sabato 31 marzo 2018

Essere una mosca senza testa


Il modo di dire che avete appena letto - probabilmente sconosciuto ai piú perché non di uso corrente - si tira in ballo quando si vuol mettere in evidenza la "sconclusionaggine" di una persona perché agisce senza uno scopo preciso, senza una meta da raggiungere. L'espressione fa riferimento a una mosca che privata della testa si agita ancora per qualche minuto, con movimenti sconclusionati. Di qui, appunto, il modo di dire.

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La parola proposta da questo portale, ripresa dal GDU (De Mauro): idolopeia. Figura retorica con la quale l'autore fa parlare o agire un morto celebre o un fantasma.

venerdì 30 marzo 2018

Tendicollo e tendifilo: invariabili?


Sí, siamo pronti a schivare tutte le frecce avvelenate che ci arriveranno perché siamo consapevoli del fatto che quanto stiamo per scrivere susciterà - se ci leggeranno - «l'ira funesta» dei "grandi linguisti". Ma noi, convinti della bontà delle nostre idee, andiamo avanti per la nostra strada. Intendiamo parlare  di due sostantivi sulla cui invariabilità  dissentiamo totalmente dai linguisti: tendicollo e tendifilo. Il primo sostantivo indica quella sorta di stecchetta di plastica o altro materiale che si introduce in una apposita "tasca" nella parte interna del colletto delle camicie per renderlo rigido; il secondo indica quello strumento o macchina che serve per tenere tesi i fili durante una lavorazione. Ebbene, entrambi i termini sono ritenuti - dai linguisti e dai lessicografi - invariabili. A nostro avviso questa "invariabilità" grida vendetta agli occhi della grammatica italiana. Perché? Perché entrambi i sostantivi sono nomi composti di una voce verbale e di un sostantivo maschile singolare e in quanto tali si pluralizzano normalmente. Se da passaporto si ha passaporti, da grattacapo grattacapi, da parafango parafanghi, non si capisce per quale motivo "strategico-linguistico" non si possa avere tendicolli e tendifili. Quanto a tendifilo, in particolare, il DOP e lo Zingarelli sono gli unici dizionari che ammettono "anche" il plurale. Da parte nostra pluralizzeremo sempre i due sostantivi.

giovedì 29 marzo 2018

Partire la torta


Si presti attenzione all'uso corretto del verbo partire perché non è esclusivamente intransitivo e nei tempi composti coniugato con l'ausiliare essere: sono partito. È transitivo - e nei tempi composti richiede l'ausiliare avere -  quando vale "dividere in parti", "spartire", "suddividere", "separare una parte da un tutto": partire la torta a metà. In questo significato è preferibile coniugarlo nella forma incoativa inserendo l'infisso "-isc-" tra il tema e la desinenza (come finire): io spartisco, che io spartisca ecc. Si veda qui (l'ultimo paragrafo).

mercoledì 28 marzo 2018

Pillole di lingua


SU UN GIORNALE locale a distribuzione gratuita abbiamo letto che «le condizioni del paziente migliorano sempre piú». Ci sembra superfluo ricordare a coloro che amano la buona lingua che il verbo “migliorare” viene dal comparativo latino “melior” (migliore). Come è errato dire, quindi, “piú migliore” cosí è errato dire “migliorare sempre piú”. Il cronista del giornale avrebbe dovuto scrivere – per non cadere in questo strafalcione – che “le condizioni del paziente migliorano di giorno in giorno” o frasi simili.

È INTERESSANTE notare ciò che dice il linguista Luciano Satta circa l’uso del verbo “ripetere”: «Si legge spesso: “Il fatto ‘si è ripetuto’ per la seconda volta”. Bisogna pensarci bene: un fatto che ‘si ripete per la seconda volta’ è un fatto che accade per la terza volta. Se non è cosí, meglio usare verbi come ‘accadere’, ‘avvenire’ eccetera”». Chi ha il coraggio di contraddirlo?

