Siamo sicuri che – nonostante questa locuzione sia pressoché sconosciuta ai piú – moltissimi amici blogghisti avranno avuto occasione di conoscere e, forse, di frequentare, loro malgrado, delle persone in possesso, appunto, dell’anello di Gige. Quest’espressione si riferisce a persone che sono maestre nell’arte di scomparire quando, al contrario, la loro presenza è indispensabile, soprattutto di fronte a una situazione spiacevole. Donde viene questo modo di dire? Secondo una leggenda narrata da Platone, Gige, ricchissimo re della Lidia (secolo VII a.C.), possedeva un bellissimo anello di ottone che gli consentiva di rendersi invisibile ogni qual volta che lo ritenesse opportuno (per ‘controllare’, senza esser visto, l’operato dei suoi collaboratori, ndr). Si usa, quindi, questa locuzione, a proposito di persone che sembrano avere la stessa prodigiosa facoltà di scomparire di fronte a situazioni ‘scabrose’: Giovanni ha l’anello di Gige; se n’è andato, è ‘scomparso’ per non trovarsi invischiato in quella faccenda.
martedì 30 ottobre 2012
lunedì 29 ottobre 2012
Il capestro
Abbiamo notato che alcuni dizionari classificano il sostantivo “capestro” tra i vocaboli di etimologia incerta, pur provenendo dal latino ‘capistrum’. Noi, modestamente, cercheremo di “provare” che si tratta di un sostantivo deverbale proveniente dal verbo latino ‘capere’(prendere). Da questo verbo – con il trascorrere del tempo – è nato, sempre in latino, un altro verbo, intensivo di ‘capere’ e passato pari pari in italiano, “captare” e vale, letteralmente, “prendere con astuzia, con forza, con accortezza”. Torniamo, ora, al capestro, cioè alla “fune per animali”. Quando mettiamo il capestro attorno al collo degli animali non li prendiamo con la forza o con l’astuzia? O quando si condanna al capestro un uomo, non si usa, forse, la forza? E uno scapestrato chi è, se non un individuo “senza capestro”, cioè una persona che conduce una vita sfrenata, disordinata, priva di regole perché la sua mente non è “atta a prendere e, quindi, a contenere le idee”? Ma non finisce qui. Se non abbiamo preso una topica, con ‘capestro’ si intende anche un abito femminile scollato. E qui attendiamo eventuali smentite dalle gentili blogghiste.
* * *
Navigando nella Rete ci siamo imbattuti in questi divertenti strafalcioni grammaticali, ve li proponiamo. Cliccate su:
http://chiacchierona79.blogspot.it/2009/10/una-serie-di-irresistibili-strafalcioni.html
domenica 28 ottobre 2012
Il soldo e il soldato
Forse non tutti sanno che c’è una “parentela etimologica” tra il soldo e il soldato. Vogliamo vederla? Anzi, scoprirla? Cominciamo dal soldo, che è una moneta – ormai scomparsa dalla circolazione – di basso valore: la ventesima parte di una lira (prima dell’avvento dell’euro). Il suo valore, dunque, era talmente infimo che noi, per mettere in risalto il fatto che una determinata cosa non vale assolutamente nulla diciamo, infatti, che “non vale un… soldo”. In origine, però, non era affatto cosí: il termine soldo indicava una moneta pesantissima e, per tanto, di ‘immenso’ valore. Si pensi ai Romani, che chiamavano “nummus aureus solidus” o, semplicemente, “solidus” , la moneta (‘nummus’) di oro massiccio. Il termine, dunque, ha cambiato di significato (si fa per dire) per il mutare dei costumi e delle condizioni storiche in cui vivono i parlanti: la perdita di valore della moneta ha tolto valore anche al suo nome. Questa premessa sul soldo per vedere, appunto, la parentela con il soldato. Occorre, però, tornare indietro nel tempo in cui gli eserciti erano formati dai cosí detti mercenari, vale a dire da gente che si metteva a disposizione, o meglio al servizio, di un signore o di uno Stato ricevendone un compenso. Questo compenso era chiamato ‘soldo’ (perché consisteva in moneta, ‘solidus’) e coloro che lo percepivano erano chiamati “assoldati”, vale a dire arrolati per guadagnarsi il ‘soldo’. Da assoldato – per il solito processo linguistico – è venuto il “soldato”, termine che si è conservato anche ora che i soldati non sono piú mercenari. E a proposito di mercenari, il vocabolo non vi dice nulla? Analizziamolo assieme: dal latino “mercenarius”, derivato di ‘mercedem’ (mercede, paga). Il mercenario, quindi, è «colui che serve gli altri per mercede». Il vocabolo era molto “in voga” alla fine del Medio Evo e nel Rinascimento in quanto designava, appunto, le truppe mercenarie, che servivano chi piú pagava, combattendo senza passione e senza ‘fede’ (politica).
sabato 27 ottobre 2012
Dopo gli strafalcioni linguistici medicali, quelli "pazientali"
Dopo gli strafalcioni dei medici, quelli dei pazienti.
RUBATA L'AMBULANZA MENTRE VIENE SOCCORSO IL FERITO. (dai giornali)
Certi medici dovrebbero ricordarsi del giuramento d'Ipocrita!
Scusi, per fare la tacchete devo pagare il ticchete?
Scusi è lei l'allegrologo?
Sono piena di irruzioni cutanee ... ho una serpes in bocca..., uno zagarolo nell'occhio e un ex zeman nell'orecchio.
Dottore, le ho portato i globuli rossi di mio marito.
La bambina piange per un nonnulla, è una bambina sensitiva.
Lei è diabetica?
Ultimamente no!
Lei è cardiopatico?
Non sempre.
Per fortuna il male è retrocesso... e lui è vivo e vegetariano.
Mia moglie usa la spiraglia.
Signora, lei è portatrice di pace-maker?
Guardi, la marca della spirale non la conosco.
A mio figlio l'hanno portato nella camera iberica.
La visita la devo pernottare con la sua segretaria?
Mio zio ha avuto una parete facciale... e un'ottusione intestinale.
A mia suocera le hanno esportato un seno.
La bambina ha ancora i denti al latte... e una forte decadenza di calcio.
Scusi, dottore, la scoliosi multipla è una malattia ereditiera?
Mia zia ha avuto una crisi ostetrica... il delirium tremendis... ed è in protesi riservata.
Dottore, soffro di amnistia, non ho più una precisa lozione del tempo.
Mio suocero ha avuto un girone di testa ed un'emozione cerebrale; ora è in coma irresistibile.
SORTEGGIO FRA AMMALATI PER UN POSTO IN SALA OPERATORIA. (dai giornali)
E' stato un colpo contundente?
No, contro un occhio.
Il dottore mi ha controllato i battenti del cuore... ho settantadue pulsanti al minuto.
Come sta suo marito?
Secondo me sta migliorando, oggi si lamenta meglio.
Dottore, certi momenti mio suocero fissa il vuoto; è come se cadesse in calesse.
Signora, mi auguro che lei migliori.
Anche lei, dottore!
(www.exmontevecchio.com)
RUBATA L'AMBULANZA MENTRE VIENE SOCCORSO IL FERITO. (dai giornali)
Certi medici dovrebbero ricordarsi del giuramento d'Ipocrita!
Scusi, per fare la tacchete devo pagare il ticchete?
Scusi è lei l'allegrologo?
Sono piena di irruzioni cutanee ... ho una serpes in bocca..., uno zagarolo nell'occhio e un ex zeman nell'orecchio.
Dottore, le ho portato i globuli rossi di mio marito.
La bambina piange per un nonnulla, è una bambina sensitiva.
Lei è diabetica?
Ultimamente no!
Lei è cardiopatico?
Non sempre.
Per fortuna il male è retrocesso... e lui è vivo e vegetariano.
Mia moglie usa la spiraglia.
Signora, lei è portatrice di pace-maker?
Guardi, la marca della spirale non la conosco.
A mio figlio l'hanno portato nella camera iberica.
La visita la devo pernottare con la sua segretaria?
Mio zio ha avuto una parete facciale... e un'ottusione intestinale.
A mia suocera le hanno esportato un seno.
La bambina ha ancora i denti al latte... e una forte decadenza di calcio.
Scusi, dottore, la scoliosi multipla è una malattia ereditiera?
Mia zia ha avuto una crisi ostetrica... il delirium tremendis... ed è in protesi riservata.
Dottore, soffro di amnistia, non ho più una precisa lozione del tempo.
Mio suocero ha avuto un girone di testa ed un'emozione cerebrale; ora è in coma irresistibile.
SORTEGGIO FRA AMMALATI PER UN POSTO IN SALA OPERATORIA. (dai giornali)
E' stato un colpo contundente?
No, contro un occhio.
Il dottore mi ha controllato i battenti del cuore... ho settantadue pulsanti al minuto.
Come sta suo marito?
Secondo me sta migliorando, oggi si lamenta meglio.
Dottore, certi momenti mio suocero fissa il vuoto; è come se cadesse in calesse.
Signora, mi auguro che lei migliori.
Anche lei, dottore!
(www.exmontevecchio.com)
venerdì 26 ottobre 2012
Strafalcioni linguistici medicali
Povera lingua nostra, maltratta, calpestata, anzi “sconosciuta”. Facciamoci quattro risate – amare – sugli strafalcioni dei medici.
Si invia per accertamenti: la paziente è affetta da tutti i dolori di questo mondo. (referto)
Riferisce di essere stata colpita accidentalmente alla bocca dal telecomando del televisore sfuggito involontariamente di mano al marito. (referto)
Non appena abbiamo iniziato a prestare le prime cure, il paziente è deceduto. (referto di guardia medica)
AVVISO: PER EVITARE PERDITE DI TEMPO TENETE PRONTI I VOSTRI SINTOMI.
Si richiede Rx cranio senza cervello.
Aulin buste. Due buste al giorno per quattro giorni. Velamox compresse. Due compresse al giorno per cinque giorni. Dal quinto giorno continuare alternando due giorni l'uno e due giorni l'altro per altri cinque giorni.
Pronto, dottore, mi scriva qualcosa per l'alito cattivo e più tardi passo in studio a prendere la ricetta.
No, non occorre, gliela lascio in portineria!
I DENTI VANNO SPAZZOLATI DAL BASSO VERSO L'ALTO E DALL'ALTO VERSO IL BASSO E MAI VICEVERSA.
Si richiede Rx articolazioni sacro-iliade.
In questi giorni c'è in giro molta gente a letto con l'influenza.
(www.exmontevecchio.com)
Si invia per accertamenti: la paziente è affetta da tutti i dolori di questo mondo. (referto)
Riferisce di essere stata colpita accidentalmente alla bocca dal telecomando del televisore sfuggito involontariamente di mano al marito. (referto)
Non appena abbiamo iniziato a prestare le prime cure, il paziente è deceduto. (referto di guardia medica)
AVVISO: PER EVITARE PERDITE DI TEMPO TENETE PRONTI I VOSTRI SINTOMI.
Si richiede Rx cranio senza cervello.
Aulin buste. Due buste al giorno per quattro giorni. Velamox compresse. Due compresse al giorno per cinque giorni. Dal quinto giorno continuare alternando due giorni l'uno e due giorni l'altro per altri cinque giorni.
Pronto, dottore, mi scriva qualcosa per l'alito cattivo e più tardi passo in studio a prendere la ricetta.
No, non occorre, gliela lascio in portineria!
I DENTI VANNO SPAZZOLATI DAL BASSO VERSO L'ALTO E DALL'ALTO VERSO IL BASSO E MAI VICEVERSA.
Si richiede Rx articolazioni sacro-iliade.
In questi giorni c'è in giro molta gente a letto con l'influenza.
(www.exmontevecchio.com)
giovedì 25 ottobre 2012
Acchinare e addopare
Tra le parole che ci piacerebbe fossero rispolverate e rimesse a lemma nei vocabolari segnaliamo i verbi “acchinare” e “addopare”, ed entrambi si possono coniugare nella forma intransitiva pronominale. Il primo sta per “umiliare”: Giovanni, per favore, non acchinare quella povera donna indifesa. Il secondo vale “nascondere”: Giulio ha addopato quanto non voleva che stesse in bella vista.
http://www.dizionario.org/d/index.php?pageurl=acchinare&searchfor=acchinare&searching=true
http://www.dizionario.org/d/index.php?pageurl=addopare&searchfor=addopare&searching=true
mercoledì 24 ottobre 2012
Sul corretto uso della punteggiatura
Segnaliamo, sull'argomento, gli articoli di Giuseppe Antonelli, Luca Serianni, Sandro Veronesi, Francesca Serafini.
Si clicchi su:
http://www.treccani.it/magazine/lingua_italiana/speciali/uso_punteggiatura/mainSpeciale.html
domenica 21 ottobre 2012
Ad alcuni la fortuna capita dormendo
Chissà quanti amici blogghisti vorrebbero che questo modo di dire “prendesse corpo” anche per loro. L’espressione, di origine francese, non abbisogna assolutamente di spiegazioni tanto è intuitivo il significato: molte persone hanno tutto ciò che desiderano senza la minima fatica, senza muovere un dito, come usa dire. La locuzione – probabilmente non molto conosciuta – è tratta da un episodio che alcuni autori attribuiscono a Enrico III, altri a Luigi XI. Un giorno il sovrano (Enrico III? Luigi XI?) entrato nella chiesa di Nostra Signora di Aléry per assistere ai Vespri, fu avvicinato da un invadente prelato, che chiedeva benefizi. Il re, seccatissimo di quell’invadenza, si guardò attorno e notò un prete che dormiva tranquillamente in un angolo della chiesa. Il sovrano, a quella vista, chiamò uno del suo seguito e ordinò che fosse concesso quanto aveva chiesto il prelato a quel pretino, che nulla aveva preteso, ovviamente, perché dormiva.
sabato 20 ottobre 2012
Sul complemento di specificazione
L’argomento, forse, è stato già trattato, onestamente non ricordiamo; nel caso ci scusiamo. Vogliamo parlare del complemento di specificazione, definito dai grammatici «un sostantivo che si unisce a un altro nome generico per “specificarlo” meglio, per meglio determinarne il significato»; è sempre preceduto dalla preposizione “di” (semplice o articolata) e risponde alla domanda sottintesa “di chi?”, “di che cosa?”: abbiamo letto le poesie di Giovanni Pascoli. Come si può facilmente evincere “Giovanni Pascoli” è il complemento di specificazione. E fin qui, nulla di… “strano”. Ciò che, probabilmente, molti non sanno è che il complemento di specificazione a sua volta si divide in altri complementi (che non tutti i “sacri testi” riportano) denominati “specificazione dichiarativa”, “specificazione attributiva”, “specificazione possessiva”. Gli esempi che seguono renderanno il tutto piú chiaro. Quando diciamo “il vizio del bere è dannoso” oppure “l’albero del melo è fiorito”, adoperiamo la “specificazione dichiarativa” in quanto “dichiariamo”, appunto, che è dannoso “il bere” ed è fiorito “il melo”. Se diciamo, invece, “la vittoria dei nemici” o “i re di Spagna” abbiamo una “specificazione attributiva” perché “nemici” e “ Spagna” possono essere sostituiti con un attributo: la vittoria “nemica” e i re ”spagnoli”. “Il gatto del mio vicino è bello”, “il libro di Giovanni è interessante” sono, invece, complementi di “specificazione possessiva” – e si intuisce facilmente – perché indicano, per l’appunto, il possesso (il vicino possiede il gatto, Giovanni possiede il libro). Stavamo per dimenticare la “specificazione soggettiva” e quella “oggettiva”. Rimediamo subito. “Il lavoro dell’insegnante è faticoso”; dell’insegnante, si capisce subito, è specificazione soggettiva. “Il vento è foriero di pioggia”; di pioggia è complemento di specificazione oggettiva perché la frase si può benissimo trasformare in “il vento ‘annuncia’ la pioggia”. Forse siamo stati un po’ troppo pedanti, ma non possiamo sottacere il fatto che molti studenti della “scuola di oggi” non riescono a cogliere nel complemento di specificazione le varie sfumature, quelle testé viste, appunto. Ciò, a nostro modo di vedere, va a discapito del buon uso della lingua italiana.
giovedì 18 ottobre 2012
L' «elmintofilo»
Gentilissimo dott. Raso,
le sono veramente grato per la sua tempestiva ed esauriente risposta al mio quesito su “mezzo ubriaca”. Approfitto della sua non comune disponibilità per un’altra domanda. Esiste un termine atto a indicare la persona che ama i vermi? Il mio bambino ci va letteralmente a caccia. Ho cercato nei vari dizionari in mio possesso, ma non sono approdato a nulla. Confido in lei.
Grazie e cordiali saluti
Fulvio Q.
Como
----------------
Cortese amico, sí, c’è un termine anche se non attestato nei vocabolari: ELMINTOFILO. È tratto da “elmintologia”, la scienza che si occupa dello studio dei vermi. Dal “Treccani” in rete: « elminto- [dal gr. ἕλμινς -ινϑος «verme»]. – Primo elemento di parole composte formate modernamente nel linguaggio scient., che significa «verme, vermi» o indica comunque relazione con vermi, soprattutto quelli parassiti. Nella terminologia lat. scient., gli corrisponde helmintho-. È usato anche, al plur., come secondo elemento per la formazione di alcuni termini della classificazione zoologica, per es. nematelminti, platelminti, ecc. (corrispondente al lat. scient. -helminthes)».
le sono veramente grato per la sua tempestiva ed esauriente risposta al mio quesito su “mezzo ubriaca”. Approfitto della sua non comune disponibilità per un’altra domanda. Esiste un termine atto a indicare la persona che ama i vermi? Il mio bambino ci va letteralmente a caccia. Ho cercato nei vari dizionari in mio possesso, ma non sono approdato a nulla. Confido in lei.
Grazie e cordiali saluti
Fulvio Q.
Como
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Cortese amico, sí, c’è un termine anche se non attestato nei vocabolari: ELMINTOFILO. È tratto da “elmintologia”, la scienza che si occupa dello studio dei vermi. Dal “Treccani” in rete: « elminto- [dal gr. ἕλμινς -ινϑος «verme»]. – Primo elemento di parole composte formate modernamente nel linguaggio scient., che significa «verme, vermi» o indica comunque relazione con vermi, soprattutto quelli parassiti. Nella terminologia lat. scient., gli corrisponde helmintho-. È usato anche, al plur., come secondo elemento per la formazione di alcuni termini della classificazione zoologica, per es. nematelminti, platelminti, ecc. (corrispondente al lat. scient. -helminthes)».
mercoledì 17 ottobre 2012
"Mezzo" ubriaca e "tutta" nuda
Cortese dott. Raso,
ho scoperto per caso il suo prezioso blog, mi permetta di complimentarmi per il “servizio” che offre a noi blogghisti. Mi rivolgo, dunque, a lei per un quesito. Ho letto su un giornale locale che «la donna fermata dalle forze dell’ordine era ‘tutta’ nuda e ‘mezzo’ ubriaca». Quel “mezzo” mi lascia perplesso. Perché ‘mezzo’ e non ‘mezza’, trattandosi di una donna? Grazie in anticipo, se mi risponderà.
Fulvio Q.
Como
-----------
Quel “mezzo”, gentile Fulvio, è correttissimo. E la ragione sta nel fatto che “mezzo” può essere tanto avverbio quanto aggettivo, a differenza di “tutto” che è solo aggettivo. Mezzo, dunque, come aggettivo concorda nel genere e nel numero con il sostantivo al quale è preposto: mezza mela; mezzi sigari; mezze pagine; mezzi fogli. Quando, invece, è posposto al sostantivo al quale è unito con una ‘e’ resta invariato in quanto diventa ‘sostantivo’ con il significato di “una metà”: due ore e mezzo, cioè due ore e “una metà” di un’ora; cinque chili e mezzo, vale a dire cinque chili e “una metà” di un chilo. Resta altresì invariato, con valore avverbiale e significato di ‘a metà’, quando (mezzo) è unito a un aggettivo per attenuarne il significato: ragazze ‘mezzo’ matte, cioè matte ‘a metà’; la casa era ‘mezzo’ diroccata, ossia diroccata ‘a metà’; le luci sono ‘mezzo’ spente, spente a metà. “Mezzo ubriaca”, quindi, rientra perfettamente nella ‘regola’ sopra citata. Nell’uso, però, queste distinzioni non vengono osservate, anche se è un errore scrivere, per esempio, le “cinque e mezza”, in luogo delle “cinque e mezzo”.
martedì 16 ottobre 2012
Trovare la quadratura del cerchio
A proposito della “quadratura del cerchio”, il prof. Michele Caiafa ci ha inviato questa lettera autorizzandoci a pubblicarla.
In riferimento a "quadrare il cerchio" del 2 luglio 2010 non è come dice
Lindemann. Le risposte definitive le può dare solo il Padre Eterno. Lindemann
era un matematico che ha strafatto. Visto che siete così precisi nel parlare
della lingua italiana, secondo me, avrebbe dovuto dire che lui non era in grado
di quadrare il cerchio. Io dico semplicemente questo: la Matematica è una
disciplina, la Geometria è un'altra e il disegno non è nè matematica e nè
geometria, è un'altra materia.
Per quadrare il cerchio occorre una costruzione geometrica; se un matematico è
bravo può dimostrare se la costruzione geometrica è esatta. Ma siccome sono
presuntuosi, arroganti e saccenti, con queste doti possono solo dimostrare e
dichiarare il falso. Una costruzione geometrica è un disegno anche se in questo
caso si usano solo rette e circonferenze, alla maniera purista dei greci. Il
bel parlare e il bello scrivere è necessario quando (però) non si fanno errori
di contenuto. La forma è importante ma il contenuto non è da meno. Quadrare il
cerchio non è impossibile anzi .....
Distinti saluti
Michele Caiafa
Professore Emerito di disegno e storia dell'arte
San Severo (FG)
lunedì 15 ottobre 2012
Un errore "mortale" e un errore "veniale"
Scartabellando tra le nostre cose, ci è capitato tra le mani un inserto linguistico, curato da Paolo Granzotto, del quotidiano "Il Giornale" di qualche anno fa. L'inserto, a fascicoli settimanali, era "Perché parliamo italiano". Visto l’interessantissimo argomento, abbiamo cominciato a sfogliare qualche pagina, ravvisandovi due errori: uno veniale (matita rossa), l'altro mortale (matita blu).
Cominciamo dal veniale. Scrive Granzotto: L'associazione è "a" delinquere, non "per" delinquere. Volendo sottilizzare la forma "piú corretta" è proprio quella che lui dà come errata. Errore mortale: Supplettivo. Mi raccomando la doppia "p". Giustissimo. Raddoppia la "p", non la "t". La grafia corretta è: suppletivo.
Cominciamo dal veniale. Scrive Granzotto: L'associazione è "a" delinquere, non "per" delinquere. Volendo sottilizzare la forma "piú corretta" è proprio quella che lui dà come errata. Errore mortale: Supplettivo. Mi raccomando la doppia "p". Giustissimo. Raddoppia la "p", non la "t". La grafia corretta è: suppletivo.
domenica 14 ottobre 2012
Esser doppio come le cipolle
Ecco un modo di dire – forse sconosciuto ai piú – che rende magistralmente l’idea di una persona falsa, ipocrita. Si dice, in particolare, di colui (o colei, ovviamente) che non fa mai capire ciò che realmente pensa, che nasconde sempre qualcosa. L’origine della locuzione – adoperata in senso figurato, naturalmente – ci sembra quanto mai intuitiva: la persona ipocrita viene paragonata alla cipolla, che si compone di molteplici strati sovrapposti. E a proposito di cipolla, come non accennare a un altro modo di dire, anche questo, forse, poco conosciuto, ma messo in atto da tutti (soprattutto nelle giornate fredde invernali): “coperto come una cipolla”? Si dice cosí, infatti, di una persona che, per ripararsi dal freddo, indossa molti indumenti, uno sopra l’altro. In questo caso, ci sembra evidente, gli indumenti alludono ai vari strati della cipolla.
sabato 13 ottobre 2012
Festa da ballo? Per carità! Festa "di" ballo
Probabilmente ci ripetiamo, e nel caso ci scusiamo, ma come dicevano i nostri antenati Latini… Ci riferiamo all’uso improprio, per non dire errato, della preposizione ‘da’. La grande stampa, quella, come usa dire, che “fa opinione”, continua imperterrita a sfornare titoli del tipo “nozze da favola”, “giornata da incubo”, “festa da ballo” e simili. Bene, anzi male, malissimo: quel ‘da’- contrariamente a quanto sostengono alcuni vocabolari e vari sacri testi grammaticali – è errato. Si deve dire “nozze ‘di’ favola”. Perché? Il motivo è semplicissimo. La preposizione ‘da’ è adoperata correttamente solo per indicare la destinazione, l’attitudine o l’idoneità di qualcosa: sala ‘da’ ballo (destinata al ballo); bicicletta ‘da’ corsa; veste ‘da’ camera; pianta ‘da’ frutto ecc. Il suo uso è scorretto, e occorre adoperare la preposizione ‘di’, quando si parla di una qualità specifica di una determinata cosa e non di un’occasionale destinazione. Si dirà correttamente, quindi: festa ‘di’ ballo; nozze ‘di’ favola; uomo ‘di’ spettacolo; notte ‘di’ inferno e via discorrendo. Una regola empirica ci aiuta nell’uso del ‘da’ o del ‘di’. Quando il sostantivo che segue la preposizione ‘da’ può essere sostituito con un aggettivo o si può formare una proposizione relativa, la preposizione ‘da’ va cambiata in ‘di’. Una vita ‘da’ inferno, per esempio, può essere cambiata in ‘vita infernale’ o in vita ‘che è un inferno’, in questo caso, quindi, la preposizione ‘da’ va sostituita con la preposizione ‘di’. Ancora. Una notte ‘da’ favola si può trasformare in una ‘notte favolosa’ o in una ‘notte che è una favola’. Quindi: notte ‘di’ favola. Unica eccezione: biglietto da visita. Questa locuzione, benché ‘errata’, è ormai una forma cristallizzata nell’uso. Le eccezioni, si sa, confermano le regole.
venerdì 12 ottobre 2012
Fare una sabatina
Ecco una locuzione – non desueta, ma probabilmente poco conosciuta – che si adopera quando si vuole mettere in particolare evidenza la “gola” di una persona. In origine voleva dire, infatti, fare una cena molto succulenta dopo la mezzanotte del sabato (donde il nome ‘sabatina’). Nei tempi andati, per aggirare il precetto della vigilia si usava, appunto, fare la sabatina (cena) e questa usanza era particolarmente sentita da coloro che terminavano il lavoro nella tarda serata del sabato.
Leggiamo da Nicola Basile. «Sotto il pontificato di Innocenzo X s’incominciò ogni sabato d’agosto a schiudere il chiavicone che allora era situato sotto la fontana del Moro (a piazza Navona, ndr), e la piazza nella sua parte concava era inondata in men di due ore. E lí gente che guazzava finché le campane annunziavano mezzanotte, che era l’ora della cena detta sabatina».
La grande piazza, ora, non viene piú allagata e l’usanza della “sabatina” è tramontata, ma il modo di dire è rimasto (anche se poco conosciuto) e si dice di persone, appunto, che amano mangiare e bere smoderatamente.
A questa locuzione si contrappone “far la cena di Salvino”, cioè orinare e andare a… letto. Non sono noti altri particolari di questo modo di dire; non si sa chi fosse tal Salvino e perché si attenesse scrupolosamente a un regime di cosí austera frugalità. L’espressione, comunque, è di uso prettamente popolare.
Leggiamo da Nicola Basile. «Sotto il pontificato di Innocenzo X s’incominciò ogni sabato d’agosto a schiudere il chiavicone che allora era situato sotto la fontana del Moro (a piazza Navona, ndr), e la piazza nella sua parte concava era inondata in men di due ore. E lí gente che guazzava finché le campane annunziavano mezzanotte, che era l’ora della cena detta sabatina».
La grande piazza, ora, non viene piú allagata e l’usanza della “sabatina” è tramontata, ma il modo di dire è rimasto (anche se poco conosciuto) e si dice di persone, appunto, che amano mangiare e bere smoderatamente.
A questa locuzione si contrappone “far la cena di Salvino”, cioè orinare e andare a… letto. Non sono noti altri particolari di questo modo di dire; non si sa chi fosse tal Salvino e perché si attenesse scrupolosamente a un regime di cosí austera frugalità. L’espressione, comunque, è di uso prettamente popolare.
giovedì 11 ottobre 2012
Interrogative «nucleari»
Tranquilli, amici blogghisti, non abbiamo intenzione alcuna di impartirvi delle lezioni di fisica nucleare; non è un argomento di nostra pertinenza e, oltretutto, non saremmo neanche all’altezza. Vogliamo parlarvi, piú modestamente, di una particolarità della linguistica, ignorata – come abbiamo avuto modo di denunciare altre volte – dalla quasi totalità dei sacri testi grammaticali. Siamo fermamente convinti, infatti, del… fatto che pochi lettori di questo portale hanno sentito parlare delle frasi interrogative nucleari, anche se vengono adoperate, inconsciamente, nel linguaggio di tutti i giorni. Prima vediamo che cosa si intende per “frase interrogativa”, e qui basta consultare una qualsivoglia grammatica della lingua italiana: le frasi interrogative pongono una domanda e sono caratterizzate dall’intonazione ascendente per quanto attiene alla pronuncia e dal punto interrogativo per quanto riguarda la scrittura. Bene. Queste frasi - ed è ciò che non tutte le grammatiche riportano - a loro volta si suddividono in interrogative ‘totali’ (o ‘connessionali’) e in interrogative ‘nucleari’ (o ‘parziali’). Appartengono al primo gruppo le frasi interrogative in cui la domanda verte preminentemente sul legame tra soggetto e predicato; quando, insomma, l’interrogazione riguarda tutto l’insieme della frase: hai visto Giovanni? Vuoi leggere un bel libro? Vi andrebbe di uscire? In questo tipo di interrogative (‘totali’) la risposta che ci si deve attendere è un ‘sí’ o un ‘no’, vale a dire la conferma o la negazione di quanto formulato nella domanda: hai visto Giovanni? No (non l’ho visto). Talvolta l’avverbio olofrastico di risposta (il ‘sí’ e il ‘no’) può essere inespresso come, per esempio, nella frase “ti è piaciuto quel libro?” Abbastanza (il sí olofrastico è, appunto, sottinteso). Se la risposta che ci si attende è, invece, un ‘grazie’, per non restare incerti sulle varie intenzioni dell’interlocutore è bene ripetere la domanda con la formula “grazie sí o grazie no?”
E veniamo al secondo gruppo, vale a dire alle interrogative ‘nucleari’ (o ‘parziali’), cosí chiamate in quanto si riferiscono al “nucleo”, al nocciolo dell’intera frase. Si chiama ‘nucleare’, in grammatica generativa, il nocciolo di una proposizione, vale a dire i componenti elementari che ne costituiscono, appunto, il nucleo, cioè il soggetto, il predicato verbale e, eventualmente, il complemento oggetto. Appartengono alle interrogative ‘nucleari’ (o ’parziali’), dunque, le proposizioni interrogative in cui la domanda riguarda esclusivamente uno degli elementi che compongono il nucleo; quando, insomma, il legame soggetto-predicato non è messo minimamente in discussione, ma si sollecita una precisa informazione su un altro elemento nucleare della frase (soggetto, oggetto o complemento indiretto) e la risposta che ci si attende è, appunto, la precisazione dell’elemento “sconosciuto”: chi parla? (qualcuno parla, ma chi?). Le interrogative nucleari si riconoscono facilmente perché sono sempre introdotte da specifici elementi d’interrogazione quali aggettivi, pronomi o avverbi (chi, quale, che cosa, come, dove, perché) preceduti, eventualmente, da preposizioni o locuzioni preposizionali. Vediamo ancora qualche esempio di interrogative nucleari per meglio ‘focalizzare’ l’argomento. E qui gli esempi che proponiamo sono quelli del “linguaggio di tutti i giorni”: dove abiti? , quando torni?, chi ti ha scritto’, che cosa intendi fare?, a chi telefoni? E la risposta che ci si attende – come dicevamo – è la precisazione dell’elemento del “nucleo” a noi sconosciuto: il luogo (dove abiti?), il tempo (quando torni?), l’identità (a chi telefoni?). Peccato che i sacri testi, si fa per dire, non prendano nella dovuta considerazione il fatto che queste cose interessino a coloro che amano il bel parlare e il bello scrivere, riservando l’argomento solo agli… eletti. No amici, cosí si rende un cattivo servigio alla nostra bella lingua; soprattutto in questo momento in cui la lingua di Albione la fa da padrona in tutti i campi. No, non ci stiamo… E a proposito di interrogative, attenzione all’interrogazione e all’… interrogatorio, non sono sinonimi, ma due termini ben distinti. Non vorremmo leggere ancora – da una grande “firma” del giornalismo – che «l’imputato è stato sottoposto a una stressante interrogazione da parte dell’autorità giudiziaria». Forse costui andrebbe sottoposto a una stressante interrogazione sul buon uso della lingua di Dante. O no?
E veniamo al secondo gruppo, vale a dire alle interrogative ‘nucleari’ (o ‘parziali’), cosí chiamate in quanto si riferiscono al “nucleo”, al nocciolo dell’intera frase. Si chiama ‘nucleare’, in grammatica generativa, il nocciolo di una proposizione, vale a dire i componenti elementari che ne costituiscono, appunto, il nucleo, cioè il soggetto, il predicato verbale e, eventualmente, il complemento oggetto. Appartengono alle interrogative ‘nucleari’ (o ’parziali’), dunque, le proposizioni interrogative in cui la domanda riguarda esclusivamente uno degli elementi che compongono il nucleo; quando, insomma, il legame soggetto-predicato non è messo minimamente in discussione, ma si sollecita una precisa informazione su un altro elemento nucleare della frase (soggetto, oggetto o complemento indiretto) e la risposta che ci si attende è, appunto, la precisazione dell’elemento “sconosciuto”: chi parla? (qualcuno parla, ma chi?). Le interrogative nucleari si riconoscono facilmente perché sono sempre introdotte da specifici elementi d’interrogazione quali aggettivi, pronomi o avverbi (chi, quale, che cosa, come, dove, perché) preceduti, eventualmente, da preposizioni o locuzioni preposizionali. Vediamo ancora qualche esempio di interrogative nucleari per meglio ‘focalizzare’ l’argomento. E qui gli esempi che proponiamo sono quelli del “linguaggio di tutti i giorni”: dove abiti? , quando torni?, chi ti ha scritto’, che cosa intendi fare?, a chi telefoni? E la risposta che ci si attende – come dicevamo – è la precisazione dell’elemento del “nucleo” a noi sconosciuto: il luogo (dove abiti?), il tempo (quando torni?), l’identità (a chi telefoni?). Peccato che i sacri testi, si fa per dire, non prendano nella dovuta considerazione il fatto che queste cose interessino a coloro che amano il bel parlare e il bello scrivere, riservando l’argomento solo agli… eletti. No amici, cosí si rende un cattivo servigio alla nostra bella lingua; soprattutto in questo momento in cui la lingua di Albione la fa da padrona in tutti i campi. No, non ci stiamo… E a proposito di interrogative, attenzione all’interrogazione e all’… interrogatorio, non sono sinonimi, ma due termini ben distinti. Non vorremmo leggere ancora – da una grande “firma” del giornalismo – che «l’imputato è stato sottoposto a una stressante interrogazione da parte dell’autorità giudiziaria». Forse costui andrebbe sottoposto a una stressante interrogazione sul buon uso della lingua di Dante. O no?
mercoledì 10 ottobre 2012
Fare la pentola a due manichi
Questo modo di dire ha due distinti significati pur avendo la medesima origine. Il primo, conosciutissimo, è adoperato a ogni piè sospinto e si dice di persona che sta senza far nulla, che ozia, che poltrisce e, in senso lato, si dice anche di persone pigre. Il secondo significato – poco conosciuto – si riferisce a colui (o colei) che ama impartire ordini e basta. L’origine della locuzione ci sembra intuitiva: si rifà all’immagine di una persona, per lo piú di una certa grassezza, che se ne sta comodamente con le mani sui fianchi, senza far nulla, a “mirare” gli altri che, al contrario, lavorano incessantemente, venendo in tal modo ad assomigliare a una grossa pentola con due manichi (sic!). E sempre in tema di pentole, ci viene alla mente l’espressione “ogni pentola ha il suo coperchio”. Il detto, di origine proverbiale, appena ‘nato’ si adoperava per dire che ogni popolo ha i capi che si merita, e in questo senso, infatti, è citato anche da San Gerolamo. Oggi viene impiegato per dire che nella vita non c’è nulla di difficile, di strano, di brutto, di negativo e simili che non trovi qualcosa di adatto alla bisogna. Si adopera, insomma, per ricordare che non c’è problema, per quanto arduo, che non possa avere una sua soluzione. Dovrebbero esser note anche le varianti “non c’è pentola cosí brutta che non trovi il suo coperchio” e “ogni pentola trova il suo coperchio”.
martedì 9 ottobre 2012
Padre? Parola rizotonica
Non crediamo di sbagliare se affermiamo che molte persone, anche quelle cosí dette acculturate, alla vista del titolo strabuzzeranno gli occhi e parafrasando il Manzoni si domanderanno: «Rizotonica! Chi era costei?» . Sí, perché - come abbiamo ‘denunciato’ altre volte - buona parte dei sacri testi di lingua non riportano il gergo o glossario linguistico ritenendolo, forse, di esclusiva ‘proprietà’ degli addetti ai lavori. E sbagliano. La lingua è di tutti. Le persone assetate di… lingua hanno tutto il diritto di abbeverarsi a una fonte limpida e inesauribile. Vediamo, quindi, di colmare – sia pure modestamente – questa lacuna. Si chiamano rizotoniche – in lingua – le parole che hanno l’accento tonico (quello che si ‘legge’ ma non si segna graficamente) sulla radice o tema: pàdre; céna; sèdia; e, al contrario, si dicono rizoatone (o arizotoniche) le parole il cui accento cade sulla desinenza o sul suffisso: padríno; cenétta; sediòla (abbiamo segnato l’accento, in entrambi i casi, per mettere bene in evidenza la ‘tonicità’). Quando parliamo, quindi, senza rendercene conto, adoperiamo le une e le altre, sempre. I due termini, manco a dirlo, ‘odorano’ di greco essendo composti, infatti, con la parola greca ‘rhizo’ (da ‘rhiza’, radice). La differenza tra le parole rizotoniche e quelle rizoatone si nota, particolarmente, quando si coniuga un verbo il cui interno contiene un dittongo mobile: alle forme rizotoniche dittongate si contrappongono quelle rizoatone, con vocale semplice: viene, veniva; nuocere, nociuto; accieca, accecava; suonare, sonava.
lunedì 8 ottobre 2012
L'estro poetico
Vogliamo vedere perché l’ispirazione che guida l’artista nel creare un’opera si chiama ‘estro’? E perché quest’estro ha anche il significato di ‘capriccio’, ‘desiderio improvviso’? Ci affidiamo, per questo, alle sapienti note di Lodovico Griffa.
«Quando noi diciamo, di un poeta che “gli salta l’estro”, per dire che sente un’improvvisa ispirazione, non immaginiamo di usare, sia pure con una metafora, il linguaggio dei contadini che vivevano nell’antico Lazio tanti secoli fa, quando Roma era un piccolo villaggio sulle sponde del Tevere. Vi parrà strano; ma è proprio cosí. L’ “oestrus” era per quelle genti contadine il nostro tafàno, una specie di calabrone fastidiosissimo, che “salta” sui cavalli e li punge per succhiare il sangue. Naturalmente il cavallo reagisce al dolore improvviso della puntura agitandosi e scalpitando, dando segni di furore mal controllato. Cosí, pensa la gente, fanno i poeti (e gli artisti tutti, ndr) quando sono assaliti dall’ispirazione: si esaltano, si accendono, e… scrivono, in uno stato d’animo quasi furioso, come il cavallo punto dall’estro. Il nome del maligno insetto, è, perciò, diventato sinonimo di “stimolo”, interno o esterno, che provoca l’eccitazione poetica; e noi, oggi, senza saperlo, parliamo dei poeti come gli antichi abitatori del Lazio parlavano dei cavalli».
Quante sorprese ci riserva la storia della nostra lingua! Peccato che molti la calpestino.
http://www.etimo.it/?term=estro&find=Cerca
«Quando noi diciamo, di un poeta che “gli salta l’estro”, per dire che sente un’improvvisa ispirazione, non immaginiamo di usare, sia pure con una metafora, il linguaggio dei contadini che vivevano nell’antico Lazio tanti secoli fa, quando Roma era un piccolo villaggio sulle sponde del Tevere. Vi parrà strano; ma è proprio cosí. L’ “oestrus” era per quelle genti contadine il nostro tafàno, una specie di calabrone fastidiosissimo, che “salta” sui cavalli e li punge per succhiare il sangue. Naturalmente il cavallo reagisce al dolore improvviso della puntura agitandosi e scalpitando, dando segni di furore mal controllato. Cosí, pensa la gente, fanno i poeti (e gli artisti tutti, ndr) quando sono assaliti dall’ispirazione: si esaltano, si accendono, e… scrivono, in uno stato d’animo quasi furioso, come il cavallo punto dall’estro. Il nome del maligno insetto, è, perciò, diventato sinonimo di “stimolo”, interno o esterno, che provoca l’eccitazione poetica; e noi, oggi, senza saperlo, parliamo dei poeti come gli antichi abitatori del Lazio parlavano dei cavalli».
Quante sorprese ci riserva la storia della nostra lingua! Peccato che molti la calpestino.
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domenica 7 ottobre 2012
Ubbidire? Anche transitivo
Non tutti i vocabolari ne fanno menzione, ci sembra importante, però, spendere due parole sul verbo “ubbidire” perché può essere anche transitivo e, quindi, passivo. È transitivo, soprattutto, se si riferisce alla persona che dà ordini: Michele ubbidí suo padre. La forma transitiva è rara, per la verità, ma correttissima: «In che posso ubbidirla?», disse don Rodrigo, piantandosi in piedi nel mezzo della sala (Manzoni). Piú frequente la forma passiva: «… Ingiunzione forse saggia, ma che non venne mai ubbidita (Lampedusa).
http://www.etimo.it/?cmd=id&id=18954&md=e7239bb2ee93bb35b66141e39a8b1568
http://www.etimo.it/?cmd=id&id=18954&md=e7239bb2ee93bb35b66141e39a8b1568
sabato 6 ottobre 2012
Il gotha della lingua? L'avverbio
Ho letto l’intervento precedente sul “gotha”, cortese direttore del portale, e vorrei dirle che – a costo di essere tacciato di presunzione – io mi sento di appartenere a quel mondo, precisamente al gotha della lingua. Perché? Perché la mia presenza, anche se non è indispensabile come quella del verbo, dà un certo prestigio tanto ai discorsi quanto agli scritti. Sono, infatti, l’avverbio: quella parte invariabile del discorso che – come sono soliti definirmi i miei biografi – serve a modificare il significato di un verbo, di un aggettivo o di un altro avverbio. Il mio nome discende dal nobile latino, il padre della nostra lingua, “ad verbum” (accanto al verbo) perché, in linea di massima, mi trovo sempre vicino al verbo. Prima di questo o dopo. Posto prima, però, do una maggiore efficacia espressiva al discorso: cordialmente ti saluto. A differenza del verbo – come accennavo all’inizio – la mia presenza non è indispensabile, il discorso ‘fila’ lo stesso: ti saluto o cordialmente ti saluto, a prima vista, è la stessa cosa. Con me, però, il saluto acquisisce un pizzico di “nobiltà”, non è un semplice saluto, è un saluto cordiale. Il mio impiego ha modificato in meglio il verbo salutare, potremmo dire che lo ha “precisato”. Per la mia funzione, quindi, a seconda delle “precisazioni” o modificazioni che apporto al significato del verbo, mi divido in otto gruppi: avverbio di modo; di tempo; di luogo; di affermazione; di negazione; di quantità; di dubbio e aggiuntivo. Quest’ultimo, il cui nome è forse poco conosciuto, si chiama cosí perché ‘aggiunge’ qualcosa al valore dell’azione (anche, pure, perfino ecc.). Sono facilmente riconoscibile nel corso del discorso o della frase perché ogni gruppo del quale faccio parte risponde a una precisa domanda sottintesa. Ti saluto cordialmente : ti saluto (come? domanda sottintesa; cordialmente, risposta). Cordialmente è, per tanto, un avverbio di modo o maniera. Ancora. Partirò domani. Partirò (quando? domani, avverbio di tempo). Alla cerimonia c’era anche (avverbio aggiuntivo) il gotha del mondo culturale. Un’ultima annotazione alla quale tengo moltissimo. Quando finisco in ‘-one’ o ‘-oni’ posso essere preceduto o no dalla preposizione ‘a’: tentoni, cavalcioni, carponi ecc. Per non sbagliare, quindi, consultate un buon vocabolario.
Grazie, direttore, della sua ospitalità e un cordiale saluto ai suoi amici lettori.
L’Avverbio
* * *
Fare il bucato
Riteniamo interessante portare a conoscenza delle massaie, e delle persone in genere, perché il "lavaggio della biancheria" si chiama bucato.
Lo spiega, magistralmente, Ottorino Pianigiani, nel suo dizionario:
http://www.etimo.it/?term=bucato&find=Cerca
venerdì 5 ottobre 2012
Il «gotha» di...
Molto spesso ci capita di ascoltare nei servizi dei vari radiotelegiornali o di leggere sulla stampa frasi del tipo: «Alla cerimonia è intervenuto tutto il gotha della finanza». Vogliamo vedere che cosa è questo ‘gotha’? Occorre precisare, innanzi tutto, che ‘gotha’ è l’abbreviazione dell’ «Almanacco di Gotha», che si stampava nella città tedesca di Gotha, appunto, fino al 1944. In origine quest’almanacco conteneva le genealogie dei regnanti d’Europa e di tutti i nobili tedeschi; poi, via via, quelle dell’aristocrazia di altri Paesi e degli ordini cavallereschi. In senso figurato fanno parte del ‘gotha’, quindi, coloro che rappresentano la massima autorità in un determinato campo: il gotha degli scrittori; il gotha degli industriali; il gotha della finanza e via dicendo.
http://it.wikipedia.org/wiki/Almanacco_di_Gotha
mercoledì 3 ottobre 2012
Essere in balía di qualcuno
Per la spiegazione e l’origine di questo modo di dire che – come tutti sappiamo – significa “sottostare all’autorità, al potere assoluto di qualcuno”, occorre prendere il discorso alla lontana e rifarsi, come il solito, al… latino. Vediamo, dunque, che cosa è questo ‘balía’, che con il mutar dell’accento cambia anche di significato, pur discendendo dalla stessa “madre”. Balia (senza accento sulla ‘i’) proviene dal latino “bailus”, che significa ‘portatore’, ‘facchino’; il femminile “baiula” era, quindi, la portatrice (di bambini). Il verbo “baiulare” significava, infatti, ‘portar pesi’ e i bambini – lo sappiamo benissimo – ‘pesano’. Con il trascorrere del tempo, attraverso l’uso traslato o figurato, si cominciò a chiamare “bailus” colui che portava sulle spalle non un peso materiale, ma morale. Il termine, giunti a questo punto, acquisì, di volta in volta, l’accezione di ‘tutore’,’precettore’ (i precettori e i tutori portano sulle loro spalle il peso morale dell’educazione dei fanciulli), per arrivare, addirittura, al significato di ‘governatore’. L’italiano 'bailo', infatti, ai tempi della Repubblica di Venezia, era il titolo che spettava agli ambasciatori della Serenissima accreditati in Turchia. I nostri vicini Francesi mutarono ‘bailo’ in ‘baile’, dando questo titolo ai ministri di Stato e ai grandi dignitari di corte. La storia di questo ‘facchino’, però, non finisce qui. I discendenti dei Galli da ‘baile’ coniarono ‘bailli’, da cui il nostro ‘balí’ che, dagli inizi del XII secolo fino a tutto il Seicento stava ad indicare un alto ufficiale che amministrava la giustizia in nome del re o dei vari signori. Dal francese ‘bailli’ nasce, quindi, un altro sostantivo, ‘baillie’, con cui si indicavano l’autorità, il potere e la funzione di questo personaggio. Noi mutiamo il vocabolo francese ‘baillie’ in ‘balía’ (con la ‘i’ accentata), per distinguerlo da ‘balia’ e lo adoperiamo per tutto il Medio Evo per indicare il potere assoluto conferito alle magistrature ordinarie. ‘Balía’, per tanto, con il significato di ’potere’, ‘autorità’, lo troviamo nell’espressione “essere in balía di qualcuno” e nei vari sensi figurati: “essere in balía del vento”, “essere in balía delle onde”.
martedì 2 ottobre 2012
Obiettivo Affrica
Gentilissimo dott. Raso,
seguo sempre, e con molto interesse, le sue “noterelle” sul buon uso della lingua italiana; oggi, ahimè, sempre piú bistrattata. Le scrivo per una curiosità. In un vecchio libro, mi sembra degli anni Trenta del secolo scorso, mi sono imbattuto nella parola Africa scritta con due ‘f’ (Affrica): obiettivo Affrica. Vorrei sapere se quelle due ‘f’ sono un errore di stampa e se è corretto scrivere ‘obiettivo’ con una sola ‘b’.
Certo di una sua cortese risposta, la saluto cordialmente.
Oreste L.
Cremona
----------------
Cortese Oreste, la grafia «Affrica», negli anni Trenta, era perfettamente corretta perché ritenuta piú ‘dotta’ in quanto rispettava la “legge linguistica” del rafforzamento consonantico dopo la vocale iniziale nelle toniche sdrucciole. In seguito ha prevalso la grafia con una sola ‘f’ perché piú fedele all’origine latina del nome. Quanto a “obiettivo” o “obbiettivo”, sono corrette entrambe le grafie, anche se alcuni linguisti fanno un “distinguo”: una sola ‘b’ se obiettivo significa “scopo”, “fine” e simili: ho raggiunto il mio obiettivo (scopo); due ‘b’ se il termine sta a indicare le lenti di una macchina fotografia e di altri apparecchi ottici.
seguo sempre, e con molto interesse, le sue “noterelle” sul buon uso della lingua italiana; oggi, ahimè, sempre piú bistrattata. Le scrivo per una curiosità. In un vecchio libro, mi sembra degli anni Trenta del secolo scorso, mi sono imbattuto nella parola Africa scritta con due ‘f’ (Affrica): obiettivo Affrica. Vorrei sapere se quelle due ‘f’ sono un errore di stampa e se è corretto scrivere ‘obiettivo’ con una sola ‘b’.
Certo di una sua cortese risposta, la saluto cordialmente.
Oreste L.
Cremona
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Cortese Oreste, la grafia «Affrica», negli anni Trenta, era perfettamente corretta perché ritenuta piú ‘dotta’ in quanto rispettava la “legge linguistica” del rafforzamento consonantico dopo la vocale iniziale nelle toniche sdrucciole. In seguito ha prevalso la grafia con una sola ‘f’ perché piú fedele all’origine latina del nome. Quanto a “obiettivo” o “obbiettivo”, sono corrette entrambe le grafie, anche se alcuni linguisti fanno un “distinguo”: una sola ‘b’ se obiettivo significa “scopo”, “fine” e simili: ho raggiunto il mio obiettivo (scopo); due ‘b’ se il termine sta a indicare le lenti di una macchina fotografia e di altri apparecchi ottici.
lunedì 1 ottobre 2012
Malati di... "tifo"
I recenti giochi olimpici londinesi hanno coinvolto tutti gli italiani in una ‘febbre’ spasmodica per gli atleti azzurri; tutti tifavano per i nostri connazionali impegnati nelle varie gare. Vogliamo vedere, dunque, che cosa significa esattamente ‘tifare’ e come è nato questo verbo? Chiediamo aiuto al DELI.
Il greco ‘typhos’, di origine indeuropea, indicava, propriamente, un ‘fumo’, un vapore ma anche, metaforicamente, un offuscamento dei sensi ed era riferito a febbri che portavano il malato a uno stato di stupidità. Il trapasso a passione sportiva pare debba passare per l’intermedia espressione militare «fare lo svenevole». Mette conto di segnalare anche l’ipotesi di un accostamento allo spagnolo ‘tifus’ che nel gergo teatrale indica lo «spettatore con biglietto gratuito» e portato, quindi, ad applaudire con slancio. (…) Tifo, accolto in epoca non troppo lontana nella lingua sportiva, come generica indicazione di ‘malattia contagiosa’ ha subíto lentamente una trasformazione, scivolando nella nuova accezione di «passione sportiva» (..); alla base di tifo e tifoso è probabilmente una metafora nata dal confronto dell’alzarsi periodico delle febbri tifoidi con la febbre sportiva che ogni settimana esplode negli stadi.
Da tifo (o viceversa?) è nato il verbo tifare, cioè «fare il tifo per un atleta o per una squadra» e, per estensione, «essere fautore, sostenitore di qualcuno».
Il greco ‘typhos’, di origine indeuropea, indicava, propriamente, un ‘fumo’, un vapore ma anche, metaforicamente, un offuscamento dei sensi ed era riferito a febbri che portavano il malato a uno stato di stupidità. Il trapasso a passione sportiva pare debba passare per l’intermedia espressione militare «fare lo svenevole». Mette conto di segnalare anche l’ipotesi di un accostamento allo spagnolo ‘tifus’ che nel gergo teatrale indica lo «spettatore con biglietto gratuito» e portato, quindi, ad applaudire con slancio. (…) Tifo, accolto in epoca non troppo lontana nella lingua sportiva, come generica indicazione di ‘malattia contagiosa’ ha subíto lentamente una trasformazione, scivolando nella nuova accezione di «passione sportiva» (..); alla base di tifo e tifoso è probabilmente una metafora nata dal confronto dell’alzarsi periodico delle febbri tifoidi con la febbre sportiva che ogni settimana esplode negli stadi.
Da tifo (o viceversa?) è nato il verbo tifare, cioè «fare il tifo per un atleta o per una squadra» e, per estensione, «essere fautore, sostenitore di qualcuno».
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