venerdì 30 settembre 2022

Che mancia!


«M
ancia favolosa a chi ritrova portafogli contenente importanti documenti, smarrito in piazza Roma alle ore 15.30 circa del giorno 3 luglio 2022». Questo tipo di annuncio che leggiamo molto spesso sui quotidiani contiene una parola che usiamo tutti, con la massima indifferenza, senza conoscere, però, il significato intrinseco: mancia.

Quando andiamo al bar, infatti, lasciamo la mancia al banchista; durante le festività natalizie e pasquali diamo la mancia al custode dello stabile; quando ci recapitano un pacco o un telegramma diamo la mancia al fattorino e così via. Insomma, conviviamo con la mancia senza rendercene conto.
Che cosa è, dunque, questa mancia? Da un sondaggio casereccio effettuato presso parenti e amici ci risulta che una persona su dieci conosce l'esatta origine dei termini che adopera quotidianamente. Vediamo, quindi, come è nata la mancia nell'accezione odierna, vale a dire nel significato di dono, ricompensa.
Per far ciò occorre tornare indietro nel tempo e fermarsi al Medio Evo. È proprio in quel periodo storico che nasce la mancia. È necessario, però, prendere il discorso un po' alla lontana. Forse non tutti sanno che le maniche dei vestiti – nel Medio Evo e fino a tutto il Settecento – avevano un'importanza fondamentale nell'abbigliamento femminile; molto spesso (le maniche) non avevano nulla che fare con la stoffa dell'abito, erano un particolare indipendente dal resto dell'abbigliamento; avevano una funzione esclusivamente decorativa: un abito poteva ornarsi ora di un tipo di maniche, ora di un altro.
Questo particolare abbigliamento aveva assunto tanta importanza, per quel tempo, che dal lusso delle maniche si poteva distinguere il rango di appartenenza delle dame che assistevano ai tornei cavallereschi.
In Francia (da sempre all'avanguardia in fatto di moda) le damigelle, che dalla tribuna assistevano agli scontri cavallereschi, erano solite regalare al proprio cavaliere le maniche del vestito come augurio di vittoria e pegno d'amore; il cavaliere se le legava sulla corazza, intorno alle spalle.
Queste maniche erano chiamate 'manches honorables' (maniche d'onore).
Il termine, come accade sempre in fatto di lingua, fu esportato ben presto nel nostro Paese acquisendo l'accezione generica di dono, ricompensa, regalia e simili, e fu italianizzato in mancia.

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La lingua "biforcuta" della stampa

GLI ARTISTI

La visita a sopresa di Fedez e Lauro all'ospedale oncologico pediatrico: il karaoke con i bambini sulle note della loro hit

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IL CASO

Schilirò: “Sono stata licenziata dalla Polizia per aver per aver esercitato un diritto costituzionale”

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Ancora una volta mettiamo in evidenza il fatto, deprecabile, che i titolisti dei giornali non rileggono sempre ciò che scrivono. A volte (spesso?) però, anche se rileggono...



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mercoledì 28 settembre 2022

Malevolo e benevolo


N
avigando in Internet abbiamo scoperto che buona parte delle persone di cultura ritengono che si dica malevole e non, correttamente, malevolo.

Credono, insomma, che l'aggettivo in oggetto appartenga alla seconda classe, come facile, per esempio e abbia, quindi, un'unica desinenza, tanto per il maschile quanto per il femminile (-e, maschile e femminile singolare; -i, maschile e femminile plurale).

No, la forma corretta è malevolo perché viene dall'aggettivo latino malévolus, della seconda declinazione, e la desinenza -us latina si tramuta normalmente nella terminazione -o del maschile italiano. È, quindi, un aggettivo della prima classe, come buono, le cui desinenze sono -o e -i per il maschile singolare e plurale, -a e -e per il femminile singolare e plurale.

Diremo, quindi, uno scritto malevolo, con il plurale malevoli e una critica malevola con il plurale malevole. Identico discorso per benevolo.


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La lingua "biforcuta" della stampa

DOPO L'EMERGENZA

Covid, dall’1 ottobre via le mascherine: ci siamo lasciati definitivamente alle spalle la pandemia?