IL VERBO CRESCERE è pari pari il latino "crescere" e ha due significati principali: "diventare piú grande" e "allevare", "educare" (un fanciullo). Giovanni è cresciuto, vale a dire "è diventato piú grande"; Mario è stato cresciuto (allevato, educato) con sani principii. In alcune parti d'Italia, nelle regioni settentrionali soprattutto, il verbo in oggetto viene adoperato con il significato di "essere di piú", "avanzare", "essere di troppo" e simili. È un uso, questo, improprio (per non dire errato) in quanto tradisce il "valore intrinseco" del verbo. Chi ama il bello scrivere non segua questi esempi.

AFFASCINARE: si presti molta attenzione alla pronuncia di questo verbo in quanto cambia di significato secondo l'accento. Nell'accezione di "attrarre", "conquistare", "attirare simpatia" e simili è un derivato del sostantivo "fascino"; l'indicativo presente, quindi, avrà l'accentazione sdrucciola (accento tonico sulla "a": io affàscino); nel significato di "raccogliere in fascine", "affastellare" ha origine dal sostantivo "fascina" l'indicativo presente avrà, dunque, l'accentazione piana (accento tonico sulla "i": io affascíno).

UN GIORNALINO locale titolava "Le sopracciglie finte dell'attrice". È un errore madornale, si dice le "sopracciglia". Questo termine è cosí detto sovrabbondante in quanto ha due plurali, uno maschile e uno femminile: i sopraccigli e le sopracciglia. Si userà il maschile se considerati uno per uno; il femminile se considerate nell'insieme.

È NECESSARIO sfatare una regola - inculcataci ai tempi della scuola - secondo la quale non è corretto adoperare "molto" davanti ai comparativi  "maggiore", "migliore", "minore" e simili. È una regola del tutto arbitraria e, quindi, da non seguire. "Molto" davanti ai comparativi assume valore avverbiale con il significato di "grandemente", "in grande misura". Si può benissimo dire, per esempio, il tuo libro è "molto migliore" del mio, vale a dire è "in grande misura meglio" del mio. Una prova del nove? Si può dire quel libro è "molto piú grande"? Sí. Piú grande non è un comparativo che equivale a "maggiore"?
Si attendono smentite…

sabato 24 marzo 2018

«Metterono»? Perché no?!


Scriviamo queste noterelle non prima di esserci "chiusi" dentro una sorta di corazza per respingere gli strali che ci arriveranno dai cosí detti linguisti d'assalto - se si imbatteranno in questo sito - che ci accuseranno di essere affetti da "codinismo linguistico". Perché? Perché intendiamo parlare del verbo "mettere" (e dei suoi composti: ammettere, commettere, dimettere, dismettere, frammettere, intromettere, promettere, rimettere, scommettere, spromettere) che  nella prima persona singolare, nella terza singolare e nella terza plurale del passato remoto del modo indicativo - e i sacri testi che abbiamo consultato non ne fanno menzione -  ha anche le desinenze "-ei", "-é" e "-erono": io mettei; egli metté; essi metterono. Queste forme, anzi, sarebbero quelle regolari perché rispecchiano la "regola" della formazione del passato remoto: alla radice (o tema) del verbo "mett(ere)" si aggiungono le desinenze: "-ei" ("-etti"); "-esti"; "-é" ("-ette");  "-emmo"; "-este"; "-erono" ("-ettero"). Quindi: io mettei; tu mettesti; egli metté; noi mettemmo; voi metteste; essi metterono. Insomma le forme "misi", "mise" e "misero" ritenute regolari sono, in realtà, irregolari. Oggi, certo, sono di uso corrente, però...

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La parola proposta da questo portale, ripresa dal Treccani: elentico. Aggettivo, "che si può confutare".

giovedì 22 marzo 2018

La medica? Non fa una piega





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Il titolo - di un giornale in rete - che avete appena letto grida vendetta "al cospetto della grammatica italiana". Come si può adoperare un aggettivo declinato al femminile (omofoba) riferito a un sostantivo maschile (medico)? Sarebbe come se dicessimo (e ciò è accaduto veramente, ahinoi!): il ministro Rosalinda è stata contestata. Che cosa fare, allora? Semplicissimo. Si fa il normale femminile di medico: medica. I sostantivi in "-o" formano il femminile mutando la desinenza maschile in quella femminile "-a". Da sarto non abbiamo il femminile sarta? Da notaio non abbiamo notaia? Perché, dunque, da medico non possiamo avere il normale femminile medica? Il femminile medica, inoltre, ha l' «imprimatur» dell'Accademia della Crusca.

mercoledì 21 marzo 2018

Terraferma e nocepesca: quale plurale?


