lunedì 14 luglio 2025

Oltre le regole: il verbo come architetto del linguaggio

 

Nel variegato panorama delle teorie linguistiche la grammatica valenziale rappresenta uno strumento potente per illuminare le strutture profonde della frase. Non si tratta soltanto di stabilire “chi fa cosa”, ma di scoprire come il significato del verbo determina la forma dell’enunciato. È un approccio che ribalta la grammatica tradizionale: non si parte dalle parti del discorso, ma dal senso che il verbo porta con sé e dalla sua capacità di “attrarre” gli altri elementi necessari per costruire una “scena linguistica” coerente.

Questa visione è stata ideata dal linguista francese LucienTesnière (1893–1954), che ha introdotto il concetto di valenza ispirandosi alla chimica. La sua intuizione è semplice quanto geniale: il verbo possiede una forza attrattiva, proprio come un atomo, e costruisce intorno a sé la frase aggregando argomenti (soggetti, oggetti, destinatari…) e circostanti (complementi accessori come tempo, luogo, modo…).

La valenza di un verbo stabilisce, pertanto, il numero di “posti” che deve riempire per esprimere pienamente il suo significato. Questi posti sono occupati da elementi linguistici indispensabili, chiamati attanti (o argomenti). Alcuni esempi chiareranno meglio il concetto:

  • Piove: verbo zerovalente (nessun argomento);

    Il gatto dorme: verbo monovalente (richiede solo il soggetto);

    Marco legge un libro: verbo bivalente (soggetto + oggetto);

    Luca regala un libro a Giulia: verbo trivalente (soggetto + oggetto + destinatario);

    Anna traduce un testo dal russo all’italiano: verbo tetravalente (soggetto + oggetto + origine + destinazione).

Oltre agli argomenti, il sintagma verbale può essere accompagnato da circostanti, elementi opzionali che arricchiscono il messaggio (come il luogo, il tempo, il modo…), ma non sono necessari per completare la valenza verbale.

Questo modello aiuta a comprendere la costruzione della frase a partire dal significato del verbo. È utile sia in ambito didattico, in particolare per l’insegnamento dell’italiano come seconda lingua (L2), sia nella comprensione e produzione del testo, poiché favorisce una riflessione metalinguistica attiva e consapevole. In Italia, studiosi come Francesco Sabatini hanno proposto rappresentazioni grafiche efficaci del modello, come per esempio, i grafici radiali, dove il verbo è il centro e gli altri elementi disposti radialmente come i raggi di una ruota.

Per concludere, la grammatica valenziale non è solo uno schema tecnico: è una visione profonda della lingua che ci mostra come il verbo, agendo da ‘regista linguistico' (oltre che come 'architetto'), assegni i ruoli agli altri elementi della frase e costruisca una scena coerente e significativa. Ogni frase diventa, quindi, un piccolo teatro, e il verbo ne guida l’azione. Per chi studia, insegna o semplicemente ama le sfumature della nostra amata lingua italiana, questa grammatica rappresenta una chiave interpretativa elegante, funzionale e viva.

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Il verbo è il cuore della frase (questo detto sintetizza perfettamente il principio della grammatica valenziale: il verbo è il centro attorno al quale ruotano gli altri elementi).

Il verbo è il regista, gli argomenti sono gli attori (una metafora teatrale che rende la grammatica valenziale più accessibile e visiva per gli studenti).

Ogni verbo ha la sua chimica (ogni verbo ha una “capacità di legame” con altri elementi della frase).

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Una favola didattica in proposito

C'era una volta, in un regno lontano, Sintassia, un giovane verbo di nome Narrare. Non era un verbo qualsiasi: aveva tre poteri magici chiamati valenze. Con la prima (valenza) poteva evocare il Narratore; con la seconda, far apparire la Storia; e con la terza, scegliere il Destinatario. Ogni volta che il giovane Narrare pronunciava il suo incantesimo, la frase prendeva vita!

Un giorno, nel Regno arrivò una nube oscura di Confusione Grammaticale. I verbi iniziarono a dimenticare quanti argomenti chiamare, i soggetti si nascondevano, gli oggetti sbagliavano posto... Il Re Parlare, ormai stanco, convocò l’Accademico Saggio Tesnière, che portò con sé una mappa segreta: la Grammatica Valenziale.

Con l'aiuto di Narrare, Mangiare (che chiamava due elementi: chi mangia e cosa), e Dormire (che si arrangiava da solo con una valenza soltanto), il Regno cominciò a ricostruire le frasi. Ogni verbo scoprì la propria “famiglia valenziale” e capì quali elementi doveva accogliere per vivere felice.

Da quel giorno, ogni frase diventò chiara come il cielo di giugno, e la confusione fu dissolta. I bambini di Sintassia impararono che le parole sono come incantesimi: basta sapere chi deve comparire sulla scena. E il verbo Narrare? Continuò a raccontare, a chi voleva ascoltare, storie piene di soggetti, oggetti e incanti grammaticali.

