C’era una volta, tra le colline verdi delle Frasi Ben Costruite, una piccola scuola di grammatica, l’Accademia della Concordanza Perfetta. In questa studiavano parole e costrutti desiderosi di imparare l’arte sublime dell’armonia linguistica.
Uno degli allievi più in difficoltà era il piccolo Participio Passato. Amava raccontare azioni già concluse, ma cambiava forma con troppa disinvoltura: un giorno si presentava come amato, un altro come amata, poi amati, e infine amate. Nessuno sapeva più riconoscerlo, e lui stesso cominciava a dubitare della propria identità.
Disperato, si rivolse alla maestra Sintassi, un’autorità elegante e paziente, famosa per risolvere i nodi più intricati della lingua.
“Maestra,” domandò il Participio, “quando devo cambiare forma? Perché a volte mi chiedono di adattarmi, altre no... Mi sento perso.”
La maestra Sintassi lo fece accomodare sotto una pergola punteggiata di proposizioni relative e, con voce rassicurante, iniziò:
“Piccolo mio, la tua forma dipende da chi ti accompagna nella frase. Se viaggi con il verbo essere, devi sempre adeguarti al soggetto. Per esempio, se la frase dice la bambina è caduta, tu diventi caduta, perché segui una bambina, femminile singolare. Se invece si dice i ragazzi sono tornati, ti trasformi in tornati, maschile plurale. E quando si dice le lettere erano state spedite, ti fai spedite, seguendo il plurale femminile.”
Il Participio annuiva, rincuorato.
“Ma, c’è un ma”, aggiunse la maestra, “quando viaggi con avere, non devi cambiare... a meno che il complemento oggetto non venga prima di te. Guarda: si dice ho letto i libri, e lì resti letto, perché i libri arrivano dopo. Ma se la frase è i libri che ho letti, lì l’oggetto è già stato espresso prima di te e allora ti trasformi in letti.”
Il Participio sgranò gli occhi. “E con i pronomi? Quelli piccolini che si mettono prima del verbo?”
“Sono piccini ma comandano, eccome!” disse la maestra ridendo. “Se il pronome è un oggetto diretto e viene prima del verbo, ti fai simile a lui. Se uno dice le ho viste al cinema, tu diventi viste, perché le si riferisce a donne o ragazze. Se invece si dice li abbiamo sentiti cantare, allora sei sentiti, perché li è un pronome maschile plurale. Oppure: L’ho trovata molto simpatica, ti trasformi in trovata, perché la è femminile.”
Il Participio si sentiva già più lucido, ma aveva ancora un dubbio.
“E gli ho parlato?” chiese.
“Il pronome gli in quella frase non è un oggetto diretto, è un complemento di termine. Quindi lì tu non cambi. Resti invariato.”
“E quel misterioso ne?” chiese con cautela il Participio.
“Ah, ne ha poteri sottili. Se dici ne ho mangiate tre, e ne si riferisce a tre mele, tu prendi la forma mangiate, perché è femminile plurale. Anche se l’oggetto è nascosto, tu devi adeguarti se il significato è chiaro.”
Il Participio, che ormai si sentiva un po’ più saggio, aggiunse: “E se ci sono più pronomi insieme, tipo quelli combinati?”
“Saggia domanda!” esclamò la maestra Sintassi, con un sorriso compiaciuto. “Guarda quest’esempio: Te le avevo promesse. Qui ci sono due pronomi: te, che è di termine, e le, oggetto diretto femminile plurale. Tu diventi promesse, perché ti accordi solo con il pronome oggetto diretto che ti precede: le.”
Il Participio si alzò in piedi, grato. Ora sapeva quando doveva mutare e quando rimanere fedele alla sua forma originale. Il segreto era osservare attentamente: chi veniva prima, cosa significava, e come si legavano le parole tra loro.
Da quel giorno, tornò tra le frasi con nuova fierezza. Le costruzioni lo accoglievano con rispetto, e ogni volta che qualcuno sbagliava una concordanza, una lieve brezza tra le righe sembrava suggerire: “Attento… il participio si adatta, ma solo quando serve.”
Accademia della Concordanza Perfetta
Crediamo che poche parole abbiano resistito al tempo - e agli abusi del tempo - quanto emarginazione. Pronunciata con foga nei ‘talk show’, brandita come chiave universale nei convegni, evocata perfino nei ‘social post’ di chi cerca facili consensi, questa parola è passata da grido d’allarme a ‘slogan’ di circostanza. Ma dietro la sua usura comunicativa, conserva ancora un’anima viva?
Oggi come ieri, emarginazione è il termine prediletto di chi opera nelle scienze sociali: psicologi, educatori, sociologi, giornalisti. Con tono grave si afferma: “Il disagio giovanile è il frutto dell’emarginazione sociale”; “Le devianze nascono dall’emarginazione economica”; “Questa generazione è emarginata dal progresso”. Spiegazione definitiva, indiscutibile. O forse solo comoda.
Eppure, vale la pena fermarsi un momento. Cosa vuol dire davvero emarginare? Etimologicamente, nasce nel gergo tipografico: collocare un elemento fuori del margine, come quei titoli in grassetto nei vecchi manuali scolastici, che il tipografo spostava ai lati per sottolinearne l’importanza o per isolarli. Dal margine della pagina a quello della società, il passaggio è stato breve e brutalmente logico.
Nel tempo, la metafora ha preso forma concreta: sono “fuori margine” gli immigrati esclusi dall’integrazione; le persone “neurodivergenti” o con disabilità, ancora invisibili nel quotidiano “normalizzato”; le minoranze culturali, politiche, economiche, che disturbano il corpo uniforme della cosiddetta maggioranza.
Ma oggi l’emarginazione si è fatta più silenziosa e tecnologica. Non sempre visibile nelle strade, spesso si nasconde in algoritmi, interfacce e metriche di ‘performance’. Chi non parla la lingua dei codici, chi non ha accesso alla rete o agli strumenti digitali, finisce col "non esistere” statisticamente. L’inclusione è diventata una questione di banda larga.
Eppure, come scriveva acutamente Ethel Waters: Noi emarginati siamo molto felici di lasciare il giudizio ai nostri superiori sociali. Una frase che oggi suona più attuale che mai. Forse, in un mondo che continua a spingersi verso l’omologazione, chi vive ai margini può ancora essere voce libera, scomoda, ma necessaria.
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Nutrito? No, caloroso
Due parole, due, sull’uso di un aggettivo che a nostro modo di vedere molto spesso viene adoperato a sproposito: nutrito. Questo aggettivo, dunque, è il participio passato del verbo “nutrire” e significa ‘pasciuto’,‘robusto’,‘ben alimentato’ e simili: è un ragazzo ‘nutrito’, cioè pasciuto. Molto spesso si usa, invece, con un significato che non ha: ‘caloroso’, ‘forte’, ‘insistente’, ‘scrosciante’ e simili: la cantante è stata accolta con un nutrito applauso. Quest’uso, se non scorretto, ci sembra, per lo meno, ridicolo. Gli applausi possono essere ‘nutriti’, cioè pasciuti, robusti? Certamente no. Chi ama il bel parlare e il bello scrivere ha altri aggettivi che fanno alla bisogna in casi del genere: caloroso, lungo, forte, fragoroso, scrosciante, incessante ecc.
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Parole “ermafrodite”
Si potrebbero definire “ermafrodite” quelle parole che i grammatici chiamano ambigeneri (o epicene) perché si differenziano solamente per mezzo dell’articolo o dell’aggettivo concordanti, non mutano, insomma, la desinenza. Appartengono a questa categoria: a) le parole terminanti in “-e”: il custode, la custode; il nipote, la nipote, il consorte, la consorte ecc.; b) i participi presenti sostantivati: il cantante, la cantante (a questo proposito sarebbe “piú corretto” dire la studente); c) le parole terminanti in “-ista” e in “-cida”: il ciclista, la ciclista; il fratricida, la fratricida; il giornalista, la giornalista. Questi ultimi sostantivi, però, nel plurale hanno forme distinte per il maschile e per il femminile: i ciclisti, le cicliste; i fratricidi, le fratricide. Vi sono, inoltre, le “ermafrodite” apparenti la cui differenza non è il genere ma il significato. I grammatici le chiamano “falsi ambigeneri” o “ambigeneri apparenti”. Vediamone qualcuna: il fine (lo scopo), la fine (il termine); il moto (movimento), la moto (la motocicletta); il radio (minerale), la radio (apparecchio ricevente): il pianeta (corpo celeste), la pianeta (paramento liturgico); il fronte (zona di guerra), la fronte (parte del volto); il tema (il componimento), la tema (la paura); il lama (monaco), la lama (parte del coltello); il boa (serpente), la boa (il galleggiante).

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