congiunzione "ma"


Sfatiamo un luogo comune che - se non ricordiamo male - ci fu inculcato ai tempi della scuola: la congiunzione “ma” non può mai introdurre un periodo; dopo il punto fermo, cioè, la proposizione non può cominciare con un “ma”. I fautori di questa “legge” linguistica sostengono, infatti, che la congiunzione ‘ma’ essendo un’avversativa deve indicare un ‘contrasto’ tra due elementi (o proposizioni): Luigi ha sbagliato ‘ma’ senza volerlo; Pasquale è timido ‘ma’ ambizioso. A costoro ricordiamo - qualora ce ne fosse bisogno - che un periodo può cominciare benissimo con un “ma” perché in questo caso la congiunzione perde la sua “avversità” per indicare la conclusione o l’interruzione di un discorso per passare a un altro: ‘ma’ veniamo al perché. Molto spesso è unita a un’altra avversativa, “però”, formando il costrutto ‘ma però’, che non è affatto errato, come sostengono i soliti soloni della lingua. Seguita da un punto esclamativo (!) la suddetta congiunzione esprime un dubbio, un’incertezza acquisendo il valore dell’interiezione ‘mah!’: hai deciso cosa fare? Ma! Per concludere, amici blogghisti, usate pure il ‘ma’ dopo il punto fermo, nessun linguista, degno di tal nome, potrà tacciarvi di analfabetismo (linguistico).

lunedì 3 maggio 2010

Mobilio o mobilia?


“Denunciamo”, ancora una volta, un’altra discrepanza tra il vocabolario Gabrielli in rete e il Dizionario Linguistico Moderno dello stesso autore. Per il Gabrielli in rete si clicchi su mobilio. Nel Dizionario Linguistico Moderno l’autore condanna, invece, il termine e scrive: “È voce errata; in buona lingua si dice ‘mobilia’ (...) essendo il neutro plurale dell’aggettivo latino ‘mobilis’, nella locuzione ‘bona mobilia’, cioè ‘beni mobili’. È sostantivo femminile con valore sempre collettivo, ed è usato quasi soltanto nel singolare (la mobilia); raro nel plurale (le mobilie). Spesso può sostituirsi con ‘mobili’ (‘C’era una ricca mobilia’; C’eran ricchi mobili’)”. Personalmente seguiamo le “direttive” del Dizionario Linguistico Moderno (pagina 407) perché riteniamo che quello in rete sia stato “ritoccato”.

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Cortese dott. Raso,
mi aiuti, sono disperato perché non so come spiegare a mio figlio (V elementare) come distinguere le parole che si scrivono con la “c” da quelle che, invece, prendono la “q”. C’è una regola in proposito? Le sarò grato se mi illuminerà.
Rossano A.
Potenza
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Gentile Rossano,
la regola ci “sarebbe”, ma occorre conoscere il latino. Per ora abitui suo figlio a consultare il vocabolario per dissipare ogni dubbio sull’uso della “c” o della “q”. Quando apprenderà le prime nozioni di latino imparerà che in italiano conservano la “q” le parole che l’avevano in latino: liquore (latino ‘liquor’); quale (latino ‘qualis’); iniquo (latino ‘iniquus’). La medesima regola per la “c”: cuore (latino ‘cor’); cuoio (latino ‘corium’); scuola (latino ‘schola’). Spero di esserle stato d’aiuto.

domenica 2 maggio 2010

Non dire quattro, se non l'hai nel sacco





Dallo “Scioglilingua” del Corriere della Sera in rete:

Non dire quattro se non l'hai nel sacco cioè non affermare alcunché se non sei proprio sicuro.
Ma come si spiega questa locuzione?
(Firma)
Risposta:
De Rienzo Sabato, 01 Maggio 2010
La parola al Forum.
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Gentile Professore,
Ludovico Passarini (Pico Luri di Vassano) cosí spiega il detto “Non dir quattro, se non l’hai nel sacco”: “Tendeva la mattina una ragna da pigliare tordi, e altri uccelli un villano di Pillercoli, e la sera se n’andava insieme con un compagno a stendere, e di mano in mano che calava giú la rete, schiacciava il capo a’ tordi, e gli metteva in un sacco, che teneva il compagno in mano, e quando poneva i tordi nel sacco, non guardava sempre alla bocca di esso, perché teneva gli occhi nel sacco. Mentre che ficcava dentro i tordi, quando aveva dato loro la stretta al capo, diceva: e uno, e due, e tre, e cosí gli andava contando a uno a uno; ma quando fu al quarto non schizzò cosí bene; onde il dire, e quattro, e ‘l volar via il tordo fu tutt’uno. Sí che il compagno disse: Non dir quattro, ché non è nel sacco, che poi passò in proverbio; il quale dimostra che chi non ha la cosa ben masticata e sicura, non dee farne disegno certo, né andarsene preso alle grida”.

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Vivere e campare. Questi due verbi, pur potendosi considerare l’uno sinonimo dell’altro, hanno sfumature diverse di significato. Il primo vale “avere vita”, “esistere” e si riferisce a organismi animali e vegetali: Giuseppe ha cessato di vivere la notte scorsa; tutte le piante hanno bisogno di acqua per vivere. Il secondo sta per “sostentarsi”, “mantenersi in vita”: quel barbone campa di elemosina. Nei tempi composti “vivere” può coniugarsi tanto con l’ausiliare essere quanto con l’ausiliare avere (quest’ultimo di uso raro, per la verità). “Campare”, invece, prende tassativamente l’ausiliare essere.



sabato 1 maggio 2010

Buona festa





Agli amici blogghisti una serena giornata di meritato riposo