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(da Wikipedia)

Numero degli argomentiDescrizioneFormula
ZerovalentiVerbi impersonali come pioverenevicaregrandinare (anche detti "verbi atmosferici"), che non hanno bisogno di nessun altro elemento e costituiscono perciò da soli un nucleo completo: Piove.[non sogg-v]
MonovalentiVerbi intransitivi come abbaiaredormiresbadigliaretossire, che hanno bisogno solo dell'indicazione di chi agisce: Fido abbaia.[sogg-v]
BivalentiSono bivalenti due tipi di verbi:
  • Verbi transitivi come adorareamareodiareaprirechiudere, che necessitano di due argomenti: chi agisce (I argomento e soggetto della frase) e "su cosa agisce" (II argomento e oggetto diretto della frase): Lea adora il mare.
  • Verbi intransitivi come giovare o abitare, che necessitano di due argomenti: il soggetto della frase (I argomento) e un oggetto indiretto o preposizionale (II argomento, introdotto da una preposizione): Paolo abita a Roma.
  • Transitivi: [sogg-v-arg]
  • Intransitivi: [sogg-v-prep-arg]
TrivalentiSono trivalenti due tipi di verbi:
  • Verbi transitivi come regalaredareinviaredirecollocare, che hanno bisogno del soggetto della frase (I argomento), di un oggetto diretto (II argomento) e di un oggetto indiretto (III argomento, collegato al verbo con una preposizione): Fabio regala una rosa a Martina.
  • Verbi intransitivi come passareprecipitare o rallegrarsi, che hanno bisogno del soggetto (I argomento) e di due argomenti indiretti: Mi rallegro con te del tuo risultato.
  • Transitivi: [sogg-v-arg-prep. arg]
  • Intransitivi o transitivi forniti di usi intransitivi: [sogg-v-prep. arg-prep. arg]
TetravalentiVerbi transitivi come tradurretrasportaretrasferiretravasare, che necessitano del soggetto (I argomento soggetto), di un oggetto diretto (II argomento) e di due argomenti indiretti: Il professore traduce una poesia dal greco all'italiano.[sogg-v-arg-prep.arg-prep.arg]


Grafici radiali

(Le immagini sono riprese dalla Rete, di dominio pubblico, quindi. Se víolano i diritti d'autore scrivetemi; saranno prontamente rimosse: fauras@iol.it)







domenica 13 luglio 2025

Non basta saper fare: è nel 'come' che si rivela la vera professionalità

 

In un mondo che premia l’efficienza e fagocita le sfumature, la lingua ha il potere di fermare il tempo e restituirci la complessità delle cose. “Professionista” e “professionale” sembrano vicini, quasi gemelli linguistici, ma celano in realtà visioni diverse del lavoro, dell’identità, del comportamento. Uno designa chi sei, l’altro come ti comporti. E questa differenza, a ben guardare, è tutt’altro che banale.

Entrambi i lessemi derivano dal latino professio, derivato del verbo profiteri (professare, dichiarare), dichiarazione pubblica di intenti, quasi una vocazione ostentata. Ma nel passaggio alla lingua volgare, l’italiano, “professionista” prende la via del sostantivo: è colui che esercita una professione riconosciuta, formalizzata, spesso iscritto ad albi o ordini. “Professionale”, invece, diventa aggettivo: qualifica atteggiamenti, modi, approcci. Il primo è un'etichetta, il secondo è un elogio.

L'oculista che interrompe le visite per rispondere al telefono è indubbiamente un professionista, ma la sua professionalità è vacillante. La madre che gestisce con precisione chirurgica la logistica familiare - orari, imprevisti, relazioni - non esercita una professione ufficiale, ma incarna una professionalità che molti “manager” (si perdoni il barbarismo) le invidierebbero. Il cameriere in Piazza San Marco, a Venezia, che, con grazia e precisione, serve un cliente scontroso senza mai perdere il sorriso, dichiara: “Cerco di essere professionale. Il titolo arriverà col tempo.” Ed eccola lì, la linea che separa l’essere dal fare, il ruolo dalla cura.

Nel mondo creativo, la distinzione si fa ancora più preziosa. L’illustratore "freelance" (anche qui si perdoni il barbarismo) che lavora con continuità è un professionista. Ma se ignora le richieste del cliente e consegna in ritardo, la sua professionalità va a farsi benedire. Uno studente che consegna un elaborato curato nei minimi dettagli, rispettando scadenze e dialogando con il docente, mostra una professionalità che prefigura già il futuro.

Professionista ti dà un nome. Professionale ti dà un tono. Il primo è una fotografia, il secondo è un film. E tra il ritratto statico e il racconto in movimento, c’è tutta la differenza tra fare qualcosa e il 'come' lo si fa.

