domenica 9 novembre 2025

Sgroi – 214 - Da “Hausbuch” a “Livre de chevet”

 


di Salvatore Claudio Sgroi


1. L’evento editoriale

La riedizione della classica Grammatica italiana (Utet 1988, Garzanti 1997, Utet 2025, a c. di G. Patota) del compianto Luca Serianni (1947-2022) in collaborazione con Alberto Castelvecchi, è stata l’occasione per una elegante e acuta recensione di Stefano Telve apparsa il 7 novembre (pp. 5) nella rubrica Italiano a c. di Silverio Novelli della Treccani.


2. Hausbuch

S. Telve ha così opportunamente ricordato le parole dell’italianista tedesco Harro Stammerjohann che nel 1989 così si esprimeva riguardo alla I ediz. della Grammatica serianniana:


Grazie alla sua leggibilità, alle sue illustrazioni, all’appendice con testi esemplari e commenti linguistici così come ad un dettagliato ‘indice dei fenomeni e delle forme notevoli’, la grammatica di Serianni potrebbe diventare ciò che in tedesco si chiama un Hausbuch, ‘un libro da tenere in casa”.


Parole così commentate da S. Telve:


il volume di Serianni potrebbe diventare quello che i francesi chiamano livre de chevet, cioè ‘libro da comodino’ o meglio ‘libro preferito, da riaprire e consultare all’occorrenza’. Insomma, qualcosa da cui è difficile separarsi”.


2.1. Livre de chevet vs Hausbuch

Se l’espressione francese livre de chevet è ben nota in italiano, registrata com’è nei dizionari, per es. nel De Mauro (2000): “loc.s.m.inv. ES fr. libro prediletto, che si tiene sempre a portata di mano”, datata 1957, con l’etimo “fr. livre de chevet propr. ‘libro da capezzale’”, lo stesso non può dirsi del composto Hausbuch, che manca in tutti i dizionari italiani, nonché nel settoriale T. De Mauro-M. Mancini (2000), Dizionario delle parole straniere nella lingua italiana.


2.2. Hausbuch in inglese

Il termine in italiano è altresì assente in “Google Libri Ricerca Avanzata”, dove invece appaiono alcuni ess. in inglese, per es.


Smithsonian Institution 1955: “HAUSBUCH MASTER Painter and engraver. Known by this name from his drawings in the so called ‘Hausbuch’ in the collection of the Princes of Waldburg - Wolfegg (Würtemberg)” (German Drawings: Masterpieces from Five Centuries, p. 15).

Rijksmuseum (\Netherlands), ‎Karel G. Boon 1978 : “Also called the Master of the ‘Hausbuch' , possibly identical with Erhard Reuwich, who came from Utrecht and worked in Mainz after 1484” (Netherlandish Drawings of the Fifteenth and Sixteenth Centuries, Government Pub. Office, p. 4).


Peraltro il tedeschismo manca nell’Oxford English Dictionary on line e nel Merriam-Webster’s Collegiate Dictionary 200311 e nell’edizione online.

Stando a AI Overview, “The term ‘Hausbuch’ does not appear in an English-language dictionary like the online version of Merriam-Webster's Collegiate Dictionary. The dictionary primarily contains English words and phrases, and ‘Hausbuch’ is a German term.

Language barrier: ‘Hausbuch’ is a German word that does not have an English equivalent, and therefore is not included in the English dictionary.

  • Meaning of ‘Hausbuch’: The German word can be translated as ‘household book’ or ‘home book’, ‘referring to a book of household accounts, a family chronicle, or a book containing recipes or other family-related information.’”.


2.3. Traducenti italiani di Hausbuch

Stando ad AI Overview, “hausbuch non si usa in italiano; è una parola tedesca che si traduce con libro dei conti’ o ‘libro spese’ per indicare un registro di entrate e uscite domestiche. L'equivalente italiano corretto è ‘libro spese’ o ‘libro dei conti di casa’”.

Invece Il Nuovo dizionario di Tedesco di Luisa GiacomaSusanne Kolb (20092) indica come traducente “registro degli inquilini di un condominio”. Una lacuna quindi della lessicografia bilingue ted.-it. che dovrà aggiornarsi al riguardo.