Ecco altri due nomi composti il cui plurale è oggetto di "discordia" tra i vocabolaristi: terraferma e nocepesca. Consigliamo di seguire le norme grammaticali e di "snobbare" i vocabolari che non le rispettano, quindi, correttamente: terreferme e nocepesche. Il primo è composto di un sostantivo e di un aggettivo, e i nomi cosí formati al plurale mutano entrambi: cassaforte/casseforti; roccaforte/roccheforti; terraferma/terreferme. Il secondo, nella forma plurale, muta solo la desinenza del secondo elemento perché è composto di due sostantivi dello stesso genere: cassapanca/cassapanche; madreperla/madreperle; nocepesca/nocepesche. Entrambi i vocaboli si possono scrivere anche in grafia analitica (due parole), in questo caso - ci sembra ovvio - nella forma plurale si "comportano" normalmente. Per alcuni dizionari terraferma si usa solamente nella forma singolare...

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La parola proposta da questo portale: accapacciare. Verbo: avere (o far venire) il mal di testa. Si veda anche qui.

martedì 20 marzo 2018

Lettera aperta alla redazione Treccani


Cortese Redazione,  nella "Grammatica italiana" del vostro portale si legge - a proposito dei nomi propri di persona -: «[...] Alcuni nomi italiani sono soltanto maschili (LucaMatteoAndrea,
 Thomas) o soltanto femminili (MirellaElisaMarikaVeronica)[...]». Forse è il caso di apportarvi un emendamento in quanto il nome Andrea si può classificare tra quelli epiceni perché da qualche anno si può dare anche a una femmina, non essendo più,appunto, "appannaggio" dei soli maschi.

Cordialmente

FR

 (da: adnkronos.com del 5 / 2 / 2016)

«[... ] Cosa succede invece se si decide di dare a una bambina il nome di un bambino e viceversa? La legge lo vieta, anche se è possibile dare come secondo nome a un maschietto il nome Maria, come ad esempio Stefano Maria o Francesco Maria. L'unica eccezione di questa regola è il nome Andrea, che in molti Paesi va bene per entrambi i sessi. Tuttavia, sul caso in questione si è registrato un dibattito giurisprudenziale in passato, e nel 2012 la Cassazione ha ritenuto lecito chiamare Andrea una bambina, anche se i genitori non sono stranieri e non hanno dunque tradizioni da rispettare. Il nome Andrea per una bambina, secondo la Corte, non è né ridicolo, né lede la dignità della persona, né è ritenuto eccentrico [...]».

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La parola proposta da questo portale: zazzeato. Aggettivo che sta per "bighellonante".


lunedì 19 marzo 2018

Festa del papà




Auguri vivissimi ai papà e ai Giuseppe/i che seguono con assiduità le nostre noterelle sulla lingua italiana

domenica 18 marzo 2018

"La" monarca? E chi lo vieta?!


Anche se nell'uso prevale la forma maschile il sostantivo "monarca" si può 'femminilizzare' (la monarca, con il rispettivo plurale le monarche) essendo un nome cosí detto epiceno (ambigenere), come alcuni sostantivi in "-a": il pediatra / la pediatra; il pianista / la pianista; il giornalista / la giornalista; lo stilista / la stilista ecc. In proposito, però, buona parte dei vocabolari e tra questi il Devoto-Oli, il Treccani, il Palazzi,  lo Zingarelli, il Gabrielli, il Sabatini Coletti  e il DOP, attestano esclusivamente il maschile. Sono sia per il maschile sia per il femminile, invece, il De Mauro e il Garzanti. Anche se le opinioni dei vocabolaristi divergono e i "possibilisti" (maschile / femminile) sono in minoranza non si può certamente bollare di scorrettezza questo termine. Nessun "linguista d'assalto", dunque, potrà lanciare i suoi strali contro chi lo usa.