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Correttamente: dal 1 ottobre. Il perché lo spiega la Crusca: Le indicazioni comprendenti anche mese e giorno sono introdotte modernamente da un articolo maschile singolare: «il 20 settembre 1870»". Per estensione, si può aggiungere che, nel caso di una data come 11/10/1989, l'articolo che vi si anteporrà sarà l' (seguendo la pronuncia della data: l'undiciottobre millenovecentoottantanove); stessa regola vale per le date che iniziano con 1: anche per queste, si considera il modo in cui tali date vengono pronunciate e quindi si scriverà il 1/2/2003 (cioè il primo febbraio duemilatré). Infatti, come specifica Serianni, "Per i giorni del mese si usa l'ordinale per il giorno iniziale [...], ma il cardinale per i giorni successivi, siano o non siano accompagnati dal giorno del mese [...]."

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Elezioni Lazio, ecco i perdenti, con qualche sorpresa: sconfitti Cirinnà e Bonino

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Se non cadiamo in errore, Cirinnà e Bonino sono due... donne, quindi, correttamente: sconfitte.




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domenica 25 settembre 2022

La lasagna o le lasagne?

 


A questo interessante quesito risponde l'Accademia della Crusca.


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La lingua "biforcuta" della stampa

La sovrapposizione fra sfida sovranista-populista alle istituzioni repubblicane ed evidenti ingerenze russe rende uniche queste elezioni

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I soggetti sono due (la sovrapposizione e le ingerenze) il verbo, quindi, va pluralizzato. Correttamente: rendono. Abbiamo segnalato la "svista" ai titolisti del giornale in rete, ma siamo stati presuntuosamente (?) ignorati.


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MALTEMPO

Fulmine si abbatte su una casa nel frusinate: tre feriti

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Correttamente: Frusinate (con iniziale maiuscola trattandosi di un'area geografica).



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giovedì 22 settembre 2022

Puntualizzazioni linguistiche (3)

 


Due parole, due, sull'avverbio "invece", che si può scrivere in grafia analitica  (in vece) e in grafia univerbata (invece), naturalmente non a caso. In  grafia scissa quando l'avverbio in questione assume il significato di "in luogo di", "al posto di": alla cerimonia era presente l'assessore alla cultura in vece (al posto) del sindaco. In grafia univerbata se l'avverbio ha il significato di "al contrario", "all'opposto" e simili: sembrava un galantuomo, invece si è rivelato un mascalzone. Nell'uso corrente è spesso rafforzato dalle congiunzioni "ma" o "mentre": ha detto di essere uscito, mentre invece è rimasto tutto il giorno chiuso in casa. È un uso prettamente familiare che - in buona lingua italiana - è meglio evitare.

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Il verbo apparire significa, propriamente, “manifestarsi”. Si sconsiglia, per tanto, il suo uso nell’accezione di pubblicare: l’articolo apparso sulla prima pagina del giornale. Si dirà, correttamente, l’articolo pubblicato. Un articolo, infatti, non appare (non si manifesta), si pubblica.

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Nonostante le raccomandazioni della prestigiosa Accademia della Crusca, i grandi “dicitori” radiotelevisivi e i grandi “scrittori” della carta stampata continuano, imperterriti, a bombardarci di strafalcioni linguistici tipo la ministro, la sindaco. Noi non ci stancheremo mai di condannarli. Le sole forme corrette sono la ministra, la sindaca. Vediamo, dunque, come si forma il femminile ortodosso.
Le parole terminanti in -o, -aio/-ario mutano in -a, -aia/-aria: architetta, avvocata, chirurga, commissaria, ministra, prefetta, primaria, sindaca.
Le parole terminanti in -sore mutano in -sora: assessora, difensora, evasora, revisora.
Le parole terminanti in -iere mutano in -iera: consigliera, portiera, infermiera.
Le parole terminanti in -tore mutano in -trice: ambasciatrice, amministratrice, direttrice, ispettrice, redattrice, senatrice.
I sostantivi terminanti in -e/-a non mutano, ma richiedono l’anteposizione dell’articolo femminile: la custode, la giudice, la parlamentare, la presidente, la ciclista.
Come sopra per i composti con il prefisso capo: la capofamiglia, la caposervizio
Le forme in -essa vengono conservate solo per quelle cristallizzate da tempo: dottoressaprofessoressa.  Non diremo, quindi, la “presidentessa”, l’ “avvocatessa” e simili. Per quanto attiene ai sostantivi maschili  in “-e” diventano femminili  cambiando solo l’articolo: il giudice / la giudice. 
Quelli in “-o” prenderanno la desinenza “-a” del femminile: il deputato / la deputata, il ministro / la ministra, il soldato / la soldata.

