La parola del giorno di ieri proposta da "unaparolaalgiorno.it": autoschediasma.
Il termine, come specificato nel sito, non è riportato in tuti i vocabolari; si può, comunque, trovare qui.
E la parola proposta da questo portale: landra, vale a dire "donna di facili costumi".
sabato 28 febbraio 2015
venerdì 27 febbraio 2015
Servire di coppa e di coltello
Questa locuzione - per la verità poco adoperata, perché poco... conosciuta - si riferisce, ovviamente in senso figurato, a colui che fa di tutto per rendersi utile; a colui, insomma, che non disdegna di fare qualunque lavoro per mostrarsi servizievole ma, spesso, anche... maldestro. Donde viene questo modo di dire? Dalla vita "domestica" dei signorotti di una volta. Nei tempi andati il siniscalco e il coppiere erano i due domestici piú importanti fra quelli addetti a servire alla tavola dei nobili (e dei ricchi). A volte, però, i meno abbienti - anche se di sangue blu - erano costretti ad affidare il doppio incarico di preparare le carni e di versare il vino a un unico servitore il quale, molto spesso, si rivelava maldestro in ambedue i ruoli. Da qui, con il trascorrere del tempo, la locuzione ("servire di coppa e di coltello") è stata trasportata - con significato figurato - nella vita di tutti i giorni e riferita alla persona che pur sforzandosi di rendersi utile e servizievole si dimostra totalmente incapace.
giovedì 26 febbraio 2015
Un canto celeustiale
Cortese Signor Raso,
sfogliando un vecchissimo libro, acquistato in una bancarella di libri usati, mi sono imbattuto in "un canto celeustiale", locuzione mai sentita. Potrebbe essere una variante arcaica di "canto celestiale" o si tratta del classico errore di stampa? Un suo parere.
Grazie e cordiali saluti.
Sebastiano P.
Manfredonia
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Gentile Sebastiano, non si tratta né di una variante arcaica di "celestiale" né di un errore di stampa. Il termine in questione non è riportato da tutti i dizionari dell'uso, ma esiste e indica (indicava) il canto dei rematori, "ritmato" dal nostromo, durante la navigazione. Veda qui.
sfogliando un vecchissimo libro, acquistato in una bancarella di libri usati, mi sono imbattuto in "un canto celeustiale", locuzione mai sentita. Potrebbe essere una variante arcaica di "canto celestiale" o si tratta del classico errore di stampa? Un suo parere.
Grazie e cordiali saluti.
Sebastiano P.
Manfredonia
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Gentile Sebastiano, non si tratta né di una variante arcaica di "celestiale" né di un errore di stampa. Il termine in questione non è riportato da tutti i dizionari dell'uso, ma esiste e indica (indicava) il canto dei rematori, "ritmato" dal nostromo, durante la navigazione. Veda qui.
mercoledì 25 febbraio 2015
Una schiazzamaglia
Gentilissimo Dott. Raso,
seguo assiduamente le sue "noterelle" sul buon uso della lingua italiana dalle quali apprendo sempre nozioni che - come lei sostiene spesse volte - non sono riportate nei "sacri testi". Mi rivolgo a lei, dunque, per un quesito: che cosa è una "schiazzamaglia"? Ho trovato questo termine leggendo una lettera di mio nonno che dal fronte della Grande Guerra raccomandava a mia nonna di stare lontana da quella schiazzamaglia. Ho compulsato tutti i vocabolari in mio possesso ma non ho trovato il vocabolo in questione. Spero in lei, dunque. Grazie se avrò una sua risposta.
Cordialmente
Federico B.