Sommario

1. L’evento editoriale

2. Hausbuch

2.1. Livre de chevet vs Hausbuch

2.2. Hausbuch in inglese

2.3. Traducenti italiani di Hausbuch













Altre pubblicazioni di Salvatore Claudio Sgroi:

Per una grammatica ‘laica’. Esercizi di analisi linguistica dalla parte del parlante, Torino, Utet 2010

Scrivere per gli italiani nell'Italia post-unitaria, Firenze, Cesati 2013

Dove va il congiuntivo? Ovvero il congiuntivo da nove punti di vista, Torino, Utet 2013

Il linguaggio di Papa Francesco. Analisi, creatività e norme grammaticaliCittà del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana 2016

Maestri della linguistica otto-novecentesca, Alessandria, Edizioni dell'Orso 2017

Maestri della linguistica italiana, Alessandria, Edizioni dell'Orso 2017

Saggi di grammatica 'laica', Alessandria, Edizioni dell'Orso 2018

(As)saggi di grammatica 'laica', Alessandria, Edizioni dell'Orso 2018

Gli Errori ovvero le Verità nascoste, Palermo, CSFLS 2019

Dal Coronavirus al Covid-19. Storia di un lessico virale, Alessandria, Edizioni dell'Orso 2020

Saggi scelti di morfologia lessicale, Roma, Il Calamo 2021 [ma 2022]

Saggi di morfologia teorica e applicata, Roma, Il Calamo 2021 [ma 2022]

La lingua italiana del terzo millennio tra regole norme ed erroripres. di Claudio Marazzini, Torino, UTET, 2024

Il Papa è infallibile. Lo dice la grammaticapres. di Franco Coniglione, Firenze, Accademia della  Crusca 2025


sabato 8 novembre 2025

Quando la lingua parla di sé stessa: il potere nascosto del metalinguaggio

 


La metalingua, o metalinguaggio, è la capacità che ha una lingua di parlare di sé stessa. Il termine, “ibrido”, deriva dal greco metá (“oltre”, “al di là”) e dal latino lingua (“lingua, parola, linguaggio”): indica, dunque, un linguaggio che si colloca “al di sopra” o “oltre” il linguaggio comune, per descriverlo e spiegarlo.

In pratica, il metalinguaggio è l’uso delle parole non per comunicare contenuti, ma per chiarire come funzionano le parole medesime. Senza questa funzione non potremmo scrivere grammatichedizionari, manuali o insegnare una lingua, perché mancherebbero gli strumenti per spiegare regole e significati.

Pensiamo a una scena quotidiana: un bambino chiede “che vuol dire sale?”, e l’adulto risponde “è quella polvere bianca che usiamo per insaporire i cibi”. Qui non si sta usando la parola sale per chiedere di passare la saliera, ma per chiarire il significato della parola stessa. Questo è metalinguaggio.

La metalingua si manifesta in diversi ambiti. Nella grammatica, per esempio, quando un insegnante dice “amico è un sostantivo, indica una persona”, non sta parlando di un amico reale, ma sta classificando la parola. Nel vocabolario, quando leggiamo “albero: pianta con tronco legnoso”, il dizionario usa altre parole per spiegare il senso di albero. Nella comunicazione quotidiana, capita di dire “quando dico seriamente, intendo che non sto scherzando”: qui non si aggiunge un contenuto, ma si chiarisce come interpretare ciò che segue.

Un altro esempio comune, per meglio chiarire: quando tra amici qualcuno dice “hai scritto figo nel tema, ma è un termine colloquiale, meglio evitarlo in un compito scolastico”. In questo caso non si discute il contenuto della frase, ma il registro linguistico della parola usata. Oppure in famiglia: “non dire buongiorno la sera, si usa buonasera”. Qui si corregge l’uso di una formula di saluto, spiegando la regola che la governa.

La metalingua, insomma, è presente anche quando si chiarisce un senso figurato: “il verbo correre può significare anche ‘diffondere’, come in ‘far correre la voce’”. Non si sta correndo davvero, ma si spiega un uso particolare del sintagma (correre).