martedì 20 settembre 2022

Puntualizzazioni linguistiche (2)


È
bene ricordare che non esiste il suffisso “-simo” per indicare gli aggettivi numerali ordinali dal decimo in poi. Qualche giorno fa, un tg ha mandato in onda un “serpentone” con la scritta “67simo”. Il suffisso corretto è “-esimo”: 67esimo; 85esimo ecc. Meglio, però, far seguire le cifre dal punto: 45.esimo. Riportiamo dal “Treccani”: « -èṡimo [dal lat. -esĭmus di centesĭmus, ecc.]. – Suffisso dei numerali ordinali: undicesimo, dodicesimo, ventesimo, ecc. (a eccezione dei primi numeri, da 1 a 10). In matematica, può essere aggiunto sia a un numero sia a una lettera o a un’espressione: 0-esimo (zeresimo, di posto zero), n-esimo (ennesimo, di posto n), i-esimo (iesimo), (n2 + 1)-esimo (ennequadratopiuunesimo), ecc.; anche scritto 0-mo, n-mo, i-mo, ecc.».

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Forse non tutti sanno che "tranquillare" sarebbe da preferire al piú comune "tranquillizzare". È, infatti, pari pari il latino “tranquillare”. Tranquillizzare ricalca il francese ‘tranquilliser’. Il "tranquillante" che cosa è se non il participio presente sostantivato di tranquillare? Qualcuno dice: "dammi un tranquillizzante"?

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L’avverbio “daccanto”, che significa ‘presso’, ‘a fianco’, ‘vicino’, ‘accanto’ (camminavano l’uno daccanto all’altro) è diverso dal fratello "da canto" che vale "mettere in disparte", "da parte", " in serbo": Giovanni ha messo da canto tutti i suoi risparmi. C’è anche la forma apostrofata, “d’accanto”, che equivale a ‘di torno’: toglimi d’accanto questo turpe individuo. Si presti attenzione, dunque, a non confondere le diverse grafie e le diverse accezioni. I vocabolari che abbiamo consultato non fanno queste distinzioni.

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Due parole, due, sull’avverbio “eccetera” (dal latino ‘et cetera’) vale a dire “e le altre cose”, “e il resto”, “il rimanente”. Si adopera - nello scritto e nel parlato - per omettere cose facilmente comprensibili o simili. Si usa, insomma, per sottintendere o per evitare tutto ciò che segue di una enumerazione, di una citazione di cui siano già stati espressi i vari elementi: l’articolo, l’aggettivo, il sostantivo eccetera sono parti del discorso. Nello scritto si abbrevia in “ecc.” (si può trovare anche abbreviato alla francese in “etc.”, ma in buona lingua è assolutamente da evitare) e non si fa precedere e seguire dalla virgola. Si può anche adoperare - forse pochi lo sanno - come sostantivo maschile invariabile: avresti potuto evitare tutte queste ripetizioni con alcuni eccetera.



domenica 18 settembre 2022

Puntualizzazioni linguistiche


 Una piccola notazione sull’uso corretto degli aggettivi numerali “frazionari”. È necessario tenere  presente, dunque, che nella numerazione decimale la parte frazionaria deve essere divisa dall’intero da una virgola: è alto m 1,75 (i metri, i centimetri, i chilometri ecc. non debbono assolutamente essere seguiti dal punto). Nei sistemi non decimali – come nel caso delle ore – la virgola deve essere sostituita dal punto o, meglio ancora, dai due punti: sono le 10.45 (o 10:45); si tratta, infatti, di 45 sessantesimi e non di 45 centesimi. È errore madornale, quindi, dividere le ore dai minuti mediante una virgola. Ma siamo sicuri che la nostra  modesta “predica” sarà, come sempre, rivolta al vento. Continueremo a leggere o, meglio, a “vedere” sulla stampa le ore scritte in modo errato: la conferenza stampa di fine d’anno si terrà alle 17,30. Ma tant’è. 

