giovedì 30 agosto 2012

Quella romantica diligenza

Vi siete mai soffermati a riflettere sul motivo per
cui la carrozza a due o più cavalli che un tempo
serviva per il regolare trasporto di persone da un
luogo all’altro si chiama (o chiamava) diligenza?
No?! Bene. Allora approfittiamone e viaggiamo
assieme, con la fantasia, sulla diligenza che ci
condurrà al mare. Durante il percorso, breve, vedremo
come è nato il nome di questa vettura che
ha sempre un suo intramontabile fascino.
Come la grande maggioranza delle parole anche
“diligenza” si rifà al padre della nostra lingua:
il latino. E dal latino “diligentia”, appunto, è
nato il termine italiano con due significati diversi
ma strettamente in rapporto tra loro (anche se,
per la verità, diligenza nel significato di “vettura”
ci è giunto dal francese “diligence”: il francese
non è figlio del latino?). Ma andiamo con ordine.
Nella prima accezione il termine diligenza ha
conservato lo stesso significato che aveva il latino
“diligentia”, vale a dire ‘cura’, ‘zelo’, ‘premura’ e
perché no? ‘fretta’. In seguito ha assunto anche
il significato di “vettura”, “carrozza”. Ma che
rapporto intercorre tra diligenza nel significato
di ‘premura’ e quello di ‘carrozza’? Un rapporto
strettissimo. In Francia, tra il Seicento e il
Settecento, si chiamò “carrosse de diligence” un
mezzo di trasporto rapido che viaggiasse con la
massima ‘premura’ (‘diligence’). Con il trascorrere
del tempo, come accade spesso in fatto di
lingua, si tralasciò “carrosse de diligence” e restò
solo ‘diligence’, donde la nostra “diligenza”.


* * *


Due parole, due, sull’uso di un aggettivo che a nostro modo di vedere molto spesso viene adoperato a sproposito: nutrito. Questo aggettivo, dunque, è il participio passato del verbo “nutrire” e significa ‘pasciuto’,‘robusto’,‘ben nutrito’ e simili: è un ragazzo ‘nutrito’, cioè pasciuto. Molto spesso si usa, invece, con un significato che non ha: ‘caloroso’, ‘forte’, ‘insistente’, ‘scrosciante’ e simili: la cantante è stata accolta con un nutrito applauso. Quest’uso, se non scorretto, ci sembra, per lo meno, ridicolo. Gli applausi possono essere ‘nutriti’, cioè pasciuti, robusti? Certamente no. Chi ama il bel parlare e il bello scrivere ha altri aggettivi che fanno alla bisogna in casi del genere: caloroso, lungo, forte, fragoroso, scrosciante, incessante ecc.

mercoledì 29 agosto 2012

Sostantivi esocentrici







Abbiamo deciso di spendere due parole sui sostantivi chiamati “composti esocentrici” perché siamo sicuri – a costo di essere tacciati di presunzione – che le cosí dette firme di spicco del giornalismo (ma non solo) non hanno mai sentito parlare di questo tipo di sostantivi, anche se si piccano di fare la… lingua.
Si chiamano “esocentrici”, dunque, quei nomi composti – generalmente un sostantivo e un aggettivo – che hanno il ‘significato’ nel loro interno, “dentro” (dal greco ‘éso’, ‘éiso’, dentro, all’interno). Un nome composto la cui ‘esocentricità’ è ben… visibile è “pellerossa”. Proprio per questo motivo alcuni Autori lasciano detto sostantivo invariato nella forma plurale: il pellerossa, i pellerossa. Per costoro, dunque, il “significante” è all’interno del termine: l’uomo “che ha” la pelle rossa; l’uomo “dalla” pelle rossa. Noi non condividiamo assolutamente e preferiamo attenerci alla regola secondo la quale i nomi composti di un sostantivo (pelle) e di un aggettivo (rossa) nella forma plurale mutano le desinenze di entrambi i componenti: il pellerossa, i pellirosse.
È meglio, comunque, lasciare invariato il sostantivo invece di pluralizzare solo il primo elemento: i pellirossa. Il solito cosí detto opinionista di un grande quotidiano ha scritto, infatti, che «i ‘pellirossa’ sono stati maltrattati per secoli». Cerchiamo di non maltrattare, cortese amico, né i pellirosse né la lingua di Dante.
E veniamo – per concludere questa chiacchierata – a una parola di uso comune il cui significato ”vero” è nascosto: l’emolumento. Con questo termine si indica il “compenso straordinario che un impiegato di altissimo grado può ricevere oltre lo stipendio”. Bene. L’accezione ‘nascosta’ è, propriamente, “compenso per la molitura”. Il termine, che con il tempo ha acquisito anche il significato generico di ‘guadagno’, ‘compenso’, ‘paga’,’onorario’ e simili, viene, infatti, dal latino “emolumentu(m)”, composto di “e(x)” e un derivato di “molere” (macinare) e in origine era, per l’appunto, ciò che spettava agli addetti alla macinatura dei cereali.

martedì 28 agosto 2012

È la fine del mondo...