In sintesi, la metalingua è lo strumento che ci permette di riflettere sulla lingua, di renderla consapevole e di insegnarla. È ciò che ci consente di passare dall’uso spontaneo delle parole alla loro analisi, classificazione e spiegazione. Senza metalinguaggio potremmo solo parlare, ma non potremmo mai spiegare come e perché parliamo in un certo modo. La metalingua è il respiro riflessivo della lingua: la dimensione che ci permette non solo di parlare, ma di capire come e perché parliamo. È lo specchio che la lingua rivolge a sé stessa, rendendo visibili regole, significati e sfumature che altrimenti resterebbero implicite.

Ogni qual volta che – per concludere - definiamo una parola, correggiamo un uso, distinguiamo un registro o chiarifichiamo un senso figurato, stiamo esercitando questa funzione preziosa. Senza metalinguaggio la comunicazione sarebbe soltanto immediata e spontanea; con esso, diventa consapevole, analizzabile e trasmissibile. È ciò che ci consente di costruire grammatiche e dizionari, ma anche di educare, di interpretare testi, di affinare il pensiero. In fondo, la metalingua è la voce della lingua che parla di sé: un invito continuo a riflettere sul potere delle parole e sul modo in cui esse plasmano la nostra comprensione del mondo.

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Il segreto di due complementi (o espansioni)


C’
era una volta, nel Regno della Lingua, un grande Castello delle Parole. In quel castello vivevano due nobili complementi: il Complemento di Specificazione e il Complemento Partitivo. Condividevano la stessa dimora, ma avevano caratteri molto diversi. Gli studenti, quando si trovavano davanti a loro, spesso non riuscivano a distinguerli con chiarezza.

Il Complemento di Specificazione era un cavaliere elegante e preciso. Amava chiarire ogni cosa e non lasciava mai nulla nel vago. Quando qualcuno gli chiedeva “Di chi?” o “Di che cosa?”, rispondeva con fermezza, indicando appartenenza. Se un viandante mostrava una borsa, diceva: “Quella è la borsa di Maria, appartiene a lei!” Era come un custode che rendeva ogni parola più chiara e definita.

Il Complemento Partitivo, invece, era un viaggiatore curioso che amava muoversi tra i gruppi e le moltitudini. Non si accontentava di parlare di un singolo possesso (o di un argomento): voleva sempre mostrare la parte rispetto al tutto. Quando qualcuno gli chiedeva “Tra chi?” o “Tra che cosa?”, indicava l’insieme da cui si estraeva una parte. Se al banchetto del re arrivavano molti ospiti, diceva: “Molti degli invitati sono già qui: non tutti, ma una parte di loro!”. Se un poeta mostrava il suo quaderno, aggiungeva: “Ho letto alcune delle tue poesie: non tutte, ma solo una parte”. Era come un mercante che sceglieva gemme preziose da un grande scrigno, sempre attento a distinguere il particolare dal totale.

Un giorno, nel Castello delle Parole, scoppiò una piccola disputa: gli studenti confondevano spesso i due complementi e non sapevano a chi rivolgersi. Il Re della Lingua, allora, li convocò e chiese loro di spiegare la differenza. Il cavaliere della Specificazione disse: “Io vivo accanto ai nomi, agli aggettivi e ai verbi che hanno bisogno di essere chiariti. Rispondo a ‘Di chi?’ o ‘Di che cosa?’. Senza di me, le frasi resterebbero incomplete o poco precise”. Il viaggiatore del Partitivo replicò: “Io accompagno i pronomi e i numerali che indicano una parte. Rispondo a ‘Tra chi?’ o ‘Tra che cosa?’. Senza di me, non si capirebbe da quale insieme proviene quella parte”.

Il Re della Lingua sorrise e disse: “Ora è chiaro: siete entrambi indispensabili, ma diversi. Tu, Specificazione, sei come un pittore che aggiunge dettagli a un quadro già iniziato. Tu, Partitivo, sei come un giardiniere che coglie alcuni fiori da un grande prato. Non siete rivali, ma complementari”.

Da quel giorno, gli studenti impararono a riconoscere i due nobili complementi. Quando vedevano un nome che aveva bisogno di essere precisato, chiamavano il cavaliere della Specificazione. Quando invece incontravano un pronome o un numero che indicava solo una parte, si rivolgevano al viaggiatore del Partitivo. Così, nel Regno della Lingua, regnarono l’ordine e la chiarezza, e ogni frase divenne più bella e comprensibile.