Essere professionisti, per concludere queste noterelle, è spesso un punto di partenza. Essere professionali, invece, è ciò che trasforma il lavoro in rispetto, l’azione in valore, il quotidiano in eccellenza. Perché la competenza si dichiara, la professionalità si dimostra. Insomma, la professionalità è ciò che resta quando il titolo sparisce.



sabato 12 luglio 2025

Chi fa "danzare" l’acqua ha finalmente un nome

 

In un mondo urbano che scorre sulle superfici e pulsa nei dettagli, dove l’acqua non è soltanto risorsa ma anche poesia, mancava una parola che desse dignità al mestiere silenzioso di chi si prende cura delle fontane monumentali pubbliche, dei loro zampilli, delle loro fragili coreografie. Oggi, quel vuoto lessicale trova un nome preciso e evocativo: zampillista.

Il vocabolo nasce con l’urgenza e il rispetto che meritano le professioni tecniche e invisibili. Se il fontaniere è la figura storica deputata alla gestione delle fontanelle e degli impianti idraulici di servizio, lo zampillista si occupa invece delle fontane monumentali, degli impianti scenografici, delle vasche decorative che arricchiscono il paesaggio urbano con giochi d’acqua, suoni e riflessi. È il professionista che interviene dove l’acqua smette di essere “utile” e diventa esperienza visiva, architettonica e identitaria.

Nella scelta del nome risuonano le ragioni della lingua viva. “Zampillo”, il cuore del lessema, richiama quel getto d’acqua che si solleva, che “balla” con grazia e precisione; il suffisso “-ista” designa una specializzazione, un mestiere, una cura tecnica. Ne risulta un termine semplice, musicale, comprensibile, ma soprattutto giusto. Uno di quelli che sembrano già esistere, perché servivano da tempo.

Immaginarne l’uso diventa esercizio naturale: “Durante il restauro della fontana del Nettuno, sono intervenuti due zampillisti.” “È stato proprio lo zampillista a notare la perdita nella bocchetta centrale.” “Cerchiamo urgentemente uno zampillista certificato per la manutenzione delle fontane di Villa Borghese.”

La neoformazione funziona nel linguaggio tecnico, in quello giornalistico, in quello promozionale. Può comparire nei titoli di studio (“Corso per aspiranti zampillisti”), negli annunci di lavoro (“Azienda cerca zampillista con esperienza di impianti decorativi”) e persino nella comunicazione cittadina (“Rispetta lo zampillo. Lo zampillista lavora per te”). La sua forza risiede nella naturalezza con cui definisce una figura che finora non aveva voce autonoma, e nella dignità che conferisce a un mestiere che richiede competenza, precisione e sensibilità estetica.

Nel vocabolario dei mestieri urbani, dove si moltiplicano le specializzazioni e si riscopre il valore di ogni competenza, zampillista non è solo un nome: è un atto di riconoscimento. Perché dietro ogni zampillo che scorre, c’è una mano che lo fa vivere. E da oggi, quella mano può avere finalmente un nome.

Se il neologismo lessicale dovesse essere accolto nella lingua ufficiale potrebbe essere lemmatizzato nei vocabolari:

zampillista – s. m. e f. (plur. m. -i) – Professionista qualificato nella manutenzione, calibrazione e valorizzazione delle fontane pubbliche ornamentali. Ieri sono intervenuti due zampillisti per ripristinare il funzionamento della fontana barocca in Piazza Farnese.



(Le immagini sono riprese dalla Rete, di dominio pubblico, quindi. Se víolano i diritti d'autore scrivetemi; saranno prontamente rimosse: fauras@iol.it)




venerdì 11 luglio 2025

Fuggitivo o fuggiasco? Le parole della fuga tra colpa e necessità

 

C’è chi fugge e chi sparisce. C’è chi è colpevole e chi è solo travolto. A volte basta un aggettivo - fuggitivo o fuggiasco - per dire da che parte guardiamo chi scappa. In un momento storico in cui le parole tornano ad avere peso, e i confini si misurano anche nel linguaggio, distinguere tra chi evade e chi cerca salvezza è più che un esercizio stilistico: è un atto di consapevolezza. Queste noterelle si propongono di esplorare quella differenza, silenziosa ma potente, che passa tra due termini simili solo in apparenza.

I sintagmi fuggitivo e fuggiasco appartengono allo stesso campo semantico – la fuga – ma non sono sovrapponibili. Li distingue una sottile ma significativa differenza d’origine, di uso e di tono.

Fuggitivo proviene dal latino fugitivus, participio passato del verbo fugere, ovvero “fuggire”. Nell’antica Roma, fugitivus indicava soprattutto lo schiavo evaso, il disertore, il reo che si sottraeva alla legge. Non a caso, il vocabolo ha conservato anche in italiano un’aura di colpevolezza o illegalità, accentuata dalla brevità e dalla furtività dell’azione. È un aggettivo e sostantivo che evoca una fuga volontaria, spesso illecita, ma anche rapida, transitoria: si pensi a “sguardo fuggitivo” o “momento fuggitivo”, dove il senso dominante è la fugacità.

Fuggiasco, invece, ha una storia un po’ diversa. Deriva sempre dal verbo latino fugere (‘fuggire’) ma si è sviluppato nel volgare medievale come forma aggettivale, benché il lemma fugiascus non sia attestato nei testi classici ma rappresenti una ricostruzione plausibile della lingua parlata dell’epoca.