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«Vi racconto, in breve, l'accaduto». Di primo acchito la frase (e quelle simili) sembra perfetta. Ma a un attento esame presenta un'improprietà che in buona lingua è da evitare. Quale? La locuzione "in breve" adoperata nelle accezioni di "insomma", "infine", "concludendo", "per farla breve", "in una parola" e simili. La predetta locuzione, insomma, in buona lingua italiana, non ha una "valenza" conclusiva ma sta per "brevemente", "presto", "in breve tempo", "in breve spazio" e simili. Diremo (e scriveremo) correttamente, quindi: «Vi racconto, brevemente (non in breve), l'accaduto». Saremo sbugiardati da qualche linguista "d'assalto" se, per caso, si imbattesse in questo sito?

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Tutti ricorderanno la canzoncina scolastica: su qui e su qua l’accento non va, su lí e su là l’accento ci va. Pochi, crediamo, ricorderanno la ragione. Permetteteci, quindi, di rinfrescare loro la memoria, anche perché ci capita, molto spesso, di leggere sulla stampa frasi che contengono gli avverbi di luogo “qui” e “qua” con tanto di accento, ovviamente errato. L’allarme lanciato – tempo fa – dall’Accademia della Crusca circa gli strafalcioni giornalistici – a quanto sembra – non ha sortito alcun effetto. Possiamo dire, presuntuosamente, di non avere mai avuto dubbi in proposito. Ma veniamo al “dunque”. Una regola grammaticale stabilisce che i monosillabi – composti con una vocale e una consonante – non vanno mai accentati, salvo nei casi in cui si può creare confusione con altri monosillabi uguali ma di significato diverso (le cosí dette parole omografe e omofone, potremmo quasi dire), come nel caso, appunto, degli avverbi di luogo «lí» e «là» che, se non accentati, potrebbero confondersi con “li” e “la” (articoli e pronomi). Un’altra norma grammaticale stabilisce, invece, l’obbligatorietà dell’accento quando nel monosillabo sono presenti due vocali, di cui la seconda tonica: piú, giú, già ecc. Dovremmo scrivere, quindi, «quí» e «quà»  (con tanto di accento). Occorre osservare, però, che la vocale “u” quando è preceduta dalla consonante “q” fa da ‘serva’ a quest’ultima; in altre parole la “u” non è piú considerata vocale ma parte integrante della consonante “q”. Avremo, per tanto, qui e qua senza accento perché – per la legge sopra citata – i monosillabi composti di una consonante e di una vocale rifiutano l’accento scritto: no, me, lo, te, qui, qua. E a proposito di accento, non si possono tacciare di ignoranza linguistico-grammaticale coloro che accentano l’avverbio «sú» per distinguerlo dalla omonima preposizione. Solo, però, se lo fanno consapevolmente…

martedì 13 settembre 2022

Sgroi - 137 - "EBBENE" (conclusivo e avversativo) tra Serianni - DellaValle - Patota e il MIUR



di Salvatore Claudio Sgroi

 

1. Evento pubblico

Com'è noto, una delle prove del concorso ordinario per docenti (classe A022), tenutosi nel mese di marzo 2022, prevedeva una domanda (a risposta multipla) sulla funzione della cong. ebbene nella frase Gli avevo chiesto se poteva farmi un favore, ebbene ha rifiutato, se cioè fosse a) esplicativa, b) disgiuntiva, c) avversativa, d) conclusiva.

Per il MIUR la sola risposta corretta era "funzione conclusiva", ma per molti candidati la risposta corretta era invece quella "avversativa", la frase essendo parafrasabile: Gli avevo chiesto se poteva farmi un favore, ebbene [= MA] ha rifiutato e non già con Gli avevo chiesto se poteva farmi un favore, ebbene [= *dunque, *quindi, *pertanto] ha rifiutato.

 

1.1. La risposta dell'Accademia della Crusca al quesito

L'Accademia della Crusca è intervenuta sul problema nel "Tema del mese" del 5 luglio di Paolo D'Achille e Rita Librandi, diplomaticamente intitolato: "Domande e risposte ai concorsi per l’insegnamento: facciamo più attenzione".

Invero, una bella lezione per il ministero della P.I e i suoi esperti, che rivelavano gravi lacune di tecniche nella preparazione dei quesiti a scelta multipla, per accertare le competenze dei candidati nei concorsi nazionali, e in cui si dava ragione ai candidati che avevano interpretato nella frase in questione ebbene con funzione "avversativa" ('ma').