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La parola proposta da questo portale: daghesciare. Verbo che sta per "raddoppiare una o piú lettere" mentre si parla. Non è schiettamente di origine italiana.   

giovedì 15 marzo 2018

Perché "dormiveglia" non si pluralizza, al contrario di "compravendita"?


Cortese dott. Raso,
confido in lei per sciogliere una mia curiosità grammaticale. Dormiveglia e compravendita sono nomi composti formati entrambi con due voci verbali: perché il primo è invariabile nella forma plurale e il secondo, invece, si pluralizza normalmente? Complimenti vivissimi per il suo impegno in difesa della lingua italiana. La ringrazio in anticipo per l'eventuale risposta e la saluto cordialmente.
Adriana F.
Biella

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Gentile Adriana, i due termini (dormiveglia e compravendita) non hanno la medesima composizione e ciò determina la "disparità" della forma plurale. Dormiveglia è composto di due verbi (dormire e vegliare) e i sostantivi cosí formati - secondo le norme grammaticali - restano invariati: il dormiveglia / i dormiveglia. Fino a qualche decennio fa questo sostantivo era ritenuto anche di genere femminile (qualche vocabolario lo attesta ancora) con il plurale dormiveglie*. Tale femminile, però, oggi risulterebbe un po' affettato. Compravendita, invece, è costituito di due sostantivi dello stesso genere (comp(e)ra e vendita) e i nomi cosí composti formano il plurale mutando la desinenza del secondo elemento: la compravendita / le compravendite. C'è anche un altro plurale, di uso raro ma non ritenuto errato: comprevendite. Chi lo adopera non può essere tacciato di ignoranza.

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* Si veda qui.

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La "lingua" della stampa

Roma, si alza il livello del Tevere: studenti messi in salvo sull'isola Tiberina
Il gruppo è stato soccorso dalla polizia fluviale sulla banchina sottostante il ponte Fabricio
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È il caso di "ricordare" ai titolisti che l'aggettivo "sottostante", con valore verbale, regge la preposizione "a" (al). Correttamente, quindi, "sottostante al ponte Fabricio".

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La parola proposta da questo portale: procòndilo. Nome con il quale si indica l'ultima falange delle dita. Si veda anche qui.

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Strafalcioni linguistici in rete: consensiente.


lunedì 12 marzo 2018

Avere dei "quattrini gigliati"


Pregiatissimo dott. Raso,
nel suo istruttivo e impareggiabile blog tratta anche dei modi di dire. Mentre lo navigavo mi  è venuta alla mente un'espressione che diceva sempre mio nonno paterno: non sono in possesso di quattrini gigliati. Non ho mai capito il significato (esatto) e l'origine della locuzione; le sarei veramente grato, quindi, se potesse spendere due parole in proposito. Grazie in anticipo se la mia richiesta avrà la sua attenzione.
Cordialmente.
Ivano A.
Fermo

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Cortese Ivano, l'espressione da lei citata è desueta. Si diceva di avere dei quattrini gigliati, cioè sicuri, quando si poteva fare un buon investimento. L'espressione faceva riferimento alle  monete francesi e fiorentine, che riportavano l'emblema del giglio, ritenute solide e sicure.

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La parola proposta da questo portale: acquacchiarsi. Verbo pronominale: abbattersi, avvilirsi, perdersi d'animo.

domenica 11 marzo 2018

Roboante? "Piú corretto" reboante

                   