A differenza di fugitivus, che ha una matrice più tecnico-giuridica,  fugiascus nasce probabilmente come participio aggettivale popolare, usato per indicare “colui che fugge”. In italiano, da questa forma si è evoluto il sostantivo fuggiasco, che designa chi è costretto alla fuga, molto spesso non per scelta ma per necessità.

Con il trascorrere del tempo fuggiasco si è avvicinato semanticamente a termini come profugo o esule, soprattutto in contesti umanitari o giornalistici. È una parola che richiama situazioni drammatiche: guerre, persecuzioni, catastrofi naturali, carestie.

Ecco alcuni esempi che chiariscono la distinzione tra i due lessemi:

  • Il detenuto evaso era un fuggitivo braccato dalle forze dell’ordine.

    I civili che lasciavano il Paese bombardato erano fuggiaschi in cerca di salvezza.

    Uno sguardo fuggitivo sfiorò la folla e svanì tra le ombre.

    I fuggiaschi giunsero al confine esausti, accolti da volontari e medici.

Fuggiasco, dunque, porta spesso con sé un’aura di vulnerabilità, dolore e sradicamento. Fuggitivo, al contrario, suggerisce un’azione furtiva e talvolta colpevole. Il primo è una figura passiva, travolta dagli eventi della vita; il secondo, attivo e responsabile della propria fuga.

In conclusione, il nostro idioma distingue con finezza chi scappa per scelta e chi per necessità: fuggitivo è chi tenta di sottrarsi, spesso, alla legge; fuggiasco è chi si allontana, suo malgrado, da un luogo alla ricerca di salvezza. Una distinzione lessicale che rivela, come spesso accade, anche una differenza di sguardo sul mondo.

Le parole non sono solo strumenti: sono occhiali attraverso cui guardiamo il mondo. Dire fuggitivo o fuggiasco non cambia solo il lessico, ma anche la “postura etica” di chi scrive o parla. In tempi veloci e confusi, scegliere la parola giusta è un modo per rallentare e pensare. E magari, restituire dignità a chi fugge, non per sottrarsi, ma per salvarsi.



giovedì 10 luglio 2025

Una parola, due anime: l’ambivalenza di “realista”

 

Ci sono vocaboli, nel nostro lessico, che non si lasciano incasellare. Mutano, si piegano, si allungano, assumono vesti nuove come attori su un palcoscenico. Realista è uno di questi: un lessema ambivalente, che nel tempo è passato dalle dimore reali alle pagine dei romanzieri, dalle guerre civili alle analisi quotidiane del mondo reale.

All’origine, il termine realista nasce da rex, regis, il re. Chi era realista “tifava” per il re, ne difendeva i diritti e l’autorità. Il vocabolo assume forza in contesti di conflitto: si pensi alla Francia postrivoluzionaria, all’Inghilterra delle guerre civili, alla Spagna ottocentesca. Il realista è il lealista, il monarchico, il conservatore che si oppone, con fermezza, al vento del cambiamento.

Ma già dal Medioevo, il latino realis, da res (cosa), si affaccia sulla scena filosofica, indicando ciò che ha esistenza concreta, ciò che è, in opposizione all’astratto, al nominale. In questo senso il lessema in oggetto comincia a scollegarsi dall’ambito monarchico per alludere a una dimensione più generale: quella della realtà.

Nel corso dell’Ottocento questo slittamento semantico accelera. Crollano le monarchie, avanzano le ideologie, e realista si ricolloca. È il secolo del realismo filosofico, che rifiuta le illusioni dell’idealismo; è il tempo del realismo letterario, da Balzac a Verga e oltre, dove la realtà - sociale, quotidiana, spesso cruda - è al centro della narrazione. Il realista ora non è più il devoto del re, ma colui che guarda in faccia le cose, che rifiuta l’idealizzazione, che aderisce al vero.

Il passaggio è reso possibile da una sottile ambiguità linguistica: reale può derivare sia da rex (re) che da res (cosa). Così, il realista può essere tanto colui che difende il re quanto colui che aderisce alla realtà delle cose.

Questa biforcazione prosegue nel Novecento, con nuove varianti:

  • Il realismo socialista, che coniuga ideologia e rappresentazione;

    Il neorealismo italiano, che ritrae l’Italia del dopoguerra senza filtri;

    Il realismo magico, dove il fantastico si innesta in contesti realistici creando uno spazio di verità più profondo.

Oggi, dire che una persona è realista significa descriverne l’attitudine concreta, la tendenza a valutare le cose nella loro effettività, senza farsi illusioni. Ma quel significato monarchico non è morto: sopravvive in alcuni contesti storici e in lingue come lo spagnolo, dove realista designa ancora il monarchico.

Due esempi per coglierne la duplice anima:

  • I realisti inglesi sostenevano Carlo I contro i parlamentari.

    Paola è realista: sa che per finire il progetto serviranno settimane.