Un gentile blogghista, che desidera rimanere anonimo, ci ha scritto pregandoci di spiegare come è nata la locuzione È la fine del mondo per “magnificare qualcosa, anche una bella ragazza”. “La fine del mondo – scrive – non è una minaccia apocalittica? Terrorizzante, spaventosa? Il detto giusto – prosegue - dovrebbe essere ‘è l’ottava meraviglia del mondo’, che gli ignoranti hanno cambiato”.
Ci dispiace, gentile amico, ma il detto giusto è proprio È la fine del mondo, con due distinti significati che potremmo definire “antitetici”: uno negativo, l’altro positivo. L’espressione, dunque, di uso prettamente popolare, è tratta dalle Sacre Scritture e si adopera – come si sa – quando si vuole mettere in evidenza una situazione o un avvenimento tremendo, disastroso, terrificante, che provoca scompiglio e paura, tale fa far ritenere che sia arrivata, per l’appunto, la fine del mondo. Da questo significato ‘negativo’ è nato – diciamo per antitesi – quello ‘positivo’: essere una cosa stupenda, straordinariamente bella e… irripetibile, tale da far pensare che il mondo non potrà piú generare e, quindi, vedere qualcosa di altrettanto stupendo.

lunedì 27 agosto 2012

Dare il mattone a uno





Non vorremmo essere tacciati di presunzione se asseriamo – senza ombra di dubbio – che questo modo di dire è “totalmente” sconosciuto anche alle persone cosí dette acculturate. La locuzione, intanto, si adopera (chi la conosce) quando si vuole mettere in evidenza il fatto che una persona è stata costretta a fare una cosa che non voleva fare e, quindi, è stata sopraffatta, vinta da altre persone psicologicamente piú forti. Donde viene questo modo di dire? Dal gergo dei sarti. Giovanni Maria Cecchi, commediografo fiorentino del secolo XVI, dà, infatti, questa spiegazione:
«I sartori quando hanno cucito un rimedio o un ribattuto, perché non si vegga, o venga bene spianato, tolgono una pietra morta che chiamano il mattone, e lo fanno rovente al fuoco: mettendoci poi sopra una pezzolina, e con una spugna immollano; mettendoci poi sopra il panno che vogliono spianare, con un istrumento di legno… largo dalla testa e stretto nel mezzo, che chiamano il bonzo, pigiano e stropicciano forte finché tal costura si spiani. Questo modo di fare si chiama “dare il mattone”. Onde per similitudine quando uno ha fatto fare a un altro o condottolo a cosa che non doveva, si dice tu gli hai dato il mattone».
L’espressione è stata estesa anche al significato di “vincere uno in modo furbesco”. Il Lasca (
http://it.wikipedia.org/wiki/Anton_Francesco_Grazzini) ci dà un bellissimo esempio del modo di dire nelle “Rime”, allorché parla del Rovajo (un vento di tramontana, ndr): «Questa è la tua stagione, / o famoso Rovajo: / Furon tuoi sempre Dicembre e Gennaio, / Non di libeccio e di Marin poltrone, / E stai sotto al macchione; / Poi questa state ci darai il mattone, / Come spesso far suoi».

domenica 26 agosto 2012

«Ci» e «vi», il loro uso corretto





Molti ritengono che le particelle avverbiali (oltre che pronomi) “ci” e “vi” – e lo sostengono, purtroppo, anche alcune grammatiche – sono perfettamente equivalenti. Non è proprio cosí. “Ci” (in questo luogo), infatti, si può sostituire a “vi” (in quel luogo) anche se questa sostituzione è molto discutibile: sono stato due giorni a Cosenza e non “ci” ho trovato quello che cercavo; “vi”, invece, non può sostituire “ci”: quando Luigi è arrivato io non v’ero piú; bisogna dire, correttamente, io non “c’ero” piú. Ci e vi si usano, infine, senza una funzione specifica, nell’ambito di un’intera proposizione: non v’ha dubbio; qui non ci si vede; in casa tua non mi ci trovo; ci si perde molto tempo a spiegargli le cose.