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Nel Castello delle Parole, vivon due complementi in fiore:

Specificazione chiarisce il possesso,

Partitivo mostra soltanto un pezzo.

Di chi? Di che cosa?” chiede il primo,

Tra chi? Tra che cosa?” risponde il secondo.

Diversi ma amici, entrambi importanti,

rendon le frasi più belle e brillanti.

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La lingua "biforcuta" della stampa

Venerdì “nero” per i trasporti (e non solo) in Italia. Lo sciopero riguarderanno molti settori in diverse parti del nostro Paese

Avevano avuto anche il coraggio di chiamarla “Per Mano”, la casa degli orrori che è stata scoperta e grazie al cielo sgominata dai Carabinieri a Cuneo






















venerdì 7 novembre 2025

Il calore delle parole: viaggio tra temperamento e temperatura - Due parole sorelle, nate dallo stesso verbo, ma destinate a raccontare mondi diversi

 

Ci sono parole nella nostra lingua che, pur condividendo una radice comune, hanno preso strade diverse, come fratelli che crescono sotto lo stesso tetto ma sviluppano personalità distinte. “Temperamento” e “temperatura” appartengono a questa famiglia: entrambi i termini discendono dal latino temperare, verbo che significa “mescolare con misura”, “moderare”, “armonizzare”. Eppure, nel loro cammino, hanno acquisito accezioni e usi che si collocano in ambiti differenti: uno legato alla sfera umana e psicologica, l’altro al mondo fisico e naturale. Analizzare i due lessemi assieme permette di cogliere la sottile trama che unisce linguaggio, cultura e percezione del reale.

Il temperamento, nella sua accezione più diffusa, indica la disposizione naturale di una persona, il suo carattere di fondo, quella miscela di tratti che la rendono unica. Dire che qualcuno ha un temperamento “impetuoso” significa riconoscere in lui una tendenza alla passione e alla reazione immediata; parlare di un temperamento “flemmatico” rimanda invece a calma e lentezza. Il sintagma conserva l’idea originaria di “mescolare con misura”: il temperamento è infatti il risultato di un equilibrio, o squilibrio, tra diverse inclinazioni. Non a caso, nella tradizione medica antica, si parlava dei quattro temperamenti - sanguigno, collerico, malinconico e flemmatico - derivati dalla teoria degli umori di Ippocrate e Galeno. In quel contesto, il temperamento era inteso come la “temperatura interiore” dell’individuo, la proporzione di fluidi che determinava salute e comportamento. Ancora oggi, quando diciamo che un artista ha un temperamento “ardente”, stiamo evocando un fuoco interiore, una forza vitale che si manifesta nelle sue opere e nelle sue azioni.

La temperatura, invece, ha preso la via della misurazione oggettiva. È il grado di calore di un corpo, di un ambiente, di un liquido. Qui il senso di temperare si è tradotto nell’idea di “regolare” il calore, di stabilire un equilibrio tra caldo e freddo. Parlare di temperatura significa entrare nel dominio della fisica: 36,5 gradi è la temperatura corporea media di un individuo; 100 gradi è la temperatura di ebollizione dell’acqua a pressione atmosferica. Ma la parola in oggetto non si limita al linguaggio scientifico: nella vita quotidiana, dire che “la temperatura è salita” può riferirsi tanto al termometro quanto al “clima” di una discussione. In questo senso la temperatura diventa metafora, e si avvicina di nuovo al temperamento: una stanza “fredda” non è solo priva di calore fisico, ma anche di calore umano; una riunione “surriscaldata” non riguarda soltanto l’aria, ma anche gli animi.

La bellezza di questi due termini sta proprio nel loro dialogo implicito. Il temperamento descrive l’interno dell’uomo, la sua energia vitale, mentre la temperatura misura l’esterno, il mondo fisico. Eppure, quante volte li confondiamo o li sovrapponiamo? Un atleta che “ha un temperamento bollente” sembra quasi avere una temperatura corporea più alta; un ambiente “gelido” può raffreddare anche il temperamento delle persone che lo abitano. La lingua, in questo gioco di rimandi, ci ricorda che il confine tra fisico e psicologico non è mai netto: il calore e il freddo, il fuoco e il ghiaccio, sono immagini che attraversano tanto la scienza quanto la poesia (e la letteratura).