Il vocabolario Gabrielli in rete e il "Si dice o non si dice?" (dello stesso Gabrielli, ci sembra, ma probabilmente ritoccato dai suoi revisionisti) non concordano sulla grafia (e, quindi, sulla dizione) dell'aggettivo "reboante". Il vocabolario condanna, senza mezzi  termini, la grafia (anche se in uso) roboante.  Il "Si dice o non si dice?", invece, la "promuove". Che fare? Seguiamo le indicazioni del vocabolario: reboante (anche per una ragione etimologica, non esistendo il prefisso ro-). Ecco il vocabolario: reboante
[re-bo-àn-te] err. roboante. agg. (pl. -ti) . 1 Rimbombante: suono, voce r.
CONT. sommesso. 2 fig., spreg. Altisonante, retorico, sonoro ma di poca sostanza: oratoria, prosa r. Ed ecco il "Si dice o non si dice?":
Noi diciamo roboante, e non ci piove. Sicuri del nostro buon italiano, consideriamo chi usa reboante prigioniero di un italiano dialettale. E invece ha ragione lui. L’aggettivo deriva dal latino reboansreboantis, participio presente di reboare, rimbombare, verbo composto del prefisso intensivo re- e di boare, risonare, echeggiare (da cui anche il nostro boato). Poiché un prefisso intensivo ro- non esiste nella nostra lingua, sembra inspiegabile la nascita di roboante e la sua vittoria su reboante (tutt’al più avrebbe potuto nascere ri-boante). Eppure è andata così. È la dimostrazione del fatto che la lingua non nasce sul tavolo dei grammatici ma in mezzo alla vita, a volte anche da inspiegabili incidenti. Ma se una spiegazione proprio vogliamo trovarla, ebbene diciamo che roboante è onomatopeico: quelle due o appesantiscono la parola, rendendo l’effetto di un maggior frastuono.
·         Quest’ultima osservazione è convincente: teniamoci roboante. Ma nessuno potrà impedirci di fare i fighi (vedi giovani: una lingua “esagerata”) con reboante.


sabato 10 marzo 2018

Aula magna: quale plurale?


Cortese dr Raso,

  mi sono imbattuto sul suo sito per caso, trovo le sue “noterelle” sul buon uso della lingua italiana veramente interessanti: lo visiterò spesso. Approfitto della sua squisita disponibilità per chiederle di sciogliermi un dubbio che mi assilla da tempo: qual è il plurale della parola composta  “aula magna”? Ho consultato numerosi vocabolari ma non ho trovato una risposta. Lei è la mia ultima speranza. Grazie in anticipo se vorrà accontentarmi.

  Cordialmente

  Stefano G.

Pordenone

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Gentile Stefano, la risposta è semplicissima: aule magne. Non si tratta di una parola composta, ma di un sostantivo (aula) e di un aggettivo (magna) “indipendenti” e nella forma plurale mutano entrambi. Probabilmente lo ha portato “fuori strada” l’aggettivo ‘magna’ che, come sa, significa “grande”. Il plurale di “aula grande” non è ‘aule grandi’? Da aula magna (grande) abbiamo, per tanto, il normalissimo plurale  “aule magne”.



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La parola proposta da questo portale e ripresa dal vocabolario De Mauro: eccecazione. Sostantivo femminile, sinonimo di accecamento. In senso figurato "improvvisa cecità di mente". Si veda anche qui.



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Per la serie la "lingua biforcuta" della stampa



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La forma corretta è "neodeputati". Quando leggeremo anche "neo-nati"? Vediamo come si costruisce "neo" dando la "parola" al vocabolario Treccani: nèo- [dal gr. νεο-, forma che assume in composizione l’agg. νες «nuovo, recente»]. – 1.Primo elemento di parole composte, derivate dal greco o formate modernamente (anche nella terminologia lat. scient.), nelle quali ha il sign. di «nuovo, moderno, recente». In partic.: a. Con riferimento a persona che si trovi da poco tempo in una determinata situazione: neonatoneofitaneoeletto (e analogam. neodottoreneosenatore e altri, che non si è ritenuto necessario, per la loro stessa trasparenza, registrare nel rispettivo luogo alfabetico) [...]. 
Il titolo della pagina interna è cambiato e corretto.