sabato 25 agosto 2012

Capricci e generosità






«Il mio bambino oggi fa i capricci: ha la tonsillite; ma è generoso e non gli si può rimproverare nulla».
Queste parole, pronunciate da una nostra amica nei confronti del suo pargoletto, ci hanno dato lo spunto per riprendere il nostro viaggio, attraverso l’immensa foresta del vocabolario della lingua italiana, alla ricerca di vocaboli “di tutti i giorni”, vocaboli che adoperiamo e conosciamo “per pratica” ma di cui ignoriamo il significato ‘nascosto’, quello insito nella parola. Cominciamo con il capriccio. Chi non conosce questo termine? Se non altro basta aprire un qualsivoglia vocabolario della nostra bellissima lingua e leggere: voglia, fantasia improvvisa, irragionevole, di breve durata, stranezza, stravaganza, bizzarria. Bene. Questo il significato ‘scoperto’. Vediamo, ora, quello nascosto che ci rimanda all’etimologia del termine. Diamo la ‘parola’, per questo, a un insigne linguista, di gran lunga piú autorevole dell’estensore di queste modestissime noterelle:
http://www.etimo.it/?term=capriccio&find=Cerca . Avete mai osservato il comportamento delle capre? Non è un comportamento… capriccioso?
E veniamo a generoso, altro termine noto la cui… notorietà ci riporta al latino ‘generosus’, vale a dire che è “di buon lignaggio”, tratto da ‘genus’, razza, genere. Il generoso, stando all’etimologia, è grande e nobile di cuore, quindi (
http://www.etimo.it/?term=generoso&find=Cerca ).
Terminiamo il viaggio con il rimprovero, altro vocabolo di uso comune e sulla bocca di tutti. Cos’è, dunque, un rimprovero? Apriamo, come il solito, un vocabolario della lingua italiana e leggiamo: il dire a qualcuno parole di censura e di biasimo e, concretamente, le stesse parole. Questo il significato conosciuto. E quello ‘ignoto’, cioè il significato insito nel vocabolo medesimo? Anche in questo caso ci affidiamo al Pianigiani. Prima, però, c’è da dire che il sostantivo in oggetto è un deverbale, vale a dire un nome derivato da un verbo, nella fattispecie il verbo ‘rimproverare’.

Sentiamo, ora, il Pianigiani: http://www.etimo.it/?term=rimproverare&find=Cerca .
Speriamo, in proposito, che nessun lettore ci… rimproveri di averlo tediato con le nostre chiacchierate forse un po’ troppo tecniche.

venerdì 24 agosto 2012

Tagliare i panni addosso (a qualcuno)






Chi non conosce questa locuzione, che in senso figurato significa “criticare”, “parlar male”, “fare maldicenza”, “spettegolare”, “denigrare” (qualcuno)? L’espressione – è evidente – è un traslato del significato proprio della locuzione: per fare un vestito, il sarto prima prende le varie misure del corpo, poi traccia sulla stoffa, con il gesso, il segno del taglio, infine imbastisce le varie parti e le prova sul corpo del cliente. Durante quest’ultima operazione osserva con la massima cura il suo operato e comincia a tagliare la stoffa qua e là al fine di correggere eventuali difetti. Allo stesso modo, metaforicamente, coloro che ‘tagliano addosso i panni’ a qualcuno studiano nei minimi particolari la persona sulla quale puntano i loro strali per metterne in evidenza i difetti, le colpe, le debolezze e su queste ‘imbastiscono’ i loro discorsi.
Francesco Berni, poeta burlesco e satirico del XVI secolo, ci dà un bellissimo esempio di questo modo di dire: Cantai di lei, come tu sai, l’altr’anno / E come ho detto, e tagliai la vesta / Larga, e pur mi rimase in man del panno. / Però de’ fatti suoi quel ch’a dir resta, / Coll’ajuto di Dio, si dirà ora; / Non vo’ ch’ella mi rompa piú la testa.
Anche nel Foscolo abbiamo un altro bell’esempio dell'espressione leggendo l’ “Epistolario” (V, 314): Per quanto gli altri mi taglino i panni addosso, mi resterà sempre intorno la coscienza, il velo trasparente dell’onestà.