Temperamento e temperatura, insomma, sono figli dello stesso verbo, ma hanno scelto di raccontare storie diverse. Il primo parla dell’anima, della disposizione naturale, del modo in cui ciascuno di noi affronta la vita. Il secondo descrive il mondo tangibile, il calore che possiamo misurare e regolare. Ambedue, però, conservano l’eco di temperare: l’arte di trovare la giusta misura, di bilanciare forze opposte. E forse è proprio in questa radice comune che si nasconde la lezione più preziosa: che la vita, come il linguaggio, è sempre un gioco di equilibrio tra ciò che arde e ciò che raffredda, tra ciò che si sente dentro e ciò che si misura fuori.

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Nel regno della grammatica: la magia dei pronomi personali


V
iveva una volta, nel regno della Grammatica, un re potente e indaffarato: Re Verbo. Comandava tutte le azioni e gli stati d’animo, ma per parlare con rapidità e precisione si affidava a due cugini, pronomi personali, molto diversi: Tonico e Atono

Tonico era il cugino forte. Lo riconoscevi subito perché portava l’accento tonico: la sua voce spiccava nella frase e rimaneva sempre indipendente. Le sue forme erano me, te, lui, lei, noi, voi, loro, sé. Re Verbo lo chiamava quando bisognava sottolineare o fare un contrasto: “Marco guarda ME, non te!”, “Vengo con TE”, “Parlo di LUI”. Tonico poteva stare anche lontano dal verbo, spesso introdotto da una preposizione come a, di, con, per. Era l’ideale quando si voleva mettere un punto fermo su chi compie o subisce l’azione, senza ambiguità e con enfasi.

Atono era il cugino discreto. Non aveva accento tonico e si fondeva con il verbo, come se fossero una cosa sola. Le sue forme erano mi, ti, lo, la, gli, le, ci, vi, si, ne, li, le. Re Verbo lo chiamava per rendere la frase scorrevole e naturale: “Marco MI guarda”, “TI vedo”. Atono non stava mai da solo: prima del verbo quando questo è  un modo finito (indicativo, congiuntivo, condizionale) - “LO vedo”, “GLI parlo”, “CI crederesti?” - dopo il verbo quando questo è all’infinito, al gerundio o all’imperativo (quest’ultimo, però, “tecnicamente” è un modo finito) - “Voglio vederLO”, “ParlandoNE capirai”, “Dimmi la verità”, “PortaGLI il libro”.

Così, nel regno della Grammatica, la scelta era semplice: se c’era preposizione, enfasi o contrasto, Re Verbo chiamava Tonico; se la frase doveva filare liscia e il pronome far parte del verbo, chiamava Atono. Da qui nascevano frasi pulite e corrette. “Marco guarda MI” era sbagliato, perché Atono deve fondersi col verbo e occupare il posto giusto: “Marco MI guarda”. “Vengo con ti” era sbagliato, perché con la preposizione si usa Tonico: “Vengo con TE”. “Voglio vedere la” era sgraziato e scorretto: con Atono la frase diventa “LA voglio vedere” oppure “Voglio vederLA”.

Quando Re Verbo voleva togliere ogni dubbio, ricorreva a Tonico: “Ha scelto NOI, non loro”, “Parlo con TE, non con lui”. Quando invece l’obiettivo era la naturalezza, Atono faceva il suo lavoro senza rumore: “CI ha chiamati”, “GLI scrivo domani”, “NE parliamo più tardi”.

Grazie ai due cugini, ogni messaggio nel regno arrivava chiaro: Tonico dava risalto e precisione quando serviva mettere l’attenzione su qualcuno, Atono garantiva ritmo e fluidità legandosi al verbo nel punto esatto. E così, frase dopo frase, Re Verbo parlava con eleganza e senza esitazioni.