Da tener presente che il Sabatini-Coletti è l'unico dizionario che distingue la duplice valenza 1) conclusiva e 2) avversativa di ebbene, secondo i contesti, mentre in altri testi si ignora la valenza avversativa. Ovvero:

1) "avevo chiesto se poteva farmi un favore, ebbene [= 'ma', avvers.] ha rifiutato”.

Se la frase fosse stata: 2) "avevo chiesto se poteva farmi un favore, ebbene [= 'e allora', conclusione] ha accettato.

 

1.2. La risposta di altri esperti al quesito

Altri colleghi linguisti interpellati dai candidati interessati, come mi è stato comunicato in una e-mail (13 sett.) della prof. Mariangela Lanutti, hanno confermato la valenza avversativa in quella frase di ebbene 'ma' sia in giudizi personali che in perizie giurate.

Le perizie erano quelle di L. Serianni ("Sì, avete ragione: in quel contesto, ebbene ha valore avversativo"); -- V . Coletti, N. De Blasi, F. Avolio, M. Arcangeli, E. Banfi, G. Ruffino, V. Formentin.

 

1.3. La fonte dell'es. del MIUR

Nella stessa e-mail veniva altresì indicata la fonte dell'esempio del MIUR, ovvero la grammatica scolastica di L. Serianni - Valeria Della Valle - Giuseppe Patota, edita più volte con titoli ed editori diversi (tra cui "Il bello dell'italiano. Grammatica", Pearson 2015 p. 472). La grammatica propone un esercizio di 10 frasi in cui distinguere le locuzioni congiuntive e congiunzioni in "conclusive" ("C") ed "esplicative" ("E"), con la frase n. 3 "incriminata".

E si riporta la difesa del Miur, che cita appunto la grammatica scolastica di Serianni-Della Valle-Patota (ed. "Lingua comune" p. 400), per ribadire la propria interpretazione (decisamente tirata per i capelli) di "ebbene" come "conclusivo", sostenendo che "È come se si dicesse 'Gli ho chiesto un favore e alla fine ha rifiutato'", ovvero che "Cosa ben diversa ed errata è attribuire, in questa frase valore avversativo alla cong. 'ebbene'".

Bisogna ora riconoscere che nell'es. citato nell'esercizio della gramm. scolastica di Serianni-Della Valle-Patota la frase n. 3 da interpretare come "conclusiva" o anche come "esplicativa" è semplicemente errata. Ci si augura quindi che in una ried. del testo venga eliminata.

Lo stesso Serianni attenzionando, a distanza di anni, l'es. in questione non ha potuto peraltro non riconoscerne il valore avversativo, come su ricordato.











 

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sabato 10 settembre 2022

Sul complemento di specificazione


 La maggior parte (tutti?) dei testi grammaticali liquida/liquidano l’argomento scrivendo: «Il complemento di specificazione serve a specificare il significato di un nome generico (l’amico ‘di Carlo’) e risponde alla domanda sottintesa ‘di chi?, ‘di che cosa’?», oppure: «È un sostantivo o un nome preceduto dalla preposizione ‘di’, che specifica o chiarisce il nome precedente». A nostro modo di vedere l’argomento andrebbe affrontato diversamente chiarendo, inoltre, che il complemento di specificazione non è “unico”; ci sono almeno tre tipi: a) il complemento di specificazione propriamente detto (“specificazione epesegetica”); b) il complemento di specificazione attributiva; c) il complemento di specificazione possessiva. Questi tre tipi vengono, come dicevamo, snobbati dai testi grammaticali. Vediamo di chiarire meglio. Il tipo “a” si ha quando il complemento dichiara il senso particolare del sostantivo o nome cui è riferito: il libro ‘di geografia’ è introvabile; il tipo “b” quando il sostantivo si può trasformare in un attributo: le acque ‘dei fiumi’ (fluviali) sono inquinate; il tipo “c”, infine, si ha quando il complemento indica la persona o la cosa che possiede o a cui appartiene quanto espresso dal termine reggente: il vestito ‘di Marianna’ è veramente costoso. Per concludere: il complemento di specificazione è retto da un sostantivo; con un verbo o un aggettivo si hanno, infatti, altri complementi, anch’essi introdotti dalla preposizione “di” (piangere ‘di’ gioia, complemento di causa; ombroso ‘di’ carattere, complemento di limitazione).