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Amate i dialetti d’Italia? Ecco un sito che fa per voi:

http://www.atlantelinguistico.it/home.html

mercoledì 22 agosto 2012

Inerme e inerte










Ecco altri due vocaboli di uso comune che molto spesso si confondono: inerme e inerte. Provengono entrambi dal latino, ma con significati diversi: il primo sta per “disarmato”, “senza armi”: è stato colpito un uomo inerme; il secondo vale “inattivo”, “immobile”, “inoperoso” e simili: Giulio se ne stava inerte a osservare la scena. Per maggiori dettagli diamo la “parola” – come di consueto – a Ottorino Pianigiani:

http://www.etimo.it/?term=inerme&find=Cerca

http://www.etimo.it/?term=inerte&find=Cerca


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Perché si dice che rompere uno specchio porti sfortuna?
La risposta nel collegamento in calce.


http://www.ilsapientino.com/curiosita/fenomeni-insoliti/perch-si-dice-che-rompere-uno-specchio-porti-sfortuna.html

martedì 21 agosto 2012

Suturare e saturare







Si presti attenzione a questi due verbi perché molto spesso si confondono. Hanno origini e significato completamente diversi. Il primo è un verbo denominale provenendo dal sostantivo latino “sutura” (‘cucitura’) e nel linguaggio medico-scientifico significa “chiudere, saldare una ferita “. Il secondo è pari pari il latino “saturare” (saziare), tratto da “satis” (abbastanza, a sufficienza). In senso figurato vale “riempire al massimo”, “colmare” e simili: l’aria si è saturata di umidità.

http://www.etimo.it/?term=saturo&find=Cerca

lunedì 20 agosto 2012

Decisamente (uso e abuso)








Decisamente – fa notare il linguista Luciano Satta – è un «avverbio che dovrebbe significare soltanto “con decisione”. Invece è adoperato anche, dai malparlanti, in luogo di “certamente”: “È ‘decisamente’ un bel film”. E, fateci attenzione, i malparlanti che usano questo ‘decisamente’ sono gli stessi che dicono ‘esatto’ e ‘senz’altro’ in luogo di ‘sí’».
Chi ama il bel parlare e il bello scrivere non può non seguire gli insegnamenti dell’illustre linguista.



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Alcuni amici blogghisti si domandano e domandano per quale motivo quando si vuole mettere in risalto la stupidità di una persona o la nullità di un cosa si ricorre agli attributi maschili. Non si dice, infatti, che quella cosa “non vale un...” e che quell’individuo è un “emerito testa di...”? Il perché di queste espressioni triviali si perde nella notte dei tempi: da che mondo è mondo, chissà perché, gli organi genitali, nell’immaginario popolare, sono sempre stati considerati sinonimo di imbecillità e di nullità. Ce lo confermano due parole - fra le tante - di uso comune, anche se dal “sapore” volgare: fesso e fregnone. La prima è voce è napoletana, tratta da “fessa”, l’organo femminile, la seconda, con la variante eufemistica “frescone”, è l’accrescitivo romanesco di “fregno”, l’organo maschile.

sabato 18 agosto 2012

Pulcelloni





Riproponiamo un nostro vecchio intervento sul significato e l'origine di un vocabolo relegato nella soffitta della lingua: pulcelloni. Il termine ci è stato richiesto da un gentile blogghista che non desidera 'comparire'.