Un sintagma che ha attraversato i secoli, trasportando con sé l’eco del potere e la sete di verità. Realista è oggi un ponte lessicale tra l’ideologia e l’esperienza, tra ciò che si sostiene e ciò che si osserva.

 

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La lingua “biforcuta” della stampa

Terracina, la polizia indaga su tutti i lavori fatti nel ristorante: a brevi i primi indagati

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Un’altra conferma di quanto denunciamo da anni: gli operatori dell’informazione non rileggono ciò che scrivono, certi della loro “infallibilità linguistica”.



mercoledì 9 luglio 2025

Dalle tenebre alla supplica: l’epopea nascosta del verbo “scongiurare”

 

Dal latino alla disperazione teatrale, dal sacro al quotidiano: un viaggio nelle profondità di un verbo che supplica, invoca e, a volte, salva.

Il verbo scongiurare ha una storia affascinante, che intreccia magia, religione e linguaggio quotidiano. Oggi lo usiamo per dire di “evitare un pericolo” o “pregare con insistenza”, ma queste due accezioni, apparentemente distanti, affondano le radici in un unico gesto: quello di invocare forze superiori per allontanare il male.

Il sintagma deriva dal latino sconjurare, composto da s- (prefisso con valore separativo o intensivo) e conjurare, cioè “giurare insieme”, “invocare con un giuramento”. In origine, conjurare indicava un atto solenne, spesso collettivo, in cui si chiamavano in causa potenze divine o spirituali per ottenere protezione o per vincolare qualcuno a un patto.

Nel Medioevo, scongiurare acquista un senso tecnico legato all’esorcismo: era l’atto rituale con cui si costringeva un demone ad abbandonare una persona o un luogo. Si trattava di una formula magica o religiosa, pronunciata con solennità, per “scacciare” il male. Questo uso è rimasto nella lingua letteraria e religiosa: scongiurare Satana, scongiurare gli spiriti maligni.

Con il trascorrere del tempo, però, il gesto dello scongiurare ha perso il suo alone magico per diventare un atto umano, disperato, ma profondamente terreno: quello di chi supplica, implora, prega con fervore. Dire “ti scongiuro” è un’eredità di quel linguaggio rituale, ma oggi è un’espressione di intensa emotività, non più di potere spirituale. È come se il verbo avesse traslato il suo oggetto: non più il demone da cacciare, ma l’interlocutore da convincere.

Gil divino Dante, nel Purgatorio, ne coglieva la doppia forza: L’una mi fa tacer, l’altra scongiura / ch’io dica. Il verbo è lì, incastonato tra silenzio e necessità, come se fosse la voce stessa della coscienza o della pietà che preme per essere ascoltata.

Allo stesso modo Boccaccio, nel Decameron, dipinge un gesto di riconciliazione che passa proprio attraverso la preghiera intensa: Tanto disse e tanto pregò e scongiurò, che ella, vinta, con lui si paceficò. Qui scongiurare si affianca a pregare, ma ne accentua la drammaticità.

Anche nel linguaggio teatrale il verbo trova piena voce. Plauto, nei suoi versi, fa dire al protagonista: Vi scongiuro, vi prego, vi supplico, aiutatemi voi! Tre verbi che si rafforzano a vicenda, ma è proprio scongiurare ad aprire la supplica, come se fosse il più urgente, il più disperato.

Questa traiettoria si completa nel linguaggio comune con usi figurati ormai cristallizzati: scongiurare un pericolo, una disgrazia, una guerra. Qui il verbo conserva l’idea originaria di “allontanare il male”, ma lo fa in chiave laica, razionale. Non si tratta più di un rito, ma di un’azione concreta o simbolica per evitare un evento negativo.

Curiosamente, l’intensità del verbo sopravvive anche nell'uso moderno. Nietzsche, in Così parlò Zarathustra, scrive con solennità: Ve ne scongiuro, fratelli miei, rimanete fedeli alla Terra.... È un’invocazione quasi sacra, anche se priva di religione: la fede è trasferita nel mondo, e lo scongiurare diventa un puro atto filosofico.

In conclusione, il passaggio semantico è avvenuto per slittamento del contesto: da un ambito sacro e rituale a uno profano e psicologico. Ma il cuore del sintagma verbale è rimasto immutato: scongiurare è sempre un atto di urgenza, di bisogno, di difesa. Che si tratti di spiriti, disgrazie o cuori induriti, chi scongiura lo fa perché non ha altra arma all’infuori della parola. In ogni scongiuro, insomma, resta l’eco di un tempo in cui le parole servivano a salvare il mondo, e forse lo fanno ancora, quando sono dette con verità.


martedì 8 luglio 2025

Quando le parole si scontrano: l’arte di discutere senza cadere nel litigio

 

Ci sono parole che sembrano simili, quasi sorelle, e che invece appartengono a famiglie emotive molto diverse. “Discutere” e “litigare” sono due verbi che, in alcune situazioni, sembrano sovrapporsi ma in realtà tracciano confini netti tra confronto costruttivo e conflitto. Capire questa distinzione non è solo una questione di vocabolario: è anche un esercizio di civiltà, dialogo e consapevolezza.