venerdì 9 marzo 2018

La doppia funzione di "retro": prefisso e sostantivo

Pregiatissimo Direttore del portale,  non ricordo se le ho già scritto, nel caso presento le mie "scuse preventive" per la ripetizione.
La  mia amica Preposizione mi ha detto della sua squisita disponibilità ad accogliere lettere aperte destinate agli amanti del bel parlare e del bello scrivere. Certo, quindi, di non rimanere deluso chiedo anch’io un po’ di spazio. Questo Paese, egregio Direttore — come lei mi insegna — si dice democratico e in una democrazia — sempre come lei mi insegna — ciascuno può esprimere liberamente le proprie idee. Ho fatto questa premessa in quanto sono sicurissimo del fatto che quanto sto per esternare farà storcere la bocca ai numerosissimi soloni della lingua. Ma io, con il suo permesso, me ne infischio, vado avanti e vengo al dunque.
Sono il prefisso Retro e come specifica chiaramente il mio stesso nome, e come riportano alcuni vocabolari, servo per la formazione di parole composte derivate dal latino o formate modernamente per indicare un movimento all’indietro o una posizione arretrata, in senso temporale o spaziale, rispetto a un altro oggetto o fatto rappresentato dall’elemento al quale sono prefissato come, per esempio, in retrocedere, retroguardia, retroattivo, retromarcia.
Mi sembra superfluo specificare, inoltre, che i miei natali sono nobili discendendo dall’avverbio latino
retro (all’indietro, di dietro, dietro). E qui, purtroppo, nascono i problemi sulla mia... sessualità. Non amo essere un transessuale; una volta sono di sesso maschile, una volta di sesso femminile secondo la "capocchia" di chi mi adopera. Il mio sesso, vale a dire il mio genere, deve essere lo stesso di quello del termine al quale sono prefissato. Diremo, per tanto, la retrobottega non il retrobottega perché bottega è, appunto, di genere femminile. Coloro che dicono il retrobottega dovrebbero, per coerenza, dire anche il retromarcia o il retroguardia. Non vi pare? Così non è, però; allora perché questa discriminazione? Volendo trovare a tutti i costi una giustificazione si potrebbe ipotizzare il fatto che molti — senza saperlo — dicono il retrobottega per analogia con il locale: il vano dietro la bottega; o anche per effetto della sua abbreviazione, il retro, il cui uso — discutibilissimo — è estremamente comune. Retro, adoperato assoluto, cioè da solo, perde il valore di prefisso (io, infatti, non mi riconosco in lui) e diventa un sostantivo che sta per deretano.
C’è da dire, però — per amore della verità — che da solo Retro ha anche un significato più nobile: si adopera, infatti, in numismatica per indicare la faccia di una medaglia ma anche per indicare il dietro di un foglio. Tornando al mio uso corretto — cioè al prefisso — adoperatemi, quindi, secondo logica. Se sono prefissato a un nome maschile usate l’articolo maschile, se sono prefissato a un sostantivo femminile adoperate l’articolo femminile: il retroaltare; la retrobottega.
Ho notato, in proposito, che alcuni vocabolari per certe parole sono salomonici, per altre, invece, sono categorici. Mi spiego. Prendiamo il termine retroscena. Per alcuni dizionari il vocabolo è salomonicamente bisessuale o, se preferite, ermafrodito: il retroscena e la retroscena. Retrobocca, invece, categoricamente maschile. La bocca, fino a prova contraria, è di genere femminile. Se questo termine composto (retrobocca) non si vuole classificare di genere femminile lo si faccia, per lo meno, bisessuale: il retrobocca e la retrobocca. Perché due pesi e due misure?
Cosa ha da dire, in proposito, la Crusca? Approva questa aberrante discriminazione? Non attendo, certo, una risposta; però... non si sa mai. Tornando al o alla retroscena, non approvo affatto i distinguo che fanno certi vocabolari per giustificare la bisessualità del termine: femminile se indica la parte del palcoscenico che rimane invisibile agli spettatori; maschile, invece, per indicare ciò che accade dietro la scena e soprattutto, in senso figurato, l’insieme dei maneggi occulti che si nascondono dietro un affare.
Io, amici, ribadisco il fatto che desidero avere lo stesso sesso del sostantivo cui sono prefissato: la retrobottega. Grazie dell’attenzione e un caro saluto a tutti.
Il vostro amico
Prefisso Retro

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Gli operatori dell'informazione continuano, imperterriti, a ignorare le "disposizioni linguistiche" dell'Accademia della Crusca (e dei vocabolari).