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La lingua "biforcuta" della stampa

LA VICENDA

Punito per una “soffiata”: un 16enne è stato aggredito nel napoletano da tre coetanei

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Correttamente: Napoletano (con iniziale maiuscola trattandosi di un'area geografica).

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Conte barricadero, Salvini europeista. Le metamorfosi posticce dei leader

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Correttamente: barricadiero.

Garzanti: barricadiero

[bar-ri-ca-diè-ro] agg. e n.m.

f. -a; pl.m. -i, f. -e
(non com.) rivoluzionario, estremista: atteggiamento barricadiero

Etimologia: ← dal fr. barricadier, deriv. di barricade ‘barricata’.



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venerdì 9 settembre 2022

La "nascita" della campagna elettorale


 Siamo in piena campagna elettorale in vista delle prossime elezioni politiche, riproponiamo, quindi, un nostro intervento del 3 novembre 2012 sulla "nascita" (linguistica) di tale espressione.


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La lingua "biforcuta" della stampa

Elezioni, Renzi: “Meloni o Draghi premier, la partita è questa”. La leader di FdI: “Con Draghi di fatto sistema semi  presidenzialista”. Conte: “Incomprensibile il no del governo al Superbonus”

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Correttamente: semipresidenzialista. I prefissi e i prefissoidi si "attaccano" alla parola che segue. Si veda qui.

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TOKYO

L'omaggio commosso dei giapponesi a Elisabetta II: inchini e fiori davanti l'ambasciata

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Correttamente: davanti all'ambasciata. Davanti si costruisce con la preposizione semplice o articolata "a".

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Vacanze estive, i consigli per un viaggio senza brutte soprese

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La regina e il baronetto Zola: "Mi disse che ero il calciatore italiano più forte e volai sull luna"

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Ancora una prova: gli addetti ai titoli dei giornali non rileggono ciò che scrivono.



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martedì 6 settembre 2022

Sgroi - 136 - Il mio sfortunato amico Luca Serianni, "grammatico clericale"

 


di Salvatore Claudio Sgroi

 La scomparsa, tragica e prematura, di Luca Serianni (30.X.1947- 21.VII.2022), amico pluriennale e collega coetaneo, ha lasciato quanti avevano con lui familiarità (parenti, amici, colleghi, allievi, studenti, lettori dei suoi testi) inebetiti e sconcertati.

Voglio qui ricordarlo riproponendo la mia rec. (apparsa su "La Sicilia" 10 sett. 1988 p. 3; poi in Bada come parli, SEI 1995, pp. 158-60) della prima edizione della sua, diventata poi un classico, Grammatica italiana (Torino, UTET 1988).

 

Alla fine il parlante ha sempre ragione

Immergersi nella lettura di un testo come la Grammatica italiana (oltre 700 pagine, in quarto) di Luca Serianni con la collaborazione di Alberto Castelvecchi (UTET, 1988), per di più durante una torrida estate, potrebbe apparire l’effetto di una pulsione masochistica o (come invito ad altri) sadica. Eppure la lettura di un testo di grammatica rimane un’avventura affascinante. Perché una grammatica è una proposta di ordinamento e sistematizzazione di una massa non indifferente di fatti linguistici. E in quanto tale, soddisfa in chi si sobbarca a tale fatica (nello scriverla o solo nel leggerla) bisogni profondi, se non di certezze, almeno di alcuni punti di riferimento. Una grammatica si presenta insomma come il tentativo di porre ordine in un caos apparente, di mettere a nudo i meccanismi di funzionamento di un idioma storico-naturale, svelandone la «logica» imprevedibile regolata dalle esigenze della comunicazione.

Una grammatica, come questa di Serianni (-Castelvecchi), descrive la competenza linguistica degli utenti della lingua nazionale. Ma una lingua come l’italiano, adoperato, se non da tutti gli italiani, comunque, da milioni di utenti, si presenta estremamente diversificata, pur nella sua fondamentale unitarietà. La nostra grammatica, prevalentemente sincronica, cioè descrittiva degli usi attuali, è così inevitabilmente selettiva, in quanto centrata sugli usi dell’«italiano comune» e della «lingua letteraria», come indicato nel sottotitolo. L’italiano letterario otto-novecentesco, nei suoi legami col passato, è privilegiato da Serianni (-Castelvecchi) come testimonia la presenza massiccia di esempi d’autore, accanto agli usi settoriali (linguaggio giornalistico, legislativo, scientifico, ecc.).