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La lingua “biforcuta” della stampa

Donna accoltellata confessa aggressore

Pil cresce meno del previsto, ma più del previsto

Incidente mortale, nessun ferito grave

La squadra vince ma perde

Il Gattopardo di Lucchini 







giovedì 6 novembre 2025

Il duello delle parole: Inerme contro Inerte


 Nel vasto regno delle parole, ogni termine custodiva un significato preciso, come un gioiello raro che non poteva essere confuso con un altro. Ma, tra i sudditi che vivevano ai margini dei sentieri del Bosco Linguistico, c’erano due cavalieri che da sempre gettavano scompiglio: Sir Inerme e Sir Inerte. Somigliavano nell’aspetto, entrambi figli del prefisso “In-”, eppure erano diversi come il giorno e la notte. Per porre fine a ogni equivoco, la Fata Scienza indisse il Grande Torneo della Definizione, sotto gli sguardi attenti del Saggio Re Vocabolario e della Regina Grammatica.

Il primo a farsi avanti fu Sir Inerme. Forte e vigile, con lo sguardo acceso e i muscoli pronti, ma privo di spada e scudo. Quando il Re gli chiese quale fosse il suo stato, egli rispose con fermezza: «Sono inerme. Ho vita, volontà e forza, ma non ho armi per difendermi». E davvero, quando il minaccioso Cavaliere Caduto lo affrontò, il cuore di Sir Inerme batteva forte, i suoi nervi erano tesi, ma non poté reagire: era vivo, ma vulnerabile. Così come un cerbiatto inerme davanti al lupo, un uomo inerme davanti a un aggressore, o persino un viaggiatore inerme davanti a una tempesta improvvisa.

Poi giunse Sir Inerte, trascinato da un plotone perché incapace di muoversi da solo. Pesante come una roccia, immobile come una statua, rispose con voce spenta: «Sono inerte. Non solo non ho armi, ma non ho neppure la forza di agire o reagire. Sono come un sasso, privo di vita e di energia». E quando il Cavaliere Caduto lo urtò, egli rimase immobile, senza paura, senza battito, senza volontà. Così come una roccia inerte sul sentiero, un gas inerte che non reagisce, o una mente inerte che non trova stimoli. Persino un vecchio orologio rotto, fermo da anni, poteva essere chiamato inerte.

La Regina Grammatica allora si alzò e proclamò: «Popolo del Bosco Linguistico, ricordate bene! Sir Inerme è vivo ma senza difese; Sir Inerte è immobile, privo di azione e spesso di vita. Un soldato disarmato è inerme. Un mattone sul pavimento è inerte. Non confondeteli più: Inerme riguarda la difesa, Inerte riguarda l’azione».

*

Inerme è il bimbo senza spada, che corre e vive ma non si difende a bada. 

È il cerbiatto davanti al lupo affamato, è l’uomo disarmato e spaventato.

Inerte è la pietra che resta a terra, non sente, non parla, non muove la guerra. 

È il mattone fermo, il gas che non reagisce, è la cosa che tace e mai si capisce.

Ricorda, amico, la regola è questa: inerme ha la vita, ma difesa non resta. 

Inerte non vive, non agisce, non fa, è fermo e passivo, e lì resterà.

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I reni e le reni, che differenza v'è?


D
opo i calcagni e le calcagna, vediamo un altro termine con due plurali: i reni e le reni. Entrambi sono corretti, ma non sono intercambiabili, perché corrispondono a due accezioni diverse che la lingua ha conservato nel tempo. “I reni” è il plurale maschile di uso anatomico e medico: indica gli organi pari dell’apparato urinario responsabili della filtrazione del sangue, della regolazione dei liquidi, degli elettroliti e dell’eliminazione delle scorie. In questa accezione si troverà quasi sempre il maschile: esami ai reni, insufficienza renale, trapianto di reni. “Le reni”, invece, è un plurale femminile oggi impiegato quasi esclusivamente in senso figurato o topografico, per indicare la regione lombare della schiena, i lombi, la “cintura” muscolare che sostiene il tronco. Da qui derivano molti usi vivi nel parlato: prendere un colpo alle reni, farsi raddrizzare le reni, sentire dolore alle reni dopo uno sforzo.

Questa doppia forma risale al latino renes, plurale indeclinabile che in italiano ha prodotto un sostantivo con oscillazione di genere. Storicamente, il femminile si è fissato nella dimensione fisica e popolare della schiena, mentre il maschile si è specializzato nella nomenclatura scientifica dell’organo. L’italiano, insomma, ha separato due campi semantici: quando parliamo del funzionamento dell’organismo usiamo “i reni”; quando parliamo della parte bassa della schiena e delle sensazioni che vi si avvertono ricorriamo a “le reni”. Questa distinzione è confermata dai dizionari normativi e dai corpora: la medicina, la biologia e la nefrologia adottano sistematicamente il maschile; la letteratura, i proverbi e la cronaca di costume conservano il femminile.





mercoledì 5 novembre 2025

"Mangiare pane e sterco": quando la lingua racconta la miseria con crudezza - Un’espressione popolare che affonda le radici nella tradizione contadina e rivela la potenza metaforica del linguaggio

 L’espressione “mangiare pane e sterco” appartiene al patrimonio linguistico popolare che, pur nella sua crudezza, riesce a condensare in poche parole un intero universo di significati. Non è un modo di dire comune nell’italiano corrente contemporaneo, ma affiora in proverbi, testi dialettali e racconti orali, dove la forza dell’immagine serve a rendere immediatamente percepibile la durezza di una condizione. Il pane, simbolo universale di nutrimento e sopravvivenza, viene accostato allo sterco, emblema di scarto, sporcizia e degrado. L’accostamento volutamente scioccante crea un contrasto che non lascia spazio a interpretazioni edulcorate: vivere di “pane e sterco” significa sopportare la miseria più nera, accettare umiliazioni pur di tirare avanti, o trovarsi costretti a condizioni indegne.

Sotto il profilo etimologico la locuzione si inserisce in una lunga tradizione di metafore alimentari che descrivono la sofferenza e la privazione. Già nel Medioevo e nel Rinascimento si trovano formule come “mangiare pane e fiele” o “pane e lacrime”, che richiamano dolore e sacrificio. “Pane e sterco” rappresenta una variante più popolare e brutale, nata probabilmente in contesti contadini, dove il linguaggio diretto e senza filtri era parte della quotidianità. Non si tratta dunque di un’invenzione isolata, ma di un’esasperazione di un modello linguistico consolidato: associare il pane, alimento base, a un elemento negativo per esprimere la durezza della vita.

L’uso dell’espressione, dunque, è sempre figurato e iperbolico. Non va mai inteso in senso letterale, ma come immagine di degrado o di sopportazione estrema. Si può trovare in frasi come: “Abbiamo mangiato pane e sterco per anni, ora ci meritiamo un po’ di pace”, oppure “Chi non reagisce finisce col mangiare pane e sterco tutta la vita”. In ambi i casi la forza dell’immagine serve a scuotere l’ascoltatore, a rendere tangibile la condizione di chi parla. È un linguaggio che non appartiene al registro formale, ma trova cittadinanza in contesti colloquiali, narrativi o letterari che vogliono restituire la voce del popolo.

Quanto ai riferimenti letterari, non si trovano attestazioni frequenti nell’italiano letterario canonico, ma espressioni simili compaiono in raccolte di proverbi e in testi dialettali, soprattutto meridionali, dove la concretezza del linguaggio contadino non temeva di ricorrere a immagini forti. In questo senso, “mangiare pane e sterco” si colloca accanto ad altre formule di sapore popolare che hanno fatto la storia della lingua, pur restando ai margini della norma colta.

 In definitiva, e concludiamo, questa espressione è un esempio di come la lingua sappia farsi veicolo di immagini potenti e disturbanti per raccontare la realtà della miseria e dell’umiliazione. Le parole del popolo, anche quando feriscono l’orecchio, custodiscono la verità nuda: la miseria non si racconta con eufemismi, ma con immagini che bruciano.


Scaricabile, gratuitamente, dal sito "Nuove Direzioni".



martedì 4 novembre 2025

Proletario: una parola che ha attraversato il mondo

 

Certe parole sembrano nate per restare confinate nei libri di storia, e invece trovano il modo di attraversare i secoli, cambiando pelle e significato. “Proletario” è una di queste. Oggi la associamo subito al lavoro salariato, alle fabbriche, alle lotte sociali. Ma la sua storia comincia molto prima, nella Roma antica, e parla di cittadini che non avevano nulla da offrire allo Stato se non la propria prole, i propri figli. Da latino proles (figli) nasce, infatti, proletarius: l’uomo senza terre né ricchezze, che “contava” esclusivamente per la sua capacità di generare nuove vite da dare alla Patria.

Con il trascorrere del tempo, il termine ha viaggiato, si è trasformato, ha trovato nuova linfa nel cuore della rivoluzione industriale. Nell’Ottocento, quando le città si riempivano di fumo e di macchine, “proletario” diventa sinonimo di chi non possiede altro che le proprie braccia. È in questo contesto che Marx ed Engels lo elevano a simbolo di una classe destinata a cambiare il mondo: il proletariato, contrapposto alla borghesia, chiamato a unirsi e a ribaltare i rapporti di potere.

Ma “proletario” non è rimasto solo nei manifesti politici. È entrato nel linguaggio quotidiano, a volte con orgoglio, altre con ironia. Si parla di “quartieri proletari” per designare le periferie popolari, di “gusti proletari” per indicare scelte semplici e senza fronzoli, persino di “stile proletario” per descrivere colui che, pur potendo permettersi di più, sceglie la sobrietà. È un sintagma che porta con sé un immaginario fatto di fatica, dignità e appartenenza collettiva.

Così, dalla Roma antica alle metropoli moderne, “proletario” ha continuato a raccontare la storia di chi non possiede molto, ma ha sempre avuto un ruolo decisivo nel plasmare la società. Una parola che, più che definire, narra: racconta di lavoro, di lotte, di speranze, e di quella forza silenziosa che nasce proprio da chi sembra avere meno.

Oggi, quando pronunciamo il lemma proletario, non evochiamo soltanto una condizione economica, ma un’eredità di dignità, di resistenza e di speranza. È la voce di chi, pur avendo poco, ha sempre contribuito a costruire molto: città, fabbriche, culture, comunità. Forse è proprio questo il segreto della sua forza: ricordarci che la storia non appartiene solo ai potenti, ma anche – e forse soprattutto - a chi l’ha scritta giorno dopo giorno con il proprio lavoro. E allora, ogni volta che ci imbattiamo in questa parola, possiamo leggerla come un invito a non dimenticare che dietro i grandi eventi ci sono sempre le vite semplici, quelle che, silenziosamente, hanno fatto girare il mondo.


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Mensa e refettorio, che differenza v’è?

Due parole che sembrano gemelle ma raccontano storie diverse: dalla tavola dei monaci al servizio al banco, un viaggio tra etimologia e quotidianità.


M
angiare insieme non è mai stato soltanto un atto di nutrizione: è un rito sociale, un momento di comunità che si riflette anche nei termini che adoperiamo per indicare i luoghi del pasto. Due lessemi che spesso vengono confusi, ma che hanno sfumature diverse, sono mensa e refettorio.

La mensa deriva dal latino mensa, che significava originariamente “tavola”. Nel tempo ha acquisito il senso più ampio di luogo e servizio destinato alla ristorazione collettiva. Oggi la usiamo per indicare la mensa aziendale, scolastica, universitaria o ospedaliera, cioè non solo lo spazio fisico ma anche l’organizzazione che fornisce i pasti. È un termine moderno, legato a contesti laici e pratici, che richiama l’idea di un servizio accessibile e funzionale.

Refettorio, invece, ha un’origine diversa: viene dal latino reficere, “ristorare, rifocillare”. Nella tradizione monastica era la sala in cui i religiosi consumavano i pasti in silenzio, spesso accompagnati dalla lettura di testi sacri. Ancora oggi il sintagma conserva questa aura storica e spirituale, e viene usato per indicare il locale destinato al pasto in scuole, conventi o comunità. A differenza di mensa, non designa il servizio di ristorazione, ma lo spazio fisico in cui ci si riunisce per mangiare.

I due vocaboli sebbene nel linguaggio comune possano sembrare intercambiabili, mensa e refettorio non lo sono del tutto: la prima evoca un servizio organizzato e moderno, il secondo un ambiente comunitario e spesso connotato da tradizione o religiosità. Due parole che raccontano, ciascuna a modo suo, il valore del pasto condiviso. 

 

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La lingua “biforcuta” della stampa

Sedicenne ucciso per sbaglio vicino Messina, l’omicidio confessa e tenta di scagionare il padre e il fratello

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Non ci stancheremo mai di "ricordare" agli operatori dell’informazione che la preposizione impropria ‘vicino’ si costruisce con la preposizione “a”: vicino a Messina, dunque. Quanto all’omicidio che confessa...



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