È un vero peccato che i vocabolari abbiano relegato nella soffitta della lingua il termine “pulcelloni”, uno degli avverbi in “-oni” che la storia della lingua ha condannato come desueti. I sopravvissuti sono “bocconi”, “carponi”, “tentoni”, “cavalcioni”, “ginocchioni”, “penzoloni” e pochissimi altri adoperati, però, in modo errato facendoli precedere dalla preposizione “a”: a cavalcioni. Gli avverbi, sarà utile ricordarlo, non hanno alcun bisogno di essere “sorretti” dalle preposizioni; nessuno dice, infatti, “a lentamente”. Perché, dunque, dobbiamo sentire una bestemmia linguistica come “a tentoni”, “a cavalcioni” e via dicendo? Ma non divaghiamo e torniamo a pulcelloni, che anticamente si riferiva all’amaro tempo (oggi, fortunatamente, non è piú cosí) del nubilato: quella donna ha vissuto tutta la vita pulcelloni, vale a dire senza marito. È veramente un peccato che la lingua “moderna” abbia messo in soffitta alcuni avverbi in “-oni” considerandoli superati dal tempo e abbia privilegiato i termini stranieri che, a nostro avviso, inquinano in modo considerevole il nostro idioma. Si dirà: la lingua, come tutte le cose, invecchia e occorre dare spazio a vocaboli “nuovi”. Giustissimo, ben vengano i nuovi termini, purché siano italiani, non barbari. Che bisogno c’è, infatti, di dire che quella donna vive “single” quando avevamo un avverbio o, se preferite, un vocabolo “tutto italiano” che rendeva perfettamente l’idea della donna non sposata, “pulcelloni”, appunto? Ma tant’è. Arrendiamoci pure al “progresso linguistico” ma condanniamo il barbarismo dilagante. È assurdo il dover constatare il fatto che molti giovani di oggi (ma non solo essi) conoscano perfettamente la lingua di Albione e restino “atterriti” davanti a parole (italianissime) come “sdraioni”, “gironi”, “brancoloni”, “sdondoloni”, tutti avverbi - come il citato pulcelloni - che un tempo esprimevano magnificamente il concetto ritenuto “sorpassato” dai compilatori dei vocabolari, che privilegiano - lo ripetiamo - il linguaggio barbaro alla madre lingua. Non crediamo di bestemmiare se sosteniamo che anche essi - per la parte che loro compete - sono responsabili dell’impoverimento della nostra lingua. E a proposito di pulcelloni - che etimologicamente viene da “pulcella” (fanciulla) - sentite quanto scrive il trecentista Donato Velluti (“Cronica domestica”): “...Le dette Cilia e Gherardina non si maritarono; stettono un gran tempo pulcelloni, con isperanza di marito...”. Oggi “vivere pulcelloni”, che significa anche “non avere alcun rapporto matrimoniale”, sembra non avere piú importanza, ma quando l’avverbio “nacque” ne aveva (e come!) tanto che fu coniata anche un’altra parola (riferita sia agli uomini sia alle donne) per indicare le persone non sposate: pinzochero (con il femminile pinzochera) termine fortunatamente non ripudiato dai vocabolari. L’etimologia della parola è incerta: forse da “bizzoco”, membro d’una setta che seguiva la regola di S. Francesco, ma vivendo da eremita. Per estensione, quindi, il termine passò a indicare tutte le persone che non erano sposate in quanto “spiritualmente” vivevano da eremita.

http://www.etimo.it/?term=pinzochero&find=Cerca

venerdì 17 agosto 2012

C'è allénare e allènare










Forse pochi sanno che il verbo 'allenare', che significa 'preparare', 'addestrare' e simili, cambia di significato a seconda della pronuncia della 'e', che può essere chiusa o aperta. Con la e aperta (è) acquista l'accezione contraria. Abbiamo 'alléno' e 'allèno', dunque. È uno dei tanti termini cosiddetti unidivergenti. I suddetti verbi, comunque, non sono parenti perché hanno origini diverse. Ma diamo la "parola" a Ottorino Pianigiani e al Dop, Dizionario di Ortografia e di Pronunzia. Si clicchi sui collegamenti in calce.

http://www.etimo.it/?term=allenare&find=Cerca

http://www.dizionario.rai.it/poplemma.aspx?lid=84868&r=12721

http://www.dizionario.rai.it/poplemma.aspx?lid=84869&r=12721

giovedì 16 agosto 2012

Qualche curiosità linguistica (2)





Ancora qualche curiosità linguistica. Vi sembrerà inverosimile, gentili amici blogghisti, apprendere da queste modeste noterelle che molti uomini soffrono di “disturbi uterini”. Sí, avete letto bene: disturbi uterini. Ne sono affetti tutti coloro che soffrono di isterismo, che, in senso proprio, è una “turba provocata da disturbi dell’utero”, dal greco ‘hystèra’ (‘utero’). Ippocrate, il padre della medicina, riteneva, infatti, che questa malattia, di tipo nevrotico, provenisse dall’utero che, se infiammato, poteva spostarsi per tutto il corpo e giungere all’altezza della gola provocando, in tal modo, un repentino senso di soffocamento con esagitate reazioni motorie. Il termine, quindi, con il trascorrere del tempo è entrato nel linguaggio scientifico con il significato a tutti noto.
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Sapete da dove trae origine l’aggettivo “macabro”, tanto caro agli appassionati dei film dell’orrore? Si fanno tre ipotesi. La prima si rifà al francese ‘macabre’, tratto dalla locuzione ‘danse macabre’, “danza della morte”; la seconda, forse piú veritiera, sempre al francese ‘macabre’, ma con tanto di accento sulla ‘e’ (macabré), variante di ‘macabé’, vale a dire “dei Maccabei”, i sette fratelli Maccabei di cui parla l’Antico Testamento. La terza, infine, chiama in causa l’arabo ‘magaber’ (‘cimitero’). Come vedete c’è solo l’imbarazzo della scelta…