Il sintagma verbale “discutere” ha radici latine: deriva da discutĕre, composto da dis- (“separare”) e quatĕre (“scuotere”). Letteralmente, “discutere” significava quindi “scuotere separando”, ovvero analizzare, esaminare, sviscerare un tema da più angolazioni. Con l’andare del tempo il significato si è evoluto, ma ha mantenuto il suo nocciolo positivo: affrontare un argomento, confrontarsi su idee, metterle in circolo e in discussione.

Anche “litigare” arriva dal latino litigare, a sua volta composto da lis (“lite, contesa”) e agĕre (“agire, muoversi”). Qui il senso è più combattivo, legato al contrasto, alla disputa accesa, spesso accompagnata da emozioni forti, parole taglienti o toni esasperati. Il litigio porta con sé un carico emotivo e talvolta distruttivo che manca nella discussione.

La differenza tra i due sintagmi verbali è sottile ma cruciale. Discutere è un atto dialogico, anche se può essere acceso o appassionato. Litigare è invece il punto in cui il confronto si spezza, la volontà di capire l’altro cede il passo alla “necessità” di avere ragione o, peggio, di ferire.

Ecco qualche esempio che rende evidente la differenza:

  • Due amici parlano animatamente di politica al bar: “abbiamo discusso tutta la serata su chi fosse il miglior presidente del Consiglio”. Qui c’è scambio, magari anche con tono elevato, ma rispetto.

    Gli stessi amici, se la conversazione degenera e uno accusa l’altro (“sei sempre il solito ignorante”), potrebbero arrivare a dire: “abbiamo litigato e ora non ci parliamo più”. Il dialogo civile ha ceduto il passo allo scontro personale.

Insomma, si può discutere anche animatamente con affetto e complicità. Ma quando la relazione cede il passo all’ ‘ego’, la discussione sfuma e lascia spazio al litigio.

È interessante notare come in contesti culturali differenti il confine tra queste due azioni venga tracciato in modi diversi. In alcune culture, per esempio, il confronto acceso è indice di partecipazione e interesse; in altre può essere visto come minaccia o maleducazione. Ma in tutte le culture la differenza tra discutere e litigare resta: il primo costruisce, il secondo può distruggere.

In conclusione possiamo dire che discutere è un’arte sociale, litigare un inciampo umano.  



lunedì 7 luglio 2025

L’anima tragica di un vocabolo

 

Dopo il disgraziato (del 5 scorso), due parole sullo sciagurato.

Ogni lingua ha le sue condanne. Alcune gridano, altre sussurrano, altre ancora - come sciagurato - sentenziano con voce grave, solenne, irrimediabile. Non è un insulto da bar dello sport: è un verdetto da tragedia, un giudizio scolpito con la lama delle etimologie. Chi lo pronuncia alza il dito, ma anche il sipario su una parola che ha il tono delle maledizioni bibliche e la precisione di un monito secolare. Eppure, dietro la sua gravità, sciagurato è anche uno specchio affilato: dentro ci vediamo le nostre colpe, le nostre cadute, e forse persino una forma di redenzione.

C’è una parola che non si limita a nominare la sventura: la incide. Sciagurato non si grida, si pronuncia con la solennità di una condanna. È una parola che attraversa la lingua come un giudizio antico, affilata e irrevocabile. Non è solo sinonimo di sfortuna: è il sigillo di chi ha osato troppo o troppo poco, di chi ha tradito aspettative umane o divine.

La sua etimologica racconta già molto: dal latino ex-auguratus, "fuori dai buoni auspici" e quindi fuori dal favore del destino, slegato dalla benevolenza degli dèi. La sciagura non è solo un evento doloroso: è un presagio avverato. E lo sciagurato, colui che porta con sé il marchio della rovina.

Nelle sue prime attestazioni - dalla letteratura religiosa al teatro tragico - sciagurato non è mai neutro. A differenza di disgraziato, che può ancora implorare pietà o suscitare compassione, sciagurato condanna. È parola che, pur avendo una radice fatalistica, si carica ben presto di colpa morale. Non si è sciagurati per caso: si diventa tali, per scelta, per azione, per silenzio colpevole.

Nei Promessi Sposi di Manzoni il lemma risuona come un anatema: “sciagurato costui!”, non un semplice sventurato, ma un peccatore, un dannato, un uomo oltre la redenzione. E anche successivamente sciagurato rimane saldo tra le parole della condanna nobile, del rimprovero inciso nella carne stessa del linguaggio.

Eppure oggi, sulla bocca di qualcuno che sappia ancora apprezzarne il peso, sciagurato può tornare a vibrare come un tempo. Usato con ironia, con affetto, persino con scherzosa teatralità, si può trasformare in quel tipo di rimprovero che sorride sotto i baffi: una parola antica che ci ricorda come le offese più eleganti sono/siano spesso le più affilate.

Così, sciagurato continua a vivere. Parola che giudica, parola che riflette, parola che - più di tante altre - mostra come anche il vocabolario ha/abbia una sua coscienza. E nel pronunciarla, forse, non condanniamo solo l’altro, ma ci chiediamo se, in fondo, non lo siamo stati tutti, almeno una volta, nel corso della nostra vita.













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“Poco” è molto: viaggio intorno a una parola minuta e sapiente - Minimalismo linguistico e profondità del pensiero

Nel gran vocabolario del nostro idioma, ci sono parole che fanno rumore e parole che sussurrano. “Poco” appartiene a quest’ultima specie: umile in apparenza, ma capace di scolpire sfumature, misurare e, talvolta, sorprendere. Le noterelle che seguono sono un omaggio alla sua versatilità. Perché anche le parole piccole possono raccontare molto.

Cominciamo col dire che "poco" è come certi attori di teatro d’altri tempi: sa passare dalla tragedia alla commedia con una sola inflessione. Quando serve misura, si fa quantità; quando occorre tempo, si fa istante. È la risposta all’eccesso, alla sovrabbondanza, alla teatralità del "troppo".

“Ho dormito poco.” Qui sfiora la cronaca. Indica un tempo breve, un sonno strappato agli impegni o alle inquietudini. È avverbio temporale: si infila tra soggetto e verbo come un sospiro breve.

“Ne ho mangiato poco.” Qui il ruolo cambia: adesso misura la quantità. Niente più tempo, ma materia. È avverbio di quantità, e si allinea con i modi dell’appetito.

“C’è poco pane”; “Un poco di vino.” In questi casi “poco” si piega alle regole dell’aggettivo e del sostantivo. Nella prima frase quantifica il pane; nella seconda diventa lui stesso ciò che si misura. È il “po’” in giacca e cravatta.

“Poco ma buono.” Qui si diletta con i proverbi, diventa categoria esistenziale. Non è più solo misura, ma visione del mondo.

E poi ci sono gli usi elusivi. “Sei arrivato poco fa”: un tempo ormai quasi perduto, ma che insiste nel dire la vicinanza. “Tra poco vado”: un futuro imminente, trattenuto per un momento.

Infine, un omaggio al suo potere stilistico: "poco" è sobrio, ma sa tagliare. Può sminuire (“poco interessante”), può consolare (“poco male”), può accusare (“poco coerente”). È l'avverbio che sussurra più di quanto urli.

A conclusione di queste noterelle. Se qualcuno dice che ‘poco’ non è abbastanza, rispondete pure che nel linguaggio, come nella vita, conta la qualità, non l’eccesso.


domenica 6 luglio 2025

Il "ferrotranpantografista", ovvero il manutentore delle linee aeree ferrotranviarie

 

Esistono mestieri, con un nome, che conoscono tutti, e altri che fanno girare il mondo senza avere nemmeno il nome. Questa è la storia di uno di questi ultimi: il tecnico che veglia sul braccio segreto dell’elettricità, il pantografo, silenzioso interprete tra cielo e rotaia. In mancanza di una definizione ufficiale, abbiamo provato a crearne una, non con una scheda tecnica, ma con una favola. Così è nato il ferrotranpantografista: un neologismo necessario, forse eccessivo, certo affettuoso. 

In una città fatta di binari lucenti e cielo trafitto da fili d'argento, i tram e i treni danzavano ogni giorno grazie a una magia invisibile: la Linea del Cielo, un intreccio di cavi aerei che portavano la corrente vitale a ogni veicolo su rotaia. Ma quella magia era fragile. Bastava un’oscillazione, un attrito fuori norma, e il pantografo si piegava come un ramo stanco.

Quando questo accadeva, nessuno sapeva bene a chi rivolgersi. Manutentore ferrotranviario era troppo generico. 

Gli elettricisti scotevano la testa: “Troppo meccanico.” I meccanici sospiravano: “Troppo elettrico.” E nei documenti del ministero dei trasporti… quel mestiere non aveva nemmeno un nome.

Ma c’era un giovanotto. Si chiamava Gualtiero, aveva le mani segnate dal rame e un cacciavite che portava sempre con sé, come un pendaglio sacro. Non guardava solo in basso tra le ruote, né solo nei quadri elettrici: lui alzava gli occhi verso l’alto, lì dove viveva il pantografo, quel braccio snodato che sfiorava il cielo e raccoglieva la corrente con eleganza danzante.

Un giorno, davanti ad alcuni ferrotranvieri, confusi, Gualtiero sollevò lo sguardo e disse:

“Visto che nessuno ha mai dato un nome a ciò che faccio… lo invento io.”

Prese tre radici come fossero bulloni:

Tran (tram), per ricordare il mondo dei tram e il concetto di trasporto su rotaia.

Ferro, come omaggio al regno possente delle ferrovie, fatto di acciaio e volontà.

Pantografo, il cuore pulsante della sua vocazione, che tocca i cavi celesti e guida l’energia a terra.

E, infine, aggiunse ‘-ista’, come si fa per tutte le vere professioni, per consacrare il ruolo.

“Mi chiamerete ferrotranpantografista,” disse con voce calma ma vibrante. “Perché io veglio sulla corrente che danza tra cielo e rotaia.”

Da quel giorno, nessuno ebbe più dubbi.

Quando il filo tremava nel buio, quando il pantografo gemeva come un’arpa stonata e i treni si ammutolivano, tutti sapevano chi chiamare: lui, il tecnico che aveva dato un nome al proprio destino.

E da allora, in ogni deposito al calar della notte, c’è chi giura di udire il canto lieve dell’elettricità tornare a scorrere, come una carezza tra rotaia e cielo. È il segno che il ‘ferrotranpantografista’ è passato di lì.

I lessicografi potrebbero prendere in considerazione la neoformazione e lemmatizzarla nei vocabolari:

ferrotranpantografista - s. m. e f. (pl. m. -i). – Persona addetta alla manutenzione e riparazione dei pantografi ferrotranviari.









(Le immagini sono riprese dalla Rete, di dominio pubblico, quindi. Se víolano i diritti d'autore scrivetemi; saranno prontamente rimosse: fauras@iol.it)




sabato 5 luglio 2025

Disgraziato: dal colpito dalla sventura al reprobo sociale

 

C’è un vocabolo che, come certi volti segnati dalla vita, ha più storie da raccontare di quante gliene si leggano addosso. “Disgraziato” è uno di quei termini che sembrano innocui, quasi patetici, e invece nasconde un’oscillazione semantica che farebbe girare la testa anche al più esperto trapezista linguistico. Dal poveraccio al farabutto, dalla sfortuna alla colpa, questa parola ha fatto un viaggio che merita di essere raccontato. Non tanto per amore della lingua quanto per capire come giudichiamo, e chi.

Il sintagma disgraziato, dunque, affonda le sue radici nel latino tardo, come derivato diretto di disgrazia, a sua volta composto dal prefisso privativo dis- e da grazia (dal latino gratia), che indica favore, benevolenza, o dono divino. Dis-grazia, dunque, è letteralmente la perdita della grazia, sia essa divina o sociale. Il disgraziato è, in origine, colui che ha perso il favore della sorte o degli dèi, e per questo è colpito da sventure, sciagure, o semplicemente da una vita infelice.

Nel suo primo uso, attestato già nei testi italiani del Trecento, disgraziato è sinonimo di sfortunato, sventurato, miserabile e simili. È la figura del povero diavolo, del derelitto, del malcapitato che suscita compassione. In questo significato il termine conserva un tono pietoso o, al massimo, ironico: “Povero disgraziato, non gliene va bene una”.

Ma la lingua, si sa, è creatura viva e mutabile. E così, con il trascorrere del tempo, disgraziato è/ha scivolato semanticamente verso un’accezione più dura, più morale che fatale. Già nei secoli passati, l’interiezione “disgraziato!” era adoperata per rimproverare qualcuno che stava per compiere un’azione avventata, pericolosa o moralmente discutibile: “Che fai, disgraziato? Vuoi rovinarti?”. Qui il termine non indica più (solo) chi subisce la disgrazia, ma chi la provoca, chi - come si dice - se la cerca.

Questo slittamento si è via via accentuato nel parlato popolare e nei dialetti, dove disgraziato ha assunto connotazioni sempre più negative, fino a diventare sinonimo di mascalzone, delinquente, farabutto e simili. In molte regioni italiane, dire “quel disgraziato” equivale a dire “quel malvivente”, con un giudizio morale netto e senza appello.

Il passaggio semantico è sottile ma potente: dalla sfortuna subita alla colpa commessa. Il disgraziato non è più solo vittima, ma anche agente del male. È un esempio di come la lingua possa riflettere un cambiamento di prospettiva culturale: da una visione fatalistica della vita a una più etica e giudicante.

Per concludere queste noterelle, disgraziato è un termine che ha attraversato i secoli e le coscienze, trasformandosi da epiteto compassionevole a insulto morale. E in questo viaggio semantico ha raccolto tutte le sfumature dell’umano: la pietà, il rimprovero, il disprezzo.

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Chi nasce disgraziato, nemmeno il sole lo asciuga.

Al disgraziato non basta la sfortuna: ci si mettono pure gli amici!

Chi è nato disgraziato, anche le pecore lo mordono.

Chi è disgraziato non vada al mercato.

Giustizia e salute: disgraziato chi ne va in cerca.  


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La lingua “biforcuta” della stampa

Incidenti lavoro, morto l’operaio asfissiato da esalazioni nel vicentino. Grave stagista in Friuli

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Correttamente: Vicentino (V maiuscola in quanto indica un'area geografica).

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Esplosione Roma, la vigilessa: “Il fumo ci ha dato il tempo di salvare i bimbi del centro estivo”

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Ancora vigilessa! I bimbi di III elementare sanno che la forma corretta è la vigile. I sostantivi e gli aggettivi in “-e” nel femminile restano invariati, cambia solo l’articolo: il giudice/la giudice; il presidente/la presidente; il vigile/la vigile. Quando leggeremo sulla stampa la custodessa della scuola?