martedì 24 giugno 2025

Lingua italiana sotto controllo: pattuglia in azione contro le frasi fuori legge - Chi rifiuta due negazioni… potrebbe beccarsi una multa grammaticale

 

Nel meraviglioso panorama della lingua italiana, la doppia negazione è un fenomeno che spesso suscita dubbi e discussioni. Alcuni linguisti la bollano come errore, magari influenzati da lingue straniere come l’inglese, dove due negazioni si annullano a vicenda. Ma in italiano, invece, si rafforzano. E non è un dettaglio da poco.

Dire non ho visto nessuno non è soltanto corretto: è necessario. È l’unico modo per esprimere chiaramente una negazione totale. Frasi come ho visto nessuno sono scorrette e, linguisticamente parlando, senza copertura assicurativa. La presenza combinata di “non” con avverbi o pronomi negativi - come mai, nessuno, nulla, niente - non è ridondante: è parte integrante della struttura sintattica dell’italico idioma.

La doppia negazione, nella lingua di Dante, non solo è ammessa, ma spesso è richiesta per garantire la chiarezza e la coerenza del messaggio. È una costruzione linguistica che affonda le radici nel latino e si è trasmessa fino a noi con tutto il suo peso grammaticale e la sua eleganza.

In realtà, il parlato quotidiano - specie nei dialetti e nelle varietà regionali - spesso amplifica ulteriormente la negazione, dando vita a triplette del tipo: non ho mica detto niente a nessuno. È un trionfo espressivo, un’esagerazione intenzionale che dà colore e intensità al messaggio.

Chi pensa che la doppia negazione sia/è un errore lo fa spesso per eccesso di razionalismo grammaticale o per imitazione di modelli linguistici che nulla hanno (a) che vedere con la nostra tradizione. Ma la grammatica italiana ha una sua logica interna e una musicalità specifica. Abbandonarla per conformarsi a schemi estranei significa impoverire la lingua, renderla più rigida e meno espressiva.

D’altra parte, è bene ricordarlo: nel registro formale, conviene non abusare di troppe negazioni per non rendere il periodo oscuro o faticoso. Ma eliminarle del tutto, per “snellire”, sarebbe come servire una carbonara senza guanciale: può anche passare, ma qualcuno - giustamente - si può ribellare.

Usare bene la doppia negazione è segno, dunque, di consapevolezza linguistica. Ignorarla, invece, potrebbe costar caro… specie se nei paraggi c’è una pattuglia della Polizia della Lingua Italiana pronta a multare i "detentori" di frasi fuori legge.









***

Chi ha ucciso il sostantivo ampollanza?


D
imenticato dai dizionari, ignorato dal parlato, ma mai davvero morto nei cuori di chi ama le parole con troppa stoffa: questa è la storia del sostantivo ampollanza, tra-volto dal minimalismo e sepolto tra le pieghe dell’enfasi. Un’indagine, un elogio, forse una resurrezione.

Ampollanza è uno di quei sostantivi astratti che sembrano affacciarsi da un balcone del passato, agitando un fazzolettino di seta lessicale. Raro, elegante, volutamente barocco, eppure - paradossalmente - rimasto nell’ombra di parole più moderne, più piatte, più comode. La sua origine è chiara: ampolla (dal latino ampulla), vaso rotondeggiante, prezioso, quasi cerimoniale. Da qui ampolloso, aggettivo che designa ciò che è tronfio, pomposo, ridondante. E infine, per derivazione astratta, ampollanza (‘ampolla’ + il suffisso ‘-anza’)l’essere enfaticamente eccessivo nel discorso, nella scrittura o nel gesto.

Questa parola ha subito il destino di chi indossa abiti troppo sontuosi in una sala dove ormai va di moda il minimalismo. Scomparsa dai dizionari dell’uso, ignorata nei registri comuni, vive oggi solo come eco in qualche raccolta ottocentesca o trattato retorico dimenticato su uno scaffale polveroso.

Ma proprio per questo, ampollanza meriterebbe una rinascita filologica. Non esiste, nell’italiano corrente, un sostantivo così netto e preciso per definire quella particolare tonalità di magniloquenza che trabocca dai discorsi eccessivi: che siano comizi teatrali, prosa barocca o gesti da grande attore tragico in cerca d’applausi. “Enfasi” è troppo generico, “pomposità” troppo greve. Ampollanza invece è colta, ironica, affilata: un colpo di fioretto lessicale.

Recuperarla sarebbe un gesto di cura nei confronti della lingua, un modo per ridare fiato a un lessico che rischia di appiattirsi. Sarebbe bello vederla tornare in circolo nei saggi, nei commenti letterari, persino in qualche articolo un po’ malizioso che voglia sottolineare con eleganza un eccesso di toni. Non è nostalgia: è amore per la precisione, per la musica nascosta nelle parole.

E allora, a suggello di questa memoria linguistica, le dedichiamo il suo elogio:

Qui giace, dimenticata ma non indegna, la parola Ampollanza.

Non era parola modesta, no. Vestiva lungo, con fronzoli d’accademia e piume d’ironia, e si presentava ai discorsi con passo solenne e sguardo obliquo. In un mondo che premia la brevità, ella volle essere esuberanza. In un tempo che celebra il minimalismo, ella fu sinfonia.

Nacque dai fasti dell’ampolla, lucente recipiente di cerimonie e pomposità, e si fece nome astratto per definire l’arte del dire troppo, del dire gonfio, del dire per sentirsi dire. Non visse nell’anonimato: i retori la frequentavano, i polemisti la temevano, i maestri del barocco le facevano la corte.

Poi, il silenzio.

Spenta nel vociare semplice dei tempi nuovi, accantonata in favore di giri più sobri, ampollanza smise di far risuonare le sale delle conferenze e i corridoi della critica letteraria. Gli ultimi a nominarla furono studenti stanchi, inciampando in qualche trattato antico.

Oggi, qui, la salutiamo con il dovuto rispetto. Perché anche le parole cadute meritano un addio degno della loro forma.

Addio, ampollanza. Forse un giorno, tra le labbra di un autore nostalgico o fra le righe di un saggio rinato, tornerai a gonfiare il petto dell’italico idioma.


Nessun commento: