giovedì 28 febbraio 2019

"Ivi", "quivi" o "qui"?

Gli avverbi quivi, qui e ivi sono l’uno sinonimo dell’altro? Si possono usare, insomma, indifferentemente? La questione è un po’ controversa: alcuni vocabolari attestano  “ivi” sinonimo di  “quivi” e viceversa. Il Sandron, per esempio, riporta: “quivi”, là, in quel luogo, ivi, nel luogo di cui si parla; facendo chiaramente intendere, quindi, che “ivi” e  “quivi” si possono adoperare indifferentemente. Quivi, invece, significa solo in quel luogo là ed è un errore – a nostro modo di vedere – adoperarlo al posto di qui, in questo luogo. Quivi, insomma, si deve usare quando si indica un luogo diverso dal quale si trova chi parla (o scrive) o chi ascolta. Diremo, quindi, correttamente, domani partirò per Piacenza e quivi (in quel luogo, là) ritroverò gli amici di un tempo.  Ciò che è anche importante mettere in evidenza – a nostro avviso – è il fatto che  “quivi” non è sinonimo di  “qui”, “in questo luogo”, come molti erroneamente credono. Quest’avverbio, infatti, non è un composto di  “qui” (latino ‘hic’) ma deriva dal latino “eccum ibi” e significa  “colà”, “là”, “in quel luogo”: domani partiremo per Cosenza e  “quivi” resteremo (resteremo, cioè,  là, in quel luogo). Quando compiliamo una domanda, per esempio, dobbiamo scrivere ivi residente (cioè nello stesso luogo di chi scrive) e non quivi. L’avverbio ivi, insomma, sta per lo stesso  luogo, lo stesso spazio. C’è da dire, però, che nell’uso corrente quivi e ivi si confondono. Attendiamo, naturalmente, la smentita di qualche (pseudo)linguista se, per caso, "inciampasse" in questo sito.

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Due parole sul verbo demolire perché molto spesso è adoperato - a nostro avviso - impropriamente, con il beneplacito dei vocabolari e di qualche linguista. Il verbo in oggetto, dunque, tratto dal latino "demoliri", composto con il prefisso "de-" (in basso, verso il basso) e "moliri" (abbattere), significa buttare giú, smantellare e simili: quel palazzo pericolante è stato demolito. È adoperato correttamente, quindi, con riferimento a cose concrete, materiali. È usato impropriamente (erroneamente?) con il significato di criticare, screditare, stroncare e simili: l'oratore ha demolito tutte le teorie precedenti.

lunedì 25 febbraio 2019

«Ci siamo portati sul posto»

«Subito dopo l'incidente ci siamo portati sul posto per i rilievi del caso». Se non fosse per la drammaticità dell'accaduto ci verrebbe da ridere per l'uso errato del verbo "portare". Eppure espressioni del genere si leggono nei verbali che riguardano gli incidenti stradali. Il significato primario del verbo in oggetto è - come riportano i vocabolari - «reggere un oggetto, un peso e simili spostandolo o trasportandolo in un determinato luogo»: portare il televisore dal tecnico; i bambini portano lo zaino in spalla; la mamma porta il bimbo dal medico; portare la scrivania in un'altra stanza. Il verbo portare, insomma - a nostro avviso - non si può adoperare "in tutte le salse" e con accezioni che non ha. Correttamente, quindi, "subito dopo l'incidente ci siamo recati sul posto". Vediamo qualche locuzione di uso corrente in cui il verbo portare - a nostro modesto parere - andrebbe/va sostituito con verbi appropriati: portare pazienza; portare a conoscenza; portare all'attenzione; ciò che sento mi porta a ritenere; portare rispetto; il tuo comportamento porta un brutto colpo alla tua fama. Concludendo, portar(si) non significa trasferirsi, andare, recarsi e simili. I vocabolari, però, ci smentiscono e, forse, anche qualche linguista. Ma tant'è.


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Due parole, due, sui  prefissi "porta-" (dal tema del verbo portare) e "posa-", (dal tema del verbo posare) perché non andrebbero adoperati indifferentemente. Il primo è atto a  designare oggetti fatti per portare (contenere) a lungo ciò che esprime il sostantivo (portaritratti, portapenne); il secondo serve per indicare oggetti su cui si appoggia (si posa) temporaneamente qualcosa (posaferro [da/per stiro], posacenere). Il portaritratti resta, non si getta; la cenere si getta e il ferro si toglie dal... posaferro. È bene ricordare, anche, che  posacenere è un sostantivo maschile invariabile: il posacenere, i posacenere. I sostantivi maschili formati con una voce verbale e un sostantivo femminile singolare ("posa", verbo e "cenere", sostantivo femminile) nella forma plurale non cambiano.

sabato 23 febbraio 2019

La speranza si incute o si infonde?

Abbiamo notato che alcune persone, anche quelle di una certa cultura, adoperano il verbo incutere* in modo improprio, ma forse sarebbe meglio dire in modo errato. Incutere, dunque, "andrebbe" adoperato (secondo l'etimologia) soltanto quando ci si riferisce a sensazioni o a sentimenti imposti (con la violenza). È usato correttamente, quindi, quando si incute paura, orrore, spavento, rispetto, soggezione e simili. Tutti sostantivi che richiamano la... "violenza". Non si incute, invece, l'ammirazione, il coraggio, l'amore, la fiducia, l'allegria, la speranza e simili. In casi come questi ci sono altri verbi che fanno, correttamente, alla bisogna: suscitare, infondere, dare, suggerire, destare. Il vocabolario Palazzi, non ha "peli sulla lingua": «incùtere tr. far nascere nell'animo altrui un sentimento che gli s'impone e lo domina: incutere rispetto, paura, terrore, spavento e sim.: ma non si incute amore, speranza, coraggio, meraviglia, e sim. ll N. infondere, ispirare, imprimere, suggerire, suscitare, soggiogare».

* Ricordiamo che non gode della fiducia di molti linguisti

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Vi rispondiamo… a prescindere!

(da "Risposte ai quesiti" dell'Accademia della Crusca)

giovedì 21 febbraio 2019

Impegnare un tavolo? No, prenotarlo


Riproponiamo quanto scrivemmo, qualche anno fa, circa il corretto uso del verbo “impegnare” perché… perché i media continuano ad adoperarlo impropriamente, se non in modo errato.

Le  persone  che  amano  scrivere  e  parlare  correttamente dovrebbero prestare molta attenzione – a nostro avviso – sull’uso del verbo impegnare, adoperato molto spesso in modo improprio (con la “complicità” – sempre a nostro modesto avviso – di alcuni vocabolari  permissivi).  Questo  verbo denominale,  dunque,  composto  con il prefisso “in-” e il sostantivo “pegno”, propriamente significa dare qualcosa in pegno (anche metaforicamente):  il  Tizio  ha  impegnato  tutti  i  mobili  di  casa  per  pagare  il  debito;  ha  impegnato  il  suo  onore  (uso  metaforico)  in  questa  faccenda.  Non  è  adoperato  correttamente    come  molti  fanno,  alla testa i mezzi di comunicazione di massa – nel significato di “attaccare battaglia” (i soldati hanno impegnato  una  feroce  battaglia);  nel  significato  di  “prenotare un tavolo” (ho impegnato un tavolo per domani sera); nel significato di “occupare una corsia”  e  simili  (l’automobile  ha  impegnato  la  corsia  di emergenza). In tutti questi casi ci sono verbi “specifici”, basta consultare un buon vocabolario della lingua italiana. Qui alcune espressioni corrette "coniate" con il suddetto verbo.


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Giornata Mondiale della Lingua Madre. A colloquio con Claudio Marazzini, presidente dell'Accademia della Crusca.

mercoledì 20 febbraio 2019

Bofonchiare: transitivo o intransitivo?


Una persona non avvezza alla lingua si trova in difficoltà quando consulta i vocabolari perché non tutti sono sulla stessa "lunghezza d'onda". Per quanto attiene al verbo "bofonchiare", per esempio, su dieci vocabolari quattro lo classificano tassativamente intransitivo, uno transitivo, i rimanenti cinque sono "pilateschi" o "salomonici": transitivo e intransitivo. Vediamo nel dettaglio. Garzanti: transitivo; Sabatini Coletti, Treccani, Devoto-Oli, Palazzi: intransitivo; Gabrielli, Olivetti, De Mauro, De Agostini, Zingarelli: transitivo e intransitivo. Come comportarsi, dunque? Poniamo la domanda ai compilatori dei vocabolari, sperando che si incontrino sulla via di Damasco.

martedì 19 febbraio 2019

Il lessico italiano e le "isole linguistiche" (regioni)


La lingua italiana, potremmo dire, è una  “summa” dei vari dialetti dove quello fiorentino (ma anche romano) fa la parte del leone grazie ai tre grandi del Trecento: Dante, Boccaccio e Petrarca che hanno elevato il fiorentino illustre ai piú alti fastigi. Negli ultimi decenni del Quattrocento e nei primi del Cinquecento tutti cercano di conformarsi, quindi, ai modelli letterari offerti dai Grandi: nasce – possiamo dire – la lingua  “nazionale”.  Insomma tra i vari idiomi  “fratelli” che si parlavano in tutto lo Stivale una sorta di plebiscito ha dato la supremazia alla lingua toscana senza, però, respingere singoli contributi offerti dalle altre  “isole linguistiche” (regioni). Vediamo, quindi, sia pure succintamente, i vari termini regionali entrati "di diritto" nel lessico italiano. La Sicilia ha dato alla lingua nazionale i  “cannoli” e la  “cassata”; l’Emilia il  “birichino” e l’ “aleatico” oltre al  “mezzadro” e  “mezzadria”, forme prevalenti sulle toscane  “mezzaiolo” e “mezzeria”. L’Urbe ha contribuito regalandoci parole affettuose o scherzose come  “pupo”, “racchio”, “sganassone”; sempre dalla Città eterna abbiamo “sbafare” (mangiare gratuitamente), "caciara" (chiasso), "prescia" (fretta, premura) e i gustosi  “maritozzi” (con panna) oltre ai supplí (al ‘telefono’, cosí chiamati perché la mozzarella filante richiama i fili del telefono). La Liguria, per la sua posizione geografica, ci ha dato termini marinari come  “scoglio”,  “darsena”, “boa”, “molo”, “carena” e  “trinchetto”; ligure è anche il nome di quel pesciolino, l’ “acciuga”, ottimo per insaporire la... pizza. Il Piemonte, oltre ai famosi  “grissini”, ha immesso nella lingua nazionale molti termini militari come la  “ramazza”, il verbo  “bocciare” nell’accezione di  “respingere” e il "cicchetto" (rimprovero). Dai dialetti delle regioni alpine abbiamo il  “camoscio”, per via del commercio che si faceva della pelle di quell’animale e, abbastanza recentemente, parole legate all’alpinismo: “baita”, “croda”, “cengia”. La Lombardia, oltre al famoso panettone, ha immesso nella lingua il verbo "bigiare" (marinare la scuola) e alcuni termini dell’industria casearia: la “robiola”, il  “mascarpone”, l’ “erborinato”. Dall’ex capitale del regno delle Due Sicilie si è diffuso il verbo marinaresco  “ammainare”, propriamente  “inguainare” (sottinteso le vele), cosí pure la  “pizza” e la  “mozzarella”, le  “alici” e le  “vongole”, oltre alla... “iettatura”. Il Veneto, in particolare Venezia, ha dato alla lingua la  “gondola”, molti nomi di pesci, come il “branzino”, per esempio. Sempre da Venezia abbiamo il  “catasto”, il "ciao" (saluto) e la  “gazzetta” nel significato di  “giornale” perché, sembra, si pagasse una... gazzetta, moneta che si coniava nella città della laguna. Abbiamo piluccato qua e là, a caso, fra i molti vocaboli che avremmo potuto citare, per dimostrare quanto copiosi e quanto vari siano i contributi che le  “isole linguistiche” (regioni) hanno dato alla lingua nazionale.


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Coriandoli di... zucchero


Siamo in pieno periodo carnevalesco e nei giardinetti delle nostre città i bambini giocano festosi gettandosi addosso  i colorati coriandoli simboli, per eccellenza, del carnevale. Parliamo, quindi, dei coriandoli. I coriandoli, dunque – è risaputo – sono il simbolo principe del carnevale. Ciò che non tutti sanno, forse, è che i coriandoli, piú appropriatamente il coriandolo (coriandro), sono delle piante della famiglia delle Ombrellifere, con fusto eretto, fiori piccoli e bianchi i cui semi – chiamati anch’essi coriandoli – contengono un olio aromatico, un tempo adoperato in liquoreria per ‘insaporire’ cibi e bevande. Da queste piante si pensò di ricavarne dei piccoli confetti rotondi, contenenti un seme di coriandolo e, vista la loro economicità e leggerezza, si cominciò a gettarli dalla finestra sui festosi e chiassosi cortei carnevaleschi; piú tardi, verso la fine dell’Ottocento, per motivi puramente economici, si pensò di sostituire i confetti di coriandoli con altri fatti di gesso; in seguito, economizzando sempre di piú, si sostituirono i confetti di gesso con i dischetti di carta che avanzavano dalla preparazione dei fogli bucati per i bachi da seta. Oggi, dove tutto è industrializzato, i coriandoli vengono fabbricati appositamente; non sono piú i residui dell’industria serica, il nome originario, però, è rimasto inalterato.

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Il verbo "deplorare" è pari pari il latino 'deplorare', derivato di 'plorare' e significa "piangere". È adoperato correttamente, quindi, nelle accezioni di "dolersi", "lamentarsi", "compiangere", "lagnarsi" e simili. I vocabolari lo attestano anche con il significato di "condannare", "biasimare", "rimproverare". A nostro modo di vedere è un uso improprio, se non scorretto, perché "contraddice" l'etimologia. Quindi, correttamente: tutti deploriamo l'uccisione di Moro. Male, a nostro avviso: deploro il tuo comportamento.


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A sbafo o a sbaffo? Qui la risposta.




domenica 17 febbraio 2019

Popolare e popolano: "fratelli gemelli"?

Se non cadiamo in errore tutti (?) i vocabolari attestano "popolano" e "popolare" l'uno sinonimo dell'altro ("fratelli gemelli", insomma). A nostro modo di vedere, invece, tra i due vocaboli c'è una sfumatura semantica. Il primo, popolare, formato con il suffisso "-are" (dal latino 'aris'), indica una relazione e sta per noto al popolo, che ne gode le simpatie: quel cantante è molto popolare tra i giovani.  Il secondo, e ce lo dice il suffisso "-ano", adoperato per indicare l'appartenenza a una nazione, a una città, a una categoria, a un mestiere e simili (italiano, napoletano, parrocchiano, cappellano), significa che è proprio del popoloche appartiene al popolo: una fanciulla popolana; un dialetto popolano. Un'ultima annotazione. Popolano può essere tanto aggettivo quanto sostantivo; popolare solo aggettivo.


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Siamo lieti di constatare che il “Treccani” in rete è l’unico (?) vocabolario ad attestare la voce, correttissima, “confondatore”, anche se non come prima occorrenza. Il Dop (Dizionario di Ortografia e Pronunzia), alla voce “cofondatore” rimanda a “confondatore”, il che sta a significare che “confondatore” è grafia da preferire. Non si dice, del resto, “condirettore”? Per quale illogico motivo i soloni della lingua condannano “confondatore”?


Dal “Treccani”:

cofondatóre (o confondatóre) s. m. (f. -trice) [comp. di co-1 (o con-) e fondatore]. – Chi è fondatore di un’istituzione insieme con altra persona; in partic., nel linguaggio eccles., chi ha avuto parte rilevante nell’esecuzione del disegno concepito dal fondatore di un ordine o di una congregazione religiosa, così da poter essere considerato come un vero e proprio collaboratore intimo del fondatore stesso.

sabato 16 febbraio 2019

Sgroi - 12 - Regole e pseudo-regole: a proposito del "qual è" maschile e del "qual'è" femminile



di Salvatore Claudio Sgroi *

 1. Peccato di omissione o di ignoranza?
Un caro amico e collega, dopo aver letto il precedente intervento del 13 febbraio "Qual'è" la vitalità dell'uso? a proposito del "qual'è", reiterato tre volte in un post di E. Mentana del 12, -- qual'è la linea del governo?  -- mi ha fatto garbatamente osservare:

"Nel caso di Mentana, però, non dici che il giornalista si è giustificato anche lui, dicendo di aver messo l'apostrofo sulla base della regola della sua maestra di apostrofare qual se riferito a nomi femminili e non se riferito a nomi maschili [...]".

Nella mia risposta ho precisato che il mio, invero, non era, come dire, un peccato di omissione ma un peccato di ignoranza:

"quello che non dico di Mentana è perché non lo sapevo! Il post mi è stato girato, come avevo detto indicando la fonte, da Luca Passani. Io non ho facebook!".

Ma "la legge", si sarebbe detto in altro contesto, "non ammette ignoranza".

2. Scelta consapevole del Qual'è e al 50% tradizionalista di E. Mentana
Il post metalinguistico di E. Mentana in risposta a vari commenti dei suoi followers che criticavano il suo qual'è, recita così:

"Enrico Mentana: Lo so, lo dice la Crusca. Ma ho fatto il classico, e la mia insegnante mi diceva di scriverlo così quando era al femminile, e così mi è restato. Il concetto però è chiaro, no?"

Da cui ho subito tratto qualche considerazione nella risposta al mio amico, ovvero:

a) "Che lui [Mentana] segua la maestra, conferma che il suo uso è consapevole, rispetto a quello della Presentatrice [Anna Foglietta col suo Qual'è il tallone di Achille?]".

b) "E comunque che [l'uso di Mentana] al 50% non è tradizionale".

3. Followers metalinguisticamente tradizionalisti
La lettura di circa 60 (su 669) post di followers mentaniani pazientemente giratimi dal cortese Luca Passani, dietro mia richiesta, è stata quanto mai istruttiva sia per i toni, quando non gratuitamente offensivi ("ignorante", "ignorantone", "babbeo"), a volte anche ironici e divertenti, sia per l'emergenza di una dominante presa di posizione tradizionalista  (qual'è "errore gravissimo", "strafalcione grammaticale") a favore di Qual è, con l'avallo della Crusca interpretata in maniera prescrittivista, mentre essa si limitava invero a "consigliare" qual è, la forma apostrofata non essendo quindi errore.

Solo qualcuno ha ricordato l'uso di qual'è "usato ampiamente in illustri attestazioni"; o si è schierato a favore ("Difendo Mentana", "si accetti anche qual'è").

Alcuni autori si sono anche riconosciuti nella regola imparata a scuola da Mentana ("anch'io così"; "Anche la mia maestra spiegava così questa regola").

Ed è sull'analisi di tale regola scolastica che è utile soffermarsi, tanto più che essa è stata richiamata da Paolo D'Achille nel suo Tema del mese di gennaio della Crusca:

"posso segnalare che in passato c’è anche stata la proposta di “omologare” i due casi, ammettendo l’apostrofo tra qual e è nel caso che segua un nome femminile, quindi distinguendo qual è il compito da qual’è la risposta?. Nutro forti dubbi sul fatto che questa soluzione potesse risolvere il problema".

4. Regola (morfologica) inadeguata, errata (pseudo-regola) e di compromesso
La Regola del "qual è maschile / qual'è femminile" è invero una regola (morfologica) a un tempo inadeguata, errata (pseudo-regola) e di compromesso.

4.1. Regola inadeguata
È innanzitutto una regola inadeguata alla realtà fonologica dei parlanti dell'italiano contemporaneo perché non riflette affatto l'italiano parlato oggi. Nell'italiano d'oggi nessuno dice infatti */qual ragazzo/ masch. o */qual ragazza/ femm., nessuno cioè tronca quale in qual dinanzi a consonante di parola masch. o femm.. Si può invece dire elidendo quale in qual dinanzi a vocale, per es. "/kwal è/ il tuo ragazzo" o "/kwal è/ la tua ragazza?" e quindi ortograficamente "qual'è".

4.2. Regola errata ovvero pseudo-regola ("frittata morfologica")
Qual'è poi la sua logica interna, la sua coerenza? Tale regola, che non ricordo invero di aver mai sentito da studente, né saprei dire in quale grammatica sia stata codificata, è basata sull'analogia del femm. un'amica versus il masch. un amico. Ma si tratta di una falsa analogia e quindi di una pseudo-regola. In realtà un'amica (con elisione) si oppone fonologicamente a una ragazza, nessuno dicendo con troncamento /*un ragazza/.

E un amico fa il paio con un compagno, cioè fonologicamente entrambi con troncamento, nessuno dicendo */uno amico/, */uno compagno/.

Che una sia femm. e uno masch. è irrilevante in quanto fatto morfologico. Tratto rilevante è piuttosto la sequenza fonologica "una + cons." e "una/un' + voc.", e la sequenza fonologica "uno > un + cons., voc." Invece non si distinguono le due coppie in gioco "una vs un'" da "uno vs une si crea una sola coppia "un' vs un". Regola pratica ("un masch." VS "un' femm."),  comoda sì da memorizzare, ma teoricamente errata, la distinzione fonologica diventando così una distinzione morfologica. Si passa poi all'analogia col qual'e (femm.) e qual è (masch.), fenomeno puramente fonologico. E la "frittata morfologica" è fatta.

4.3. Regola di compromesso
In conclusione, la regola di Mentana si rivela una regola di compromesso tra l'uso antico (apocope: ortografia "qual è" al maschile) e l'uso contemporaneo (elisione: ortografia qual'è" al femminile).

5. Il problema dell'apostrofo: una quisquilia
Infine, si sarà notato che saggiamente Mentana ha osservato che, con o senza apostrofo, il /kwal è?/ non ha nessuna incidenza sul piano semantico, ovvero: "Il concetto però è chiaro, no?".


* Docente di linguistica generale presso l'Università di Catania





venerdì 15 febbraio 2019

Una sincope non esiziale (fortunatamente)


Gli amici lettori, amatori della lingua e del suo uso corretto, prestino attenzione allorché si recano presso tutti (o quasi) gli studi medici: potrebbero essere colpiti da sincope (per fortuna non esiziale). E ci spieghiamo.

Avrete notato che buona parte delle targhe professionali affisse sui portoni degli studi medici (ma non solo di questi, dei “dottori” in generale) presentano un errore marchiano: l’abbreviazione di dottore. Si legge spesso, infatti, “Dr. Caio Sempronio specialista in cardiologia”, dove l’abbreviazione di dottore è, per l’appunto, errata. Il punto finale non occorre affatto. Ma non è finita.
 Anche la preposizione “in” è errata: si è specialisti “di” qualcosa, non “in” qualcosa. Specialista “di” cardiologia.

E veniamo all’abbreviazione corretta di dottore che si può fare in due modi: “dott.” e “dr”. La prima forma è correttissima con il punto finale in quanto questo sta a indicare la caduta, per troncamento, delle lettere finali “ore” [dott(ore.)]. La forma abbreviata “alla tedesca”, come alcuni la chiamano, vale a dire la sigla “dr”, non necessita di punto finale perché non è un troncamento ma un accorciamento per “sincope” del termine latino “doctor”. Vediamo, quindi, cos’è questa “sincope”. Leggiamo dallo Zingarelli: “sincope, caduta di un suono o di un gruppo di suoni all’interno di una parola”. Cercheremo di essere più chiari.

Il vocabolo sincope viene dal greco “synkòpto”, composto di “syn” (insieme) e “kòpto” (taglio), ‘taglio insieme’, quindi, una o più lettere all’interno di una parola. Dal “doctor” latino, dunque, tagliando dentro il termine “octo” [d(octo)r] resta ‘dr’ che non va assolutamente con il punto finale: dr Pinco Pallino. Lo stesso discorso per quanto attiene all’abbreviazione di “junior” (che ‘andrebbe’ scritto con la ‘i’ normale, non con la “j” in quanto il latino classico non conosceva quest’ultima lettera): Bush jr quindi, senza punto finale e si legge come si scrive: non “giunior”, come spesso sentiamo dai grandi ‘dicitori’ dei vari radio-telegiornali. 

Ma torniamo, un attimo, all’inizio di queste noterelle. Dicevamo che bisogna dire “specialista ‘di’ ”, non “in”. Se proprio si vuole adoperare quest’ultima preposizione si dica “specializzato ‘in’ ":  ”specializzato in" cardiologia, anche se, a nostro modo di vedere, quest'ultimo termine (specializzato) è preferibile riservarlo a chi esercita un mestiere: operaio specializzato.


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La lingua "biforcuta" della stampa
Il particolare non passa inosservato. L’ira del Pd contro il direttore de Il Fatto Quotidiano: «È ossessionato, stracci il tesserino da giornalista»
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In buona lingua si dice "tessera (tesserino) di" (non "da") in quanto specifica l'appartenenza a una determinata categoria. Ma diamo la "parola" al Treccani: Cartoncino rettangolare, o anche libretto, con indicazioni scritte o stampate, e talora con la fotografia della persona cui è intestato, che serve per il riconoscimento di questa, o per dimostrare la sua appartenenza a un’associazione, a un partito, a un ente, a un’organizzazione, o per riconoscerle determinati diritti, ecc.: t. di sociot. di giornalistat. del tramt. di libero ingresso ai museit. del partito (nel periodo del regime fascista, assol. tessera, quella del partito, anche per indicare l’appartenenza o l’adesione a questonon aveva mai volutonon aveva mai preso la t.); presentare, mostrare la t.farsi farerinnovare la t.fotografia formato t. (anche foto tessera), o, che è lo stesso, uso tessera.


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Da "Risposte ai quesiti" del sito dell'Accademia della Crusca:

Quesito: 
Ci sono pervenuti molti quesiti sulla forma rimurginare. Alcuni dichiarano di sentirla sempre più spesso e anche in bocca a parlanti in possesso di un buon grado d’istruzione, altri affermano di averla addirittura vista in forma scritta. La domanda che ci viene rivolta è quindi se tale forma sia accettabile o meno, se si tratti davvero di una variante legittima di rimuginare.
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Ci sembra decisamente "strano" che un collaboratore (?) dell'Accademia adoperi il "meno" avverbiale in frasi disgiuntive con il significato di “no”: non so decidere se restare "o meno". Quest’uso è decisamente condannato dal Gabrielli e tollerato dal Serianni (uno degli accademici) che scrive: "In luogo di 'o no' si adopera anche 'o meno' (“ecco due cose le quali non so se mi garbassero o meno Nievo), locuzione molto diffusa ma da evitare almeno nello scritto e nel parlato piú formale".

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Qui la risposta al quesito.


mercoledì 13 febbraio 2019

Sgroi - 11 - "Qual'è" la vitalità dell'uso?


     di Salvatore Claudio Sgroi *

Saper cogliere spassionatamente gli usi linguistici, distinguendoli dalla loro valutazione normativa, senza peraltro rinunciare ai propri gusti linguistici, è un buon esercizio metalinguistico, di riflessione cioè sulla lingua, per un uso consapevole e motivato del linguaggio verbale.

Ritornando al tormentone del Qual(')è, ma si potrebbe citare qualunque altro esempio linguistico, sollecitato da due segnalazioni dell'attentissimo Luca Passani, vale la pena di segnalare due usi del Qual'è? da parte di due personaggi con impatto televisivo, un uomo e una donna, con consapevolezza del primo, inconsciamente invece e conseguente sensi di colpa della seconda, in seguito al giudizio di condanna del pubblico.


Testimonianza di un uso consapevolmente iterato è costituita dalla tripletta di

"qual'è (la linea del governo)?"

nel post su facebook dell'11.2.2019, delle 23:14, da parte di un conduttore televisivo quale Enrico Mentana:


"I dilemmi delle forze politiche sono rispettabili, le scelte di governo però lo sono molto di più, perché riguardano tutti noi. E allora - dopo i risultati, le analisi e le dichiarazioni sul voto in Abruzzo - è possibile sapere qual'è la linea del governo sul Venezuela: la neutralità M5s o il no a Maduro di Salvini? Qual'è la linea del governo sulla Tav (finendola col tormentone sull'analisi costi benefici): il "non si deve fare" del Movimento o il "bisogna finire i lavori" leghista? E qual'è la linea del governo sulla Banca d'Italia, cambiare i vertici o chiedere un cambio di indirizzi?".


Testimonianza di un secondo uso, invece inconsapevole, inconscio, è il

"Qual’è il Tallone di Achille?",

posto come domanda ai cantanti, da una conduttrice del Dopofestival di Sanremo 2019 (Anna Foglietta), il 6 febbraio 2019, trascritta su un cartello.

Con 'pentimento' della sua autrice, in seguito ai giudizi di condanna del presunto invero scivolone ortografico.

Inutile dire che i giornali che hanno dato notizia dell'uso televisivo, come "Il Messaggero.it", hanno nel loro titolo e nel corso dell'articolo, sottolineato aprioristicamente la (invero, sempre, presunta) scorrettezza:


"Sanremo 2019, gaffe al Dopo Festival: Anna Foglietta inciampa su un apostrofo di troppo".


E poi: "scivolone grammaticale", "scivolone linguistico", "errore grammaticale", per il quale "La Foglietta ha chiesto umilmente scusa".

 Ma la valutazione negativa è aprioristica, senz'alcuna analisi né motivazione.



* Docente di linguistica generale presso l'Università di Catania





A ciascuno il 'suo' o il 'proprio'?

All'interrogativo del titolo risponde Paolo D'Achille, dell'Accademia della Crusca. E a proposito di "suo" e "proprio", questo portale ripropone un vecchio intervento sulla differenza che intercorre tra i due aggettivi.
Alcuni insegnanti, non sappiamo in base a quali  “leggi linguistiche”, condannano l’uso dell’aggettivo proprio unito a un altro aggettivo possessivo. E dove sta scritto? Si può benissimo dire mio propriosuo proprio ecc. con valore intensivo. Sottacciono, invece, la “legge” secondo la quale è preferibile adoperare l’aggettivo proprio in luogo degli altri possessivi (mio, tuo ecc.) per non creare ambiguità; in questo caso con proprio si indica il  “possesso” del soggetto stesso. Un esempio chiarirà meglio il concetto: Giovanni fece riparare la sua automobile (nel contesto di un discorso si potrebbe pensare anche all’automobile di un’altra persona). Se, invece, diciamo: Giovanni fece riparare la propria automobile evitiamo possibili equivoci in quanto è chiaro che si tratta dell’auto di Giovanni, cioè del soggetto.
L’uso di proprio, inoltre, è obbligatorio nelle costruzioni impersonali: è necessario difendere le proprie idee; è bene conoscere le proprie responsabilità; è preferibile, altresí, quando il soggetto è indefinito: tutti possono esprimere il proprio pensiero; ciascuno è artefice del proprio destino.
E, visto che siamo in argomento, due parole, due, su altrui che può essere tanto aggettivo possessivo quanto pronome. Quando è in funzione aggettivale si riferisce esclusivamente alla terza persona plurale; equivale, insomma, alle espressioni  “degli altri”, “di altri”: bisogna rispettare la roba altrui (cioè “degli altri”); quando, al contrario, è pronome si adopera solamente nel maschile singolare con l’accezione di  “patrimonio degli altri”: non desiderare l’ altrui, vale a dire il  “patrimonio degli altri”.


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La lingua "biforcuta" della stampa

Ballano sulla Barcaccia e aggrediscono vigilessa: arrestate due turiste russe

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I "massinformisti" (operatori dell'informazione) continuano, imperterriti, a disattendere le raccomandazioni dei linguisti (e dei vocabolari) per i quali il femminile di vigile è... vigile. Il titolo corretto, pertanto, avrebbe dovuto recitare: "(...) aggrediscono la vigile: arrestate due turiste russe". Sempre sulla "lingua" della stampa si veda anche qui.

martedì 12 febbraio 2019

"Consigli" per il buon uso del nostro idioma


Contrariamente a quanto riportano i "sacri testi" (tutti?) l'aggettivo ambo si può pluralizzare regolarmente: ambi e ambe. Pos-siamo dire e scrivere, quindi, e nessuno può tacciarci di ignoranza, "da ambi i lati", per esempio, e "con ambe le mani". Sono plurali di uso raro, certo, ma non per questo errati.

Dell’avverbio “letteralmente”, adoperato in tutte le salse, si abusa non poco e quasi sempre a sproposito. E in… proposito, vediamo ciò che dice il linguista Luciano Satta.
«Il dizionario di Devoto e Oli dice che questo avverbio “sottolinea la particolare intensità o assolutezza di una condizione”. Ma siccome se ne fa uno scempio, non si può leggere un giornale senza trovarne una decina, non si può ascoltare né radio né televisione senza udirne altrettanti, noi proponiamo un giro di vite, ricordando che ‘letteralmente’ vale ‘alla lettera’; cioè l’aggettivo, il sostantivo, l’espressione cui l’avverbio si accompagna hanno un significato ‘letterale’ e non iperbolico. Ci fa ridere, scusate, il cronista sportivo quando racconta che “il portiere Tal dei Tali era ‘letteralmente un gatto’ “; sia abolito l’incontro, per il regolamento che non ammette di far giocare i gatti al calcio. E chi dice: “Ho ‘letteralmente le ossa rotte’ dalla stanchezza”, per punizione e per coerenza vada a farsi ingessare. ‘Letteralmente’».

Ancora un vocabolo, per l’esattezza un aggettivo, del nostro idioma gentil sonante e puro, per dirla con l’Alfieri, adoperato molto spesso impropriamente con l’ “avallo” dei vocabolari: insignificante. L’accezione propria del vocabolo è “che non ha alcun significato”, “che non significa nulla” e simili e in senso figurato “privo di carattere”, “privo di sostanza” e simili: è un discorso insignificante; quello scritto è insignificante; è un uomo insignificante. Bene. Molti lo adoperano, però, “alla francese” con un traslato un po’ forzato: l’azienda ha avuto una perdita insignificante; le ferite riportate nell’incidente sono insignificanti e simili. In casi del genere – chi ama il bel parlare e il bello scrivere – usi vocaboli che fanno alla bisogna: “perdita lieve, trascurabile”; “ferite di poco conto”. Insignificante “alla francese”, insomma, si può sostituire con: lieve, trascurabile, di nulla, di poco conto, ecc. a seconda del contesto.

Forse pochi sanno - e qui ci attiriamo gli strali di qualche linguista d'assalto dell'ultim'ora - che la  pronuncia "piú corretta" del verbo "collaborare" sarebbe/è quella piana: collabòro, collabòri e via dicendo. E qui tranquillizziamo subito l'eventuale linguista "d'assalto", perché non lo sostiene l'umile linguaiolo di questo portale, ma un autorevolissimo vocabolario, il Dop, Dizionario di Ortografia e di Pronunzia.