Roma, la vigilessa: "Così ho inseguito e bloccato il pirata della strada"

Il femminile "raccomandato" è "la vigile", come la preside, la giudice, la presidente ecc. In proposito è interessante la "Nota d'uso" di Sapere.it: (De Agostini): Il nome vigile, secondo le normali regole della lingua italiana, è maschile o femminile secondo se si riferisce a uomo o a donna: il vigilela vigile. È in uso anche vigilessa, che però può avere anche tono scherzoso o valore spregiativo, come tradizionalmente hanno avuto diversi femminili in -essa. Alcuni poi preferiscono utilizzare il nome vigile al maschile anche per una donna. Si tratta di una scelta che non ha basi linguistiche, ma sociologiche, e che comunque può creare, nel discorso, qualche problema per le concordanze. Il vigile urbano può avere nomi diversi a livello regionale: per esempio ghisa a Milano (per allusione scherzosa al cappello alto e rigido della divisa tradizionale), civico in alcune regioni dell’Italia settentrionale e pizzardone a Roma. Si tratta però di denominazioni antiquate, sempre meno usate se non quando si vuol fare del “colore locale”.






mercoledì 7 marzo 2018

Locuzioni preposizionali "a rischio errore"


La norma grammaticale stabilisce che le locuzioni preposizionali di fianco; di fronte; dinanzi; dirimpetto; in base; in merito; riguardo; rispetto; vicino devono essere "legate" alla preposizione "a". Chi non rispetta la norma, omettendo la "a", commette un errore da sottolineare con la fatidica matita blu. Questo strafalcione si trova - molto spesso - nei giornali, nei libri, nei testi burocratici e in quelli parlamentari. Luigi Spagnolo, docente di linguistica italiana presso l'università per stranieri di Siena, ha "esaminato", nell'anno solare 2017, alcuni giornali, libri (fra il 2010 e il 2017) scritti parlamentari e burocratici riscontrando, per l'appunto, l'errore di cui sopra. Il risultato dell'«esame» si può leggere nel sito della Treccani.

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La parola proposta da questo portale: àschero. Sostantivo maschile: vivo dolore (dell'animo), ma anche ribrezzo.

lunedì 5 marzo 2018

Guardaroba: sostantivo "ermafrodito"?


A volte capita di essere indecisi sul "sesso" del sostantivo guardaroba: il guardaroba o la guardaroba? I vocabolari che abbiamo consultato - a nostro avviso - non sono di grande aiuto perché danno "versioni" diverse. Per il Devoto-Oli, il Gabrielli e lo Zingarelli il sostantivo in questione è prevalentemente maschile (rara  la forma femminile); per il Palazzi è tassativamente femminile; il De Mauro e il Treccani lo classificano ambigenere; per il Sabatini Coletti, infine, è solo maschile. Come regolarsi? 

Noi seguiamo le indicazioni che dà il linguista Aldo Gabrielli nel suo “Dizionario Linguistico Moderno”. “(Guardaroba) nel significato di stanza o armadio dove si conservano vestiti, biancheria, ecc., è sempre femminile: la guardaroba; plurale le guardarobe. Dicesi anche guardaroba la persona addetta alla custodia di quella stanza o di quell’armadio; invariabile nel genere (il guardaroba, la guardaroba), nel plurale fa i guardaroba (un tempo, ma non piú dell’uso, anche i guardarobi) e le guardarobe (...)”.

domenica 4 marzo 2018

Patriotta o patriota?


Si può trovare la risposta leggendo quanto scrive sull'argomento Giuseppe Patota (Accademia della Crusca).

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Un altro orrore dei “ritoccatori” del vocabolario di Aldo Gabrielli in rete. Secondo costoro “talaltro” si può apostrofare: tal’altro. Speriamo che il Maestro non si accorga di questo strafalcione: si rivolterà nella tomba. Vediamo, dunque, con il copincolla il Gabrielli in rete:
 talaltro [ta-làl-tro] o tal'altro - pron. indef.
Qualche altro (in correlazione con talùno e con talvòlta): taluno gridava, t. taceva; talvolta inganna il tempo giocando, