giovedì 31 ottobre 2013

Una domanda interessante

Una domanda interessante: lo è o la è? 
Risponde la redazione consulenza linguistica della Crusca.

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La parola del giorno proposta da questo portale: lutulento. Aggettivo che vale  "fangoso" e, figuratamente, "impuro", "sozzo" e simili.

mercoledì 30 ottobre 2013

«In breve...»



La parola del giorno (di ieri): contubernio.

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«In breve...»

«Vi racconto, in breve, l'accaduto». Di primo acchito la frase (e quelle simili) sembra perfetta. Ma a un attento esame presenta un'improprietà che in buona lingua è da evitare. Quale? La locuzione "in breve" adoperata nelle accezioni di "insomma", "infine", "concludendo", "per farla breve", "in una parola" e simili. La predetta locuzione, insomma, in buona lingua italiana, non ha una "valenza" conclusiva ma sta per "brevemente", "presto", "in breve tempo", "in breve spazio" e simili. Diremo (e scriveremo) correttamente, quindi: «Vi racconto, brevemente (non in breve), l'accaduto». Saremo sbugiardati da qualche linguista "d'assalto" se, per caso, si imbattesse in questo sito?

lunedì 28 ottobre 2013

«Taglio cesareo»

L’«antistupro grammaticale» è proprio allergico al suo inventore. Ecco altre due perle dopo il “se  ne si potesse”:
«Il  parto cesareo si chiama così perché si racconta che la prima a subirlo fu la madre di Giulio Cesare.
Questo magari potevi anche non saperlo, in fondo si tratta solo di una curiosità.
Se però mi scrivi “cesario”, il parto te lo faccio fare al contrario. Taglio cesareo incluso».
La madre di Giulio Cesare non ha nulla che vedere con il parto cesareo. Cesareo viene dal latino “caedere”, che significa tagliare (in questo tipo di parto si “taglia” una sezione dell’utero). Quanto a “taglio cesareo”, anche se di uso corrente, non è corretto perché come  abbiamo visto cesareo significa di per sé taglio. Dire, quindi, taglio cesareo è come dire “taglio taglio”.
Chi è interessato agli "Antistupri grammaticali" può cliccare qui.

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Alcuni amici hanno "accusato" il sottoscritto di essere caduto in una ripetizione là dove scrive «... si taglia una sezione dell'utero», sostenendo che sezione vale "incisione". È vero, sezione ha anche questo significato, ma nel caso specifico sta per "parte" (una sezione dell'utero, cioè una parte dell'utero).


domenica 27 ottobre 2013

Essere duca di Cornovaglia

Questa  volta il padre, ormai “smaliziato”, non fu preso in contropiede dal figlio, fu il primo, infatti, a esclamare: «Guarda, Antonino, sta rincasando il commendator Tripponi, duca di Cornovaglia».  Tripponi – sarà bene chiarirlo subito – era noto a tutto il condominio per le scappatelle  della consorte; era, insomma, un marito tradito. I vicini di casa lo chiamavano eufemisticamente, per questo motivo, “Duca di Cornovaglia”. Quest’espressione – è intuitivo – si adopera quando si vuol mettere in risalto, ma con “eleganza”,  l’infedeltà coniugale cui è vittima uno dei coniugi. Sembra che la locuzione sia stata coniata dalla fantasia popolare: la contea inglese, “grazie” al suo nome, è divenuta – nell’immaginario popolare – il fantastico paese delle mogli e dei mariti traditi.

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La parola del giorno (proposta da questo portale): borborigmo. Sostantivo maschile. Nel linguaggio medico indica il rumore prodotto dagli intestini da spostamenti di gas.

sabato 26 ottobre 2013

L'«antistupro grammaticale»

Navigando in rete ci siamo imbattuti in questo sito, il cui sottotitolo “odora” un po’ di volgarità e di questo ci scusiamo con i nostri amici lettori. Il titolare del portale scrive:
Questa sezione del blog nasce con l’intento di contrastare l’ondata irrefrenabile di ignoranza grammaticale e sintattica che ha investito le nuove generazioni (e non solo), soprattutto grazie all’avvento dei social network come Facebook.
L’«antistupro grammaticale» non ha funzionato, però, con lo stesso autore. Nel suo profilo si può leggere uno strafalcione da far raddrizzare i capelli:
«È quasi impossibile prevedere fino a che punto le vie della vita si possano intrecciare tra loro. Ma se ne si potesse cogliere anche la più piccola consapevolezza, noi siamo qua per scoprirlo».
La forma  grammaticalmente corretta è:  “ Ma se se ne potesse…”.

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La parola che proponiamo oggi è: buccina. Sostantivo femminile. Antico strumento musicale da fiato a forma di corno.


venerdì 25 ottobre 2013

I bagni penali

Il piccolo Maurizio, che era un  “ marinaio” appassionato, lí per lí provò un sentimento d’invidia quando apprese che un suo antenato – nell’Ottocento – fu condannato ai bagni penali. La pena, tutto sommato, non era poi molto pesante – pensò – il suo avo era stato fortunato: poteva stare “a bagno” tutto il tempo che voleva senza che nessuno lo…  rimproverasse. Non era affatto cosí; se ne rese conto quando il padre gli narrò tutta la storia. Marc’Antonio, questo il nome del condannato, durante un litigio provocò la morte di un individuo e, per questo, fu condannato ai bagni penali, vale a dire ai lavori forzati. Questo tipo di “punizione” trae origine dal fatto che  anticamente i condannati al carcere duro venivano impiegati a remare stipati nella sentina delle galere  (di qui “galera” sinonimo di carcere), cioè nel fondo della stiva dove le acque ricolano e stagnano, quindi erano sempre “a bagno”. La sentina, cioè la fogna delle galere – sarà utile ricordarlo – trae il nome, sembra, dal latino “sentina”, connesso a “sentis”, cioè a spina perché fatta, appunto, a spina di pesce. Con il passare del tempo si chiamarono bagni penali tutti i luoghi o edifici dove erano rinchiusi i condannati ai lavori forzati.  Nel nostro Paese esistevano fino al 1891 – anno in cui furono chiamati “ergastolo” e “casa di reclusione” – i bagni di porto Santo Stefano e di Alghero. Famosi anche i bagni di Livorno, cioè il mastio della Fortezza Vecchia, in parte sotto il livello del mare (quindi “a bagno”) dove erano rinchiusi gli schiavi turchi.

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La parola del giorno (di ieri): neghittoso

giovedì 24 ottobre 2013

La razza e la... razza

La nostra lingua è ricca di parole "omofone" (stesso "suono") e "omografe" (stessa grafia). Vediamo, succintamente, la differenza. Le parole omofone sono dette anche "omonime" perché oltre ad avere il medesimo "suono" hanno anche lo stesso nome (la "bugia", per esempio: candeliere e menzogna); quelle omografe, invece, hanno la medesima grafia ma il "suono", cioè la pronuncia, non sempre uguale. Legge, "norma" e lègge, dal verbo leggere, per esempio, sono omografe ma non omofone. Le parole omofone, quindi, sono sempre omografe; queste ultime invece, non necessariamente sono anche omofone. E quanto alle omofone (o omonime) c'è da dire che nella stragrande maggioranza dei casi provengono da due termini diversi che hanno finito con il coincidere per l'evoluzione storica del linguaggio. Vediamo, in proposito, qualche esempio: la lira, moneta, viene dal latino "libra(m), mentre la lira, strumento musicale, da "lyra(m); il miglio, la pianta, ha origine da "miliu(m), il miglio, la misura da "milia". Ancora: la fiera, belva, da "fera(m), fiera, mercato, da "feria(m)"; botte, recipiente, da "butta(m)" ('piccolo vaso'), botte, percosse, dal francese antico "boter" (percuotere). Sarà bene, per tanto, accentare le parole omonime che possono generare equivoci: balia e balía; regia e regía; ambito e ambíto; subito e subíto; ancora e àncora; decade e decàde. L'accento che si adopera in questi casi si chiama "fonico" perché fa cambiare, appunto, il "suono" alle parole che hanno il medesimo nome. Un accento, diceva un grande linguista, "se al posto giusto non ha mai fatto male a nessuno".  Vediamo, ora, un'altra parola omografa ma non omofona perché  a seconda della pronuncia cambia di significato: razza. Pronunciata con zeta dolce indica un pesce marino la cui lunghezza varia da trenta centimetri a due metri, ha la forma di un rombo con gli occhi sul dorso e la bocca sul ventre.  Se si pronuncia, invece, con la zeta aspra indica un sostantivo il cui significato è noto a tutti: gruppo di individui di una  medesima specie, animale o vegetale; quindi  gruppo, popolazione, popolo. 

mercoledì 23 ottobre 2013

L'imoscàpo







La parola del giorno che proponiamo è: imoscàpo. Sostantivo maschile. In architettura indica la parte inferiore di una colonna.

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Interessante quesito posto a "Domande e risposte" del sito della Treccani: interessarsi 'a' o 'di'?

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Un articolo di Michele Cortelazzo: «La reputazione dell'italiano» 

martedì 22 ottobre 2013

La recelliclúna

Tra le parole che ci piacerebbe fossero “riesumate” e messe di nuovo a lemma nei vocabolari segnaliamo recelliclúna. Questo sostantivo, di genere femminile e di provenienza latina, indica (indicava) una donna frivola che nel camminare muove i glutei  lascivamente.  Il termine era anche un soprannome dato alle meretrici, come si può vedere cliccando su questo collegamento.

lunedì 21 ottobre 2013

Due parole sull'«impossibile»

Sappiamo già che saremo “sbugiardati” dai vocabolari e dai linguisti (se qualcuno di costoro dovesse imbattersi in questo sito) su quanto stiamo per scrivere; ma andiamo avanti per la nostra strada, convinti della bontà della tesi che sosteniamo. Ci riferiamo all’uso corretto dell’aggettivo “impossibile”, che significa “che non può essere”, “che non si può fare”,  “che non si può attuare”, “che non può compiersi” e simili: è impossibile affrontare un viaggio con due bambini cosí piccoli; credo sia impossibile che riesca a ottenere quello che chiede.  Bene.  Alcuni adoperano quest’aggettivo “alla francese”, dandogli un significato che non ha, ritenendolo sinonimo di “difficile”, “intollerabile”, “insopportabile”, “intrattabile”, “scontroso”, “pessimo”, “insostenibile” , “inaccettabile” e simili: c’è un traffico impossibile; mi ha fatto una proposta impossibile; ha un carattere  veramente impossibile;  fa un caldo impossibile. Gli amatori dell'italico idioma adopereranno - in casi del genere -  gli aggettivi propri che fanno alla bisogna: c’è un traffico insostenibile; mi ha fatto una proposta inaccettabile; ha un carattere insopportabile, scontroso; fa un caldo insopportabile.  Un’ultima notazione. Il termine in oggetto può anche assumere il valore di sostantivo maschile: volere l’impossibile; tentare l’impossibile; fare l’impossibile ecc. 

sabato 19 ottobre 2013

Riguardo "il" o riguardo "a"?

Dalla rubrica di lingua del quotidiano la Repubblica in rete:
   

Buongiorno, vi vorrei chiedere qual è la forma corretta tra “riguardo il” e “riguardo al”. “Ho svolto il mio dovere riguardo il/al caso in questione”. Vi ringrazio come sempre.
  
linguista scrive:
Vanno bene entrambe le forme.
Fabio Ruggiano
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Dissentiamo totalmente dal dr Ruggiano.  La sola forma corretta è “riguardo a” perché la locuzione significa “in quanto a”, "in relazione a" (tutte locuzioni costruite con la "a"). Gli scettici possono vedere qui.

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La parola del giorno (proposta da questo portale): ialino. Aggettivo. Trasparente, vitreo.

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Riportiamo, per correttezza, l'emendamento del dr Ruggiano:

  1. linguista scrive:
    Fabio Ruggiano

venerdì 18 ottobre 2013

Brutalizzare: francesismo da... evitare

Le cronache nere dei giornali sono piene di questo verbo: «Ragazza aggredita e brutalizzata da quattro malviventi»; «Extracomunitari brutalizzano una pensionata, ». Chi ama scrivere secondo i "sacri crismi" della lingua di Dante aborrisca da questo verbo essendo il francese "brutaliser". Ci sono altri verbi schiettamente italiani che fanno alla bisogna, secondo i casi, ovviamente: maltrattare, torturare, violentare, perseguitare, trattare brutalmente. Scriveremo "correttamente", quindi: «Ragazza aggredita e violentata da quattro malviventi», cosí come scriveremo «extracomunitari torturano una pensionata».

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La parola del giorno (proposta da questo portale): edàce. Aggettivo che sta per vorace, divoratore, ingordo e simili. Si usa, in senso figurato, prevalentemente in poesia.

giovedì 17 ottobre 2013

Mi è costato una cifra!

Cortesi amanti del bel parlare e del bello scrivere, quante volte avete sentito o pronunciato voi stessi frasi del genere? Ebbene: frasi di questo tipo sono maledettamente errate. Probabilmente ci attireremo le ire di qualche linguista "d'assalto" ma non possiamo sottacere questo orrore. Vediamo, dunque, dov'è l'errore. È presto detto: nel termine "cifra". Perché la cifra essendo propriamente il segno grafico con il quale vengono rappresentati i numeri dall'uno allo zero non si può usare nel significato di "prezzo", "somma", "totale" o "numero". Diremo correttamente, quindi, che quell'affare «mi è costato un prezzo eccessivo». Abbiamo letto su un giornale, a proposito della tragedia di Lampedusa, che «la cifra dei morti aumentava di giorno in giorno». Non siamo riusciti a trattenere - nonostante la gravità della notizia - una clamorosa risata. E sempre a proposito di cifra, non si dica "cifre romane" perché i Latini per indicare i numeri adoperavano le lettere dell'alfabeto non conoscendo le... cifre arabe, per l'appunto.

mercoledì 16 ottobre 2013

Tribale





La parola del giorno (di ieri): tribale. A proposito di questo aggettivo, a nostro modesto modo di vedere la sola forma "corretta" è tribuale. Perché? Si veda questo vecchio intervento.

martedì 15 ottobre 2013

Consentaneo






Oggi proponiamo solo la parola del giorno: consentaneo. Aggettivo che sta per "confacente", "conforme", "conveniente" e simili. Si veda qui e qui.

lunedì 14 ottobre 2013

Moto da luogo: "di" o "da"?

Il complemento di moto da luogo indica – come si sa – il luogo, anche figurato, dal quale il moto ha inizio. Si riconosce perché risponde alla domanda sottintesa “da dove?” ed  è introdotto dalle preposizioni  “di” e “da”: vengo dall’ufficio; esco ora di casa. I classici, però, non adoperavano indifferentemente le due preposizioni. Riservavano la preposizione “da” (il latino ‘ab’) per indicare propriamente l’allontanarsi dall’esterno di un luogo; la preposizione “di”, invece (il latino ‘ex’ o ‘e’), per indicare piú spesso il partire dall’interno di un luogo, insomma l’uscirne fuori.  Secondo questa “regola classica”, dunque, la preposizione “di” si usava (e si dovrebbe adoperare ancora oggi) con i verbi ‘partire’, ‘fuggire’, ‘uscire’, ‘cadere’, ‘guarire’; la sorella  “da” con i verbi ‘nascere’, ‘dipendere’, ‘derivare’, ‘degenerare’, ‘tralignare’, ‘scampare’.  L’uso del “di” per “da” nel moto da luogo, insomma, è una di “quelle cosette” linguistiche che ancora oggi – se adoperate correttamente – mettono all’occhiello dello scrivente o del parlante un bel distintivo di classicità. E Giacomo Leopardi non mancò di… fregiarsene.  E con la medesima logica – i classici – distinguevano i modi  “lontano da…”, “lontano a…”. Nel primo modo si concepisce lo spazio dal punto piú lontano da noi a quello piú vicino; nel secondo si percepisce lo spazio dal punto a noi piú vicino al punto a noi piú lontano. Sono solo sottigliezze, però…
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La parola del giorno (proposta da questo portale): venustà. Sostantivo femminile deaggettivale.  Bellezza, leggiadría, grazia. Si veda anche qui.

domenica 13 ottobre 2013

Abbaio e... abbaío

Questo sostantivo maschile ha significati diversi, a seconda dell’accento. Quando questo cade sulla seconda a, il vocabolo indica il verso del cane nell’abbaiare; se, invece, l’accento cade sulla i il termine segnala l’abbaiare continuato di uno o più cani: ieri non ho dormito perché disturbato da un abbaìo. Il plurale è: abbai, nel primo caso; abbaii, nel secondo.

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La parola del giorno (proposta da questo portale): peàna. Sostantivo maschile. Canto di gioia, di giubilo.

sabato 12 ottobre 2013

Il comparativo con gli avverbi

Dalla rubrica di lingua del quotidiano la Repubblica in rete:
Un lettore desiderava chiarimenti circa la formazione del comparativo e superlativo con gli avverbi.

    linguista scrive:
Grazie. Per essere ancora più chiari: quando la costruzione è fatta con un avverbio, la differenza tra il comparativo e il superlativo relativo sta proprio nella presenza o assenza del quantificatore tutto. Quindi: “Mario è arrivato prima dei colleghi” è un comparativo di maggioranza, “Mario è arrivato prima di tutti i colleghi” è un superlativo relativo.
Fabio Ruggiano
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Il dr Ruggiano ci perdonerà, ma proprio non riusciamo a capire dove siano il comparativo di maggioranza e il superlativo relativo negli esempi riportati dal linguista. Saremmo onorati e lieti di ospitare un eventuale chiarimento del professore, soprattutto se la nostra “contestazione”  risultasse infondata.



giovedì 10 ottobre 2013

Il cicchetto

La parola che proponiamo oggi è “cicchetto” che, come sappiamo, significa rimprovero.  Sulla provenienza del termine Ottorino Pinigiani dà una spiegazione leggermente  diversa dalla nostra. Il vocabolo, dunque, dovrebbe esser noto ai lettori piemontesi perché sembra sia “nato” nella loro terra ed esportato su tutto il territorio nazionale con il significato suddetto.  Il termine sarebbe, dunque, il  piemontese “cichet” e questo dal provenzale “chiquet”, piccolo bicchiere, bicchierino e, per estensione, il suo contenuto. Il passaggio semantico da bicchierino a rimprovero, nato dapprima negli ambienti militari – secondo il linguista Lorenzo Renzi - «deve esser nato nelle caserme cosí: chi veniva chiamato in disparte dal superiore per una strigliata, sarà tornato riferendo scherzosamente ai colleghi  che il capitano (o chi per lui) gli aveva dato “un cicchetto”; e cioè offerto da bere».  

mercoledì 9 ottobre 2013

L'alternativa

Due parole sull’uso corretto di “alternativa”. L’argomento, forse, è stato già trattato e, nel caso, ci scusiamo per la ripetizione. Ma abbiamo notato che buona parte dei cosí detti mezzi di comunicazione di massa, i “massinforma”, ignora il buon uso del termine e lo adopera a sproposito.  I grammatici sostengono,  dunque,  che per alternativa si deve intendere una scelta, o meglio una possibilità di scelta fra due termini e non  come una delle possibilità che la scelta stessa concede. La frase, per esempio, “l’alternativa è o morire o combattere” è correttissima in quanto esiste un’ «alternativa», vale a dire la possibilità di scegliere di combattere o di morire. Se diciamo, invece, «non ha altra alternativa che morire» il discorso è agrammaticale, anzi insensato, perché non esiste possibilità di scelta. Che fare, quindi, in caso di dubbio sul corretto uso di alternativa? Seguire i consigli di alcuni grammatici: sostituire “alternativa” con “dilemma”. Se il discorso “fila”, cioè ha un senso, l’uso di alternativa è corretto, altrimenti no. Vediamo con alcuni esempi pratici. Nella frase, vista prima, «l’alternativa è o morire o combattere» l’alternativa si può sostituire con “dilemma” e il discorso fila ugualmente: il dilemma è o morire o combattere. Nella seconda frase, invece, «non ha altra alternativa che morire» l’alternativa non si può sostituire con dilemma perché non ha senso dire, infatti, «non ha altro dilemma che morire». L’uso di alternativa, in questo caso, è, dunque,  spudoratamente scorretto.  I massinforma  - come dicevamo -  sono incuranti di queste “ norme” (le conoscono?) e fanno un  uso (e abuso) improprio, anzi scorretto, di alternativa. Ma sono in buona compagnia, dobbiamo dire, perché anche i vocabolari non sono da meno. Lo Zingarelli, per esempio, riporta: «Non avere altra alternativa; gli restava una sola alternativa».  Provate a sostituire alternativa con dilemma e vedrete che i conti non… tornano.  Il Sandron registra: «La sola alternativa che ci resta è la resa». Avverte, però, che l’uso è improprio. Noi sosteniamo, invece, che è “maledettamente scorretto”.

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La parola del giorno (proposta da questo portale): conservatorio. Sostantivo maschile.  Istituto per la formazione dei musicisti.

martedì 8 ottobre 2013

Il bucchero


La parola del giorno (proposta da questo portale): bucchero. Sostantivo maschile.  Vaso di terracotta rossastra che ha la proprietà di conservare freschi il vino e l’acqua.

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Gentilissimo dott. Raso,
 spero di non approfittare della sua squisita cortesia. Le scrivo ancora per un altro quesito. Ai tempi della scuola ho imparato che le parole tronche non si accentano (e non si apostrofano, salvo qualche eccezione: mo’, troncamento di modo e po’, troncamento di poco, per esempio). A questo punto vorrei  sapere se è corretto apostrofare la terza persona  singolare del presente indicativo del verbo potere: egli puo’. Mi è stato fatto notare che l’apostrofo, in questo caso, è errato; ci vuole l’accento: egli può. Potrebbe chiarirmi le idee? Grazie in anticipo. 
Ottavio L. 
Terni
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Sí, cortese Ottavio, l’apostrofo è errato, ci vuole l’accento.  Il motivo è semplice:  «può» è la forma tronca dell’antico «puote». Le parole tronche che originariamente avevano l’accento tonico (accento che si “sente” ma non si segna graficamente) sulla penultima sillaba lo conservano tramutandolo in accento grafico. Per questo motivo abbiamo: città (da cittade), virtú (da virtude); gioventú (da gioventude); beltà (da beltade) e può da… puote.


domenica 6 ottobre 2013

Osservazioni...

Amante e amatore – i due termini non andrebbero adoperati indifferentemente. Il primo solo nel significato proprio del verbo amare da cui deriva; il secondo (con il femminile amatrice) nell’accezione di cultore, appassionato e simili: Pasquale è un amatore della lingua italiana.
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Bisognare – verbo impersonale. Nei tempi composti richiede tassativamente l’ausiliare essere: giovedì era bisognato uscire. Seguito da un verbo di modo infinito rifiuta qualunque preposizione: mi bisogna parlarti (non di parlarti) urgentemente.
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Brillare per l’assenza – espressione da non adoperare: brillare nell’accezione di distinguersi è un francesismo da evitare.
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Cesto – sostantivo maschile che cambia di significato a seconda della pronuncia aperta o chiusa della e. Con la e chiusa (césto) il termine indica una sorta di paniere; con la e aperta (cèsto) il vocabolo definisce un’armatura di metallo o di cuoio che indossavano gli antichi pugilatori.

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La parola del giorno (proposta da questo portale): balipèdio. Sostantivo maschile (dal greco “bàllein”, gettare e “pèdion”, spianata). Luogo riservato alle esercitazioni di tiro delle artiglierie.

venerdì 4 ottobre 2013

Marcare visita

Il treno, fermo alla stazione del paesino, stava per partire; il capostazione aveva già dato il “fischio” quando, trafelato, giunse il padre di Armandino:  «Tieni – disse al figliolo – ti ho portato molte marche, ti saranno utili non appena giungerai in caserma; potrai subito “marcare visita” e ottenere, probabilmente, un periodo di assoluto riposo; cosí la mamma sarà piú tranquilla, almeno temporaneamente». Non sapeva il padre – che non aveva servito la Patria, quando la leva militare era obbligatoria – che le marche non hanno nulla che vedere con l’espressione “marcare visita” che – nel gergo militare – significa “darsi malato”. Una certa parentela con la “marca” – nell’accezione che tutti conosciamo – si può provare, però.  Per farlo occorre prendere il discorso alla lontana. La marca, cioè il bollo che si applica sui documenti (un tempo si applicava sulla patente di guida, per esempio) per provare il relativo pagamento di una tassa e simili, viene dal tedesco “marka”, che significa “segno”. Il verbo marcare, vale a dire contrassegnare con marca, bollare, annotare, “segnare” viene, infatti dalla voce teutonica “marka”. Tornando, quindi, all’espressione “marcare visita” sembra che questa derivi dalla locuzione piemontese “marché a liber” (scrivere sul libro). Coloro che all’epoca hanno svolto il servizio militare sanno che ogni mattina il caporale di giornata passava per le camerate con il registro sul quale annotava (‘marcava’,’segnava’) i nomi dei militari che chiedevano la visita medica. Marcare visita, per tanto, pur provenendo da un’espressione vernacolare piemontese, può avere – come dicevamo all’inizio – una certa parentela con il germanico “marka”.

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La parola del giorno (proposta da questo portale): sincretismo. Sostantivo maschile. Dottrina religiosa o filosofica basata sul “fondere” insieme i princípi di diverse scuole o di diverse religioni.  

giovedì 3 ottobre 2013

Domandare se San Cristoforo fu nano

Questo modo di dire, oggi forse desueto e sconosciuto ai piú, si adopera quando si vuol mettere in evidenza l’ “intelligenza” di una persona, che fa domande senza senso. Si dice di chi, come fa osservare P.L. di Vassano, “per mente distratta o poco cervello domanda cose che sanno anche i putti”. Tutti sanno (?), infatti, che S. Cristoforo, un tempo venerato come protettore dei facchini e dei viandanti, fu di statura enorme, gigantesca, come viene raffigurato nelle icone sparse un po’ in tutte le chiese. Domandare, quindi, se fosse di statura bassa è come fare una domanda senza senso. Di qui, per l’appunto, il modo di dire.
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La parola del giorno (proposta da questo portale): malleabile.  Aggettivo. Si dice, in senso figurato, di persona  buona, docile, che si lascia convincere con molta facilità. 

martedì 1 ottobre 2013

Sennonché (o se non che). Errato: senonché

Gli amici che ci seguono ci perdoneranno se battiamo, ancora,  sullo stesso tasto: il vocabolario Gabrielli in rete “ritoccato”. Questa volta hanno “corretto” il loro Maestro circa la grafia della congiunzione “sennonché”. Per costoro si può scrivere anche con una sola “n”: senonché.  I geniali  “correttori” del Gabrielli hanno dimenticato (ma lo sanno?) che il “se” richiede sempre il raddoppiamento della consonante che segue: seppure, semmai, sebbene, sennò.  La sola grafia corretta è, dunque, sennonché. Lo ribadisce lo stesso linguista nel suo “Dizionario Linguistico Moderno”.  Il DOP, Dizionario di Ortografia e di Pronunzia non ha dubbi in proposito. Ecco ciò che scrive il vocabolario “rivisto e corretto” . Ed ecco ciò che scrive il DOP.