http://www.etimo.it/?cmd=id&id=10140&md=897a0f09ccdd8173d6a521e07d203f18

mercoledì 15 agosto 2012




A tutte le amiche e a tutti gli amici blogghisti




http://it.wikipedia.org/wiki/Ferragosto

martedì 14 agosto 2012

Qualche curiosità linguistica








Cominciamo con la stanza, nella quale vi trovate in questo momento mentre, davanti al computiere, state leggendo le nostre modeste noterelle. La stanza, dunque, che genericamente è il locale di un’abitazione delimitato dalle pareti, dal soffitto e dal pavimento, si rifà al latino (sempre questo!) stantia(m), tratto da ‘stans, stantis’, participio di “stare” (star fermo in un luogo, dimorare); la stanza, quindi, è il luogo in cui si dimora abitualmente. Anche il soffitto è di provenienza latina, esattamente il latino volgare suffictu(m), participio passato di “suffigere” (coprire di sotto), composto con ‘sub’ (sotto) e ‘figere’ (appuntare, fissare, quindi… ‘coprire’). La finestra, vale a dire l’apertura praticata nel muro esterno di uno stabile per dare aria e luce all’interno (e anche per affacciarsi), sembra provenga da un’antica radice bha(n) (splendere, illumino) che, mutata la ‘B’ in ‘F’, abbia originato il verbo greco phàino (illumino) e questo il latino fenestra(m). La finestra, per tanto, si potrebbe definire “un buco che illumina”. Dalla finestra passiamo al balcone, il cui significato «scoperto» è noto a tutti: grande finestra-porta, con uno sporto (sporgenza) delimitato da una balaustra, o ringhiera, o ingraticciata. E il significato «nascosto»? Questo ci è stato regalato dai Longobardi. È tratto, infatti, dalla voce teutonica Balk (trave). Il balcone non è un insieme di travi che possono o no sporgere dalla casa e da cui si può ammirare il panorama? Di significato non nascosto è, invece, il suo sinonimo: terrazzo o terrazza. Entrambi i termini si rifanno alla… terra, sono tratti, infatti, dall’ aggettivo latino terraceus (fatto di terra). In origine il terrazzo era, e in alcuni casi lo è ancora, un rialzo di… terra, sostenuto da murature, atto alle passeggiate e alla contemplazione. Per estensione è passato a indicare una parte della casa, scoperta o aperta da una o piú parti.


http://www.dizionario.rai.it/poplemma.aspx?lid=73458&r=32908

lunedì 13 agosto 2012

Inoltrare? Meglio "inoltrarsi"







Checché ne dicano i vocabolari, lasciamo il verbo ‘inoltrare’ al solo linguaggio burocratico: la pratica è stata inoltrata all’ufficio competente. Noi, che amiamo il bel parlare e il bello scrivere, useremo il verbo suddetto, correttamente, solo nella forma intransitiva pronominale: inoltrarsi: ieri mi sono inoltrato nel bosco. Inoltrarsi cosa significa, infatti, se non ‘proseguire verso l’interno’, ‘andare oltre’? Per quanto attiene al linguaggio burocratico, si potrebbe ovviare all’ “errore” sostituendo ‘inoltrare’ con altri verbi che fanno alla bisogna: inviare, spedire, sottoporre, trasmettere, presentare ecc. Ma tant’è.

http://www.etimo.it/?term=inoltrare&find=Cerca

domenica 12 agosto 2012

Soffiare il naso alle galline





Ecco un modo di dire, cortesi amici, veramente sconosciuto ai piú e soprattutto a coloro che, senza saperlo, lo “mettono in pratica” con il loro atteggiamento. La locuzione si adopera, infatti, allorché si vuole mettere in evidenza il fatto che una persona si ostina a cimentarsi in un’impresa impossibile o si comporta in modo ridicolo, ma soprattutto si dice di persone che si danno molto da fare senza concludere nulla o si atteggiano a “geni” capaci di fare qualunque cosa. Se ripercorrete a ritroso la vostra vita vi accorgerete di aver conosciuto moltissimi “soffiatori di naso”. L’origine dell’espressione non è molto chiara: sembra sia un semplice scherzo partorito dal mondo contadino che sa trovare modi di dire pregni di sagacia. L’espressione è ben “visibile” nel Cecchi che tratta di un parassito che deride un oste esprimendosi con queste parole: «Vuol dare di becco, e commentar la legge, e parere il Tantusso, e quel che soffia il naso alle galline, e fare il dotto». La stessa locuzione possiamo trovarla nell’arte poetica del Sacchetti il quale, apostrofando un tale che voleva a tutti i costi darsi arie di letterato, dice: «E tu con lo stampar quattro dozzine di sonettucci, credi immortalarti? Eh va’ a soffiar il naso alle galline».

sabato 11 agosto 2012

«Serata danzante»






Nel periodo carnevalesco, ma non solo, si leggono spesso avvisi pubblicitari con le scritte «veglia danzante»; «tè danzante»; “serata danzante” e simili. Queste frasi ci fanno sorridere, per non dire piangere, perché mettono alla berlina il nostro “idioma gentil sonante e puro” per dirla con l’Alfieri. Perché? Vi chiederete. È presto detto. “Danzante” è il participio presente del verbo danzare e vale colui o colei “che danza”. Avete mai visto una veglia o un tè che danzano? Le suddette espressioni sono state tradotte pari pari dal francese, non sono proprie della nostra lingua. Chi ama il bel parlare e il bello scrivere le deve, quindi, aborrire. Ci sono espressioni schiettamente italiane che fanno alla bisogna: “tè con ballo”; “veglia con danza”; “serata di ballo” e simili.

venerdì 10 agosto 2012

«Altoriare»? Aiutare






Tra le parole che ci piacerebbe fossero “rispolverate” e rimesse a lemma, quindi, nei vocabolari, segnaliamo il verbo altoriare, aiutare, porgere aiuto. Diamo la "parola", in proposito, a Niccolò Tommaseo:

http://www.dizionario.org/d/index.php?pageurl=altoriare&searchfor=altoriare&searching=true

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Fare la natta

Quante volte, amici blogghisti, avete “natteggiato” qualcuno? Tranquilli, non stiamo delirando, vogliamo solo domandarvi se avete mai burlato o offeso qualcuno. Questo è, infatti, il senso del modo di dire. La locuzione, di origine proverbiale, è adoperata con significato traslato. Natta, in medicina, indica un’escrescenza o tumore cistico. Colui che fa la natta, in senso figurato, lascia un segno ben visibile – quasi fosse un’escrescenza – sul viso dell’altro a testimonianza della burla o dell’offesa.

giovedì 9 agosto 2012

L' «apedeuto»




Cortese dott. Raso,
il caso ha voluto che mi imbattessi nel suo sito, che definire stupendo e istruttivo è riduttivo. L’ho messo subito in cima ai preferiti perché non mi deve “scappare”. Ho visto che gli si possono sottoporre quesiti linguistici ai quali risponde con competenza e non comune signorilità. Ne approfitto anch’io, quindi. Tempo fa, non ricordo come, dove e quando, mi è capitato di leggere un vocabolo veramente “oscuro” e non trovato nei dizionari in mio possesso: APEDEUTO. Le sarei veramente grato se potesse spiegarmi il significato del termine.
Grazie in anticipo della sua (spero) preziosa risposta.
Pierfranco T.
Fermo
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Gentile Pierfranco, sono io a ringraziarla per le sue belle parole. Il termine in questione è desueto, per questo motivo non è attestato nei vocabolari, e significa ignorante, illetterato, privo di istruzione. È di provenienza classica essendo composto con le voci greche “alfa privativa” e il verbo “paideyo” (istruire), alla lettera: senza istruzione. Veda anche questo collegamento:


http://books.google.it/books?id=uRcAAAAAQAAJ&pg=PA293&lpg=PA293&dq=%22apedeuto%22&source=bl&ots=tmUyy9Cb-F&sig=A9LXUeq6GibLWxF5H06K0q0t_Ac&hl=it&sa=X&ei=O-YiUI3ONqj24QTC4YCYDg&ved=0CDYQ6AEwAA