Cuneo
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Cortese Federico, ha perfettamente ragione, il termine non è attestato nei vocabolari dell'uso perché è stato relegato nella "soffitta della lingua". Esiste (ma dovrei dire esisteva), comunque, e si dice di gentaglia, gente abbietta. Lo può trovare cliccando qui e qui.
martedì 24 febbraio 2015
L'apedagogeto
Ecco un altro vocabolo, della nostra meravigliosa lingua, che ci piacerebbe fosse "rispolverato" e rimesso a lemma nei vocabolari dell'uso: apedagogeto. È, anzi, era cosí chiamato il giovinetto privo di istruzione perché nessuno si occupava della sua educazione. Il termine che portiamo all'attenzione dei vocabolaristi si può trovare qui.
lunedì 23 febbraio 2015
Parlare a vanvera
Quasi ci vergogniamo nel proporre questo modo di dire, essendo conosciutissimo e adoperato a ogni piè sospinto da tutti coloro che vogliono mettere in evidenza il fatto che molte persone parlano a sproposito o senza aver riflettuto. Chi di voi, può dire, infatti, di non aver mai conosciuto un "vanveriere"? Basta fare - come usa dire - mente locale per individuare nel collega d'ufficio o nel vicino di casa la persona del detto in oggetto. Ciò che non è chiara, invece, è l'origine della locuzione, soprattutto l'etimologia di "vanvera", vocabolo adoperato solo nel predetto modo di dire e nell'espressione "fare le cose a vanvera", vale a dire senza senso, senza logica, senza criterio. L'etimologia, dicevamo, è incerta; ci affidiamo, quindi, a quanto dice in proposito il linguista Ottorino Pianigiani.
A questo proposito invitiamo i lessicografi - se si dovessero imbattere in questo sito - a prendere nella dovuta considerazione il termine, da noi proposto, "vanveriere", e metterlo a lemma nei dizionari. Non esiste, infatti, un vocabolo atto a indicare una persona che parla a vanvera.
***
Viaggio a Tripoli in soccorso ai ribelli feriti, così un titolo della "Gabbia" di ieri dell'emittente televisiva La7. A nostro modesto parere il titolo sarebbe stato "più corretto" se invece di "ai" avesse recitato "dei". Si va in soccorso "di" qualcuno o "a" qualcuno? A nostro modo di vedere è "più corretto" l'uso della preposizione "di". I vocabolari e una rapida ricerca in rete sembrano darci ragione: 35.800 occorrenze per "in soccorso a" e 335.000 per "in soccorso di".
A questo proposito invitiamo i lessicografi - se si dovessero imbattere in questo sito - a prendere nella dovuta considerazione il termine, da noi proposto, "vanveriere", e metterlo a lemma nei dizionari. Non esiste, infatti, un vocabolo atto a indicare una persona che parla a vanvera.
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Viaggio a Tripoli in soccorso ai ribelli feriti, così un titolo della "Gabbia" di ieri dell'emittente televisiva La7. A nostro modesto parere il titolo sarebbe stato "più corretto" se invece di "ai" avesse recitato "dei". Si va in soccorso "di" qualcuno o "a" qualcuno? A nostro modo di vedere è "più corretto" l'uso della preposizione "di". I vocabolari e una rapida ricerca in rete sembrano darci ragione: 35.800 occorrenze per "in soccorso a" e 335.000 per "in soccorso di".
sabato 21 febbraio 2015
Pressapoco? Per carità!
Stupisce il constatare che
il nuovo vocabolario De Mauro in rete attesti l'avverbio "pressappoco"
scritto con una sola "p": pressapoco
pres|sa|pò|co
avv., s.m. 1667; dalla loc. presso a poco, cfr. fr. à peu près. 1. avv. CO
all’incirca, approssimativamente: hanno pressapoco la stessa età2. s.m. BU approssimazione
In
proposito il DOP, Dizionario di Ortografia e di Pronunzia, alla grafia con una
sola "p" rimanda a quella con due; il Sandron non usa mezzi termini:
errata la grafia pressapoco. La sola grafia corretta, dunque, è con due
"p" (pressappoco). È ammessa anche la scrizione "press'a
poco".
venerdì 20 febbraio 2015
Espiscare
Tra le parole, o meglio tra i verbi che ci piacerebbe fossero rimessi a lemma nei vocabolari citiamo "espiscare", che in senso proprio significa 'pescare' e, con uso estensivo, 'trovare diligentemente", quindi 'indagare'. La polizia sta ancora espiscando sull'omicidio. Il verbo in questione è composto con le voci latine "ex" (particella con valore rafforzativo) e "piscare" (pescare).
Qui, la coniugazione del verbo.
Qui, la coniugazione del verbo.
giovedì 19 febbraio 2015
Avere l'anello di Gige
Siamo sicuri che - nonostante questa locuzione sia pressoché sconosciuta ai piú - molti lettori di queste noterelle avranno avuto occasione di conoscere e, forse, frequentare loro malgrado, delle persone in possesso, appunto, dell'anello di Gige. Quest'espressione si riferisce a coloro che sono maestri nell'arte di scomparire quando, invece, la loro presenza è indispensabile, soprattutto di fronte a una situazione spiacevole. Donde viene, dunque, questo modo di dire? Secondo una leggenda narrata da Platone, Gige, ricchissimo re della Lidia (secolo VII a.C.) possedeva un bellissimo anello di ottone che gli consentiva di rendersi invisibile ogni qual volta lo ritenesse opportuno (per "controllare", senza esser visto, l'operato dei suoi collaboratori). Si usa, quindi, questa locuzione - come abbiamo visto - a proposito di persone che sembrano avere la stessa prodigiosa facoltà di scomparire di fronte a situazioni "scabrose": Giovanni ha l'anello di Gige; se n'è andato, è "scomparso" per non trovarsi invischiato in quella faccenda. Di significato completamente opposto, invece, l'espressione "essere come la betonica". Si dice di persona molto nota che è presente dappertutto, soprattutto nei momenti in cui, al contrario, sarebbe necessaria la sua... assenza. La betonica è una pianta perenne, si adopera ancora nella medicina popolare, diffusissima nell'Italia centrosettentrionale. Il modo di dire, quindi, è nell'uso familiare: ancora lui (o lei)! è proprio come la betonica.
mercoledì 18 febbraio 2015
Finire e cessare
Due parole
sui verbi su citati. Entrambi possono essere transitivi e intransitivi e con il
medesimo significato "primario": avere fine, terminare, concludere,
portare a termine e simili. A una
analisi approfondita, però, tra i due verbi c'è una sfumatura: "cessare",
al contrario di finire, vale anche "interrompere". A nostro modesto
avviso, quindi, non si possono adoperare indifferentemente. Diremo, per tanto,
che la pioggia è cessata (non finita) perché ha smesso di piovere ma può ricominciare
(la pioggia, insomma, "si è interrotta"); la battaglia è cessata (non
finita) ma può riprendere da un momento all'altro. Diremo, invece, che le
lezioni sono finite (non cessate, perché sono state portate a termine); la
messa è finita, cioè si è conclusa. Pedanteria? Sottigliezze? Decidete voi,
amici. Chi ama il bel parlare e il bello scrivere, però...
sabato 14 febbraio 2015
Comprare il porco
Molti amici
lettori sentiranno per la prima volta il modo di dire su citato, anche se
l'hanno "messo in pratica" inconsciamente. L'espressione, dunque,
significa "andarsene alla chetichella" o anche "non accorgersi
che qualcuno è andato via all'improvviso, senza salutare". La locuzione
sembra abbia origine dal costume dei contadini di un tempo: quando si recavano
al mercato per vendere il bestiame andavano via subito - conclusa la vendita -
per non farsi trovare da qualche acquirente nel caso avesse da lamentarsi per
qualcosa. Il detto è bene "immortalato" nel «Malmantile racquistato» (un poema burlesco)
di Perlone Zipoli, pseudonimo di Lorenzo Lippi, con le note di Puccio Lamoni,
pseudonimo di Paolo Minucci.
martedì 10 febbraio 2015
Mattina: avverbio?
Facciamo
nostre alcune considerazioni di Luciano Satta su un piccolo grande problema:
mattina è solo sostantivo? A ben vedere può essere anche avverbio. Diamo,
dunque, la parola all'illustre linguista.
Problemino
grammaticale: analizzare un'espressione del tipo "domenica mattina",
precisando fra l'altro se si debba catalogare "mattina" come
sostantivo, poiché i vocabolari appunto dicono
che "mattina" è esclusivamente sostantivo. Il nostro parere è questo.
In una frase come «"La domenica mattina" passò senza incidenti»,
"la domenica mattina" è soggetto, in una frase come «"La
domenica mattina" mi alzo alquanto tardi», "la domenica mattina"
è complemento di tempo. Ma sull'analisi di "mattina" c'è da
riflettere parecchio, per arrivare alla conclusione che sarà anche sostantivo
come vogliono i vocabolari, ma con un preciso valore di avverbio, tanto è vero
che se si volge "domenica" al plurale, non piace farlo anche per
"mattina", cioè si preferisce "le domeniche mattina" a
"le domeniche mattine", almeno stando all'orecchio; e quando un
sostantivo resiste alla concordanza, spesso vuol dire che lo sentiamo come
avverbio.
Visto che
siamo in tema, vediamo la differenza tra "mattina" e
"mattino" (www.dizy.com)
sabato 7 febbraio 2015
Granché o gran che?
Da "Domande e risposte" del sito "Treccani":
LA VOCE ‘GRANCHÉ’ È COMPOSTA DA ‘GRAN’ (TRONCAMENTO DI ‘GRANDE’) E ‘CHE’: SI PUÒ USARE SEPARATA E NON UNITA? PER ESEMPIO: "QUEL FILM NON È UN GRAN CHE".
No, si deve scrivere unita (la forma è univerbata, se vogliamo dirla con un tecnicismo linguistico), sia per granché pronome indefinito, usato nell'accezione di 'cosa, evento di notevole importanza' (in frasi negative: il film non era un granché), sia per granché in modalità avverbiale, col significato di 'molto, assai' (sempre in frasi negative: non ho granché voglia di parlarne). La grafia disgiunta è antiquata e letteraria.
----------
Il DOP, Dizionario di Ortografia e di Pronunzia, (ed. RAI), dà, come prima occorrenza, la grafia scissa, considerando meno comune quella univerbata.
Siamo alle solite: il lettore che cerca "conforto" chi deve ascoltare?
Una rapida ricerca in Rete sembra dar ragione al DOP: 111.000 occorrenze per la grafia scissa; 53.800 per quella univerbata.
Per l'Accademia della Crusca " È diffusa e ammessa la forma con scrizione sintetica granché;" Sembra, quindi, essere sulla stessa posizione del DOP.
venerdì 6 febbraio 2015
Fare la natta
Quante volte, cortesi lettori, avete "natteggiato" qualcuno? Tranquilli, amici, non stiamo delirando, vogliamo soltanto domandarvi se avete mai burlato (o offeso) qualcuno. Questo è, infatti, il senso del modo di dire. La locuzione, di origine proverbiale, è adoperata nel significato traslato. Natta significa, infatti, escrescenza o tumore cistico. Colui che fa la natta, per tanto, lascia (metaforicamente) un segno ben visibile - quasi fosse un'escrescenza - sul viso dell'altro, a testimonianza della burla o dell'offesa.
giovedì 5 febbraio 2015
Lettera del Prefisso agli amanti della lingua
Cortese
Direttore del portale,
la prego di
voler pubblicare questa lettera aperta indirizzata agli amanti del bel parlare
e del bello scrivere. Sono il Prefisso. Le mie origini sono nobili, discendo,
infatti, dal latino "praefixus" (messo prima), composto con
"prae" che significa 'innanzi' e "fixus", participio
passato di "figere" (fissare, attaccare). Letteralmente significo,
per tanto, "attaccato prima". In grammatica rappresento ciascuna di
quelle "paroline", solitamente avverbi o preposizioni, che si mettono
prima della radice di un'altra parola per modificarne il significato
fondamentale; sono, insomma, un elemento che si premette a determinati vocaboli
per formarne altri della stessa famiglia. Perché questa lettera? Perché non
sempre sono adoperato a dovere. Molto spesso, per non dire sempre, mi
"vedo" unito alla parola che segue con un trattino: filo-monarchico.
Se debbo essere attaccato alla parola, il trattino che senso ha? Quest'ultimo
(il trattino) va bene per le parole composte (o accoppiate): la guerra
arabo-israeliana. Per non parlare, poi, di "filo", termine greco che
significa "amico", "amante" e simili. La stampa, tutta, si 'diverte'
a scrivere "filo-palestinese", "filo-arabo", "filo-israeliano"e
via dicendo. In questi casi "filo" è un prefisso e in quanto tale si
unisce alla parola senza quel ridicolo (e grammaticalmente scorretto) trattino:
filopalestinese. Nessuno, insomma, scrive (finora, per lo meno) "filo-sofia","filo-logo",
"filo-antropo". Perché, dunque, le altre parole con "filo"
debbono essere storpiate? Mi risulta che alcuni giornalisti (ma non solo)
giustificano l'uso del trattino per non creare, se la parola che segue comincia
con vocale, una forma cacofonica. Ma mi facciano il piacere! Motivazione pretestuosa in quanto in lingua
esiste la cosí detta crasi (dal greco "kràsis", mescolanza), vale a
dire la fusione ("mescolanza") di due parole in una in modo che
l'ultima vocale della prima parola si unisca ("mescoli") alla prima
dell'altra come, per esempio, in "capufficio" in luogo di capoufficio,
"fuoruscita" invece di fuoriuscita. Si può dire benissimo, quindi,
"filarabo" invece di filoarabo, "filisraeliano" in luogo di
filoisraeliano, "filamericano" anziché filoamericano. Il prefisso,
insomma, è una parola semanticamente non autonoma e si unisce a un'altra parola
per rafforzarne o variarne il significato, non necessita, per tanto, di
quell'orribile trattino.
Vi ringrazio
di cuore della vostra attenzione di cui mi avete onorato, ringrazio altresí il
Direttore per la sua cortese ospitalità. Un saluto dal vostro
Prefisso
mercoledì 4 febbraio 2015
Connazionale e concittadino
Connazionale e concittadino sono sinonimi?
Un pregevole articolo di Salvatore Claudio Sgroi, docente di linguistica italiana all'Università di Catania.
lunedì 2 febbraio 2015
Soffiare il naso alle galline
Ecco uno dei
tanti modi di dire della lingua italiana poco conosciuto, ma messo in pratica,
inconsciamente, da coloro che hanno un certo atteggiamento. La locuzione si
adopera, infatti, quando si vuole mettere in evidenza il fatto che una persona
si ostina a perseguire un'impresa
impossibile o si comporta in modo ridicolo, ma soprattutto si dice di persone
che si danno molto da fare senza concludere nulla o si atteggiano a geni capaci
di fare qualunque cosa. Se ripercorrete a ritroso la vostra vita vi accorgerete
di aver conosciuto moltissimi "soffiatori di naso". L'origine
dell'espressione non è molto chiara: sembra sia un semplice scherzo secondo
l'indole burlona del popolo contadino, che sa trovare modi di dire novissimi,
pregni di sagacia. La locuzione è ben "visibile" nel Cecchi, che
tratta di un parassito che deride un oste esprimendosi con queste parole: «Vuol
dar di becco, e commentar la legge, e parere il Tantusso, e quel che soffia il
naso alle galline, e fare il dotto». La medesima espressione la troviamo
nell'arte poetica del Saccenti il quale apostrofa un tale che voleva a tutti i
costi darsi arie di letterato: «E tu con lo stampar quattro dozzine di
sonetucci, credi immortalarti? Eh va a soffiar il naso alle galline».
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