lunedì 23 giugno 2025

Ministero della Lingua Italiana – Sezione Interventi Straordinari sul Verbo

 

Correva l’anno, mettiamo, 1953. In un ministero vagamente polveroso, tra classificatori verdi e posacenere di vetro pesanti, il ragionier Guerrieri stava “esaminando con la dovuta cura” una circolare. Nulla di eccezionale: un giusto equilibrio tra dovere e grammatica. Poi, come un refuso destinato a diventare norma, ecco insinuarsi un verbo nuovo, con l’aria di chi bussa alla porta ma ha già il cappello in mano per restare: attenzionare.

All’inizio nessuno lo prese sul serio. Era uno di quei termini che, in ufficio, si usavano per scherzo, tra colleghi: “Capo, la pratica è stata debitamente attenzionata!” e risate soffocate tra le sigarette. Ma si sa, l’ironia ha vita breve negli uffici. L’anno successivo attenzionare finì scritto in bella copia in un protocollo, poi in un verbale, infine su una targa dorata fuori dalla sala riunioni.

Nel frattempo, i poveri sintagmi verbali “considerare”, “valutare”, “esaminare” e simili cominciarono a sentirsi messi da parte. Troppo sobri, troppo modesti. Attenzionare invece brillava di una luce nuova: era un verbo allineato con l’efficienza, con l’impegno, con il lessico della serietà apparente. Se ne innamorarono gli enti pubblici, le commissioni d’inchiesta, i comitati di vigilanza e perfino alcuni parroci particolarmente aggiornati.

Ma a ben vedere, che cosa vuol dire attenzionare? Nulla che non si potesse dire meglio con due verbi già in servizio permanente effettivo. È come chiamare “soluzione idrica a temperatura elevata” una tazza di tè.

Negli anni successivi, attenzionare entrò nei registri scolastici (“alunno da attenzionare per eccesso di creatività”), poi nelle lettere ai genitori, e infine nella burocrazia affettiva: “La mia attenzione ti attenziona da giorni.” Un destino tragico.

Eppure, non tutto è perduto. Ogni parola ha la sua epoca, ma anche l’occasione per ritirarsi con grazia. Forse un giorno, tornando a “notare” a “considerare” e ad altri verbi che fanno alla bisogna, riscopriremo il piacere di dire le cose con sobrietà. E quel giorno, qualcuno sorriderà nel sentire attenzionare, come si sorride di una vecchia canzonetta pubblicitaria: con affetto, ma senza nostalgia.




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Una parola in corsia preferenziale


F
acciamo finta che sia il 1998. Un funzionario ministeriale, cravatta a righe e sguardo intento, sta redigendo un comunicato. Deve dire che la relazione è stato espressa, diffusa, comunicata, divulgata. Ma “dire” pare troppo nudo, “comunicare” troppo diretto, “trasmettere” suona un po’ da vecchie frequenze radio. Serve un sintagma verbale che scivoli via con solennità, come una berlina scura su un tratto autostradale. Entra così in scena lui: veicolare.

All’inizio pare un tecnicismo, più adatto a un’officina che a un discorso pubblico. Ciononostante conquista in fretta i salotti buoni della lingua istituzionale. Le aziende “veicolano valori”, i marchi “veicolano emozioni”, i dirigenti “veicolano visioni strategiche”. Nessuno osa più dire, semplicemente, “esprimere” e simili.

In pochissimi anni veicolare si emancipa dal traffico stradale per farsi verbo delle relazioni umane, della formazione, della persuasione. Il docente non spiega più: veicola contenuti. Il pubblicitario non racconta: veicola messaggi. Il ‘partner’ non ama: veicola affetto sincero.

Eppure, nonostante la sua patina autorevole, veicolare resta un po’ goffo. È il verbo di chi vuole impressionare ma inciampa nei calzini a rombi. Come attenzionare, ha preso la corsia di sorpasso del prestigio linguistico, lasciando indietro verbi sobri e duttili come “dire”, “trasmettere”, “esprimere”, “mostrare”.

Un giorno forse anche veicolare tornerà nel suo garage semantico, sorpassato da qualche nuovo verbo brillante e aerodinamico: declinarevalorizzare? Chissà. Intanto, lasciamolo girare ancora un po’, con la sua ventiquattrore piena di metafore e la radio sintonizzata sull’apparenza.










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La lingua “biforcuta” della stampa

Si trova ad Avigliano il coltello più grande del mondo

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Sì, ci ripetiamo: quanto è grande il mondo? La risposta agli operatori dell’informazione.



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