Non mancano qui peraltro, per quanto molto limitati, i riferimenti all’italiano parlato informale e agli italiani regionali. «Caratteristico dell’Italia meridionale – si legge per es. a p. 81 – è il complemento oggetto retto dalla preposizione a». Ma nessun cenno alla preposizione di col valore di «per», che introduce nell’uso siciliano le proposizioni limitative: «di mangiare, qualcosa l’ho mangiata». Il tipo di italiano qui analizzato è, in altri termini, l’italiano «scritto ma anche parlato dalle persone colte in circostanze non troppo informali» (p. VII). Rimane invece decisamente ai margini di questa grammatica l’italiano «popolare» dei semicolti. Una soglia, questa, di norma non superata dagli autori, che optano di solito per rinvii bibliografici istituzionali.

La descrizione fornita da questa grammatica riguarda i livelli classici dell’analisi di una lingua: pronuncia e grafia («fonologia e grafematica», circa 70 pagine), morfosintassi (nome, articolo, ecc., circa 350 pagine), sintassi della frase e del periodo (circa 100 pagine) e, come capitolo di transizione tra grammatica e lessico, la formazione delle parole (circa 30 pagine). Il volume si chiude con una originale appendice (circa 100 pagine) di testi commentati, di grande efficacia didattica, riguardanti la prosa letteraria, la lingua della poesia e la lingua non-letteraria;* e con due funzionalissimi indici degli autori citati e delle nozioni e forme rilevanti.

L’armamentario teorico messo in campo dagli autori è, come si può notare anche dalla selettiva ma ampia bibliografia, quello tradizionale, di matrice greco-latina. Il che garantisce la leggibilità dell’opera al «lettore colto ma non specialista» (p. VIII), cui il volume è espressamente destinato. La trattazione, pur nella sua sostanziale aderenza a moduli interpretativi tradizionali, non è priva in vari punti di eleganza e di originalità. Così, per esempio, nel trattamento dei pronomi allocutivi, là dove illustra il sistema trimembre (voi-lei-tu), oggi sostituito da quello bimembre (lei-tu) (pp. 224-27). La fedeltà alla tradizione non impedisce agli autori di tener conto anche dei risultati più moderni dell’analisi linguistica, pur se in maniera misurata. Così, del tutto nuovi rispetto all’approccio scolastico sono il cap. I sull’analisi fonologica e il cap. IX sulle «congiunzioni e i segnali discorsivi», o ancora i paragrafi sull’articolo determinativo e indeterminativo, ispirati ai principi della linguistica testuale.

Gli autori, oltre che descrivere i vari usi dell’italiano comune e letterario, non hanno voluto rinunciare al ruolo di grammatici «prescrittivi», fornendo indicazioni su usi scorretti o da non seguire. Si ritrovano così qua e là, in misura peraltro assai discreta, indicazioni quali «forme diffuse un po’ dovunque o specifiche di aree regionali ma comunque da evitare» (p. 52). Ma per noi, una grammatica vale non in quanto sentenzia su quello che gli utenti debbono o non debbono dire. In realtà, sono sempre i parlanti a decidere gli usi della lingua in base alle loro esigenze espressive e comunicative. Come dire che il parlante ha sempre ragione. Il grammatico può solo cercare di descrivere e spiegare con strumenti teorici sempre più raffinati, ma inevitabilmente parziali, gli usi infiniti e imprevedibili della lingua di una comunità.

La grammatica di Serianni (-Castelvecchi), la più ampia attualmente esistente sull’italiano, viene a colmare un ritardo di cinquanta anni rispetto ad altre tradizioni grammaticali, come quella francese che può vantare al riguardo Le bon usage di Maurice Grevisse. E ci auguriamo che, come questa, possa avere uguale fortuna di pubblico attraverso molteplici edizioni, sempre più aperte al potenziale comunicativo della lingua.

10 settembre 1988, p. 3

 

*[Nuova edizione col titolo Italiano, arricchita di un amplissimo «Glossario (e dubbi linguistici)» di G. Patota (e L. Serianni), Garzanti, settembre 1997, pp. X + 614; l’Appendice dei testi letterari è stata invece purtroppo eliminata, fin dalla II ed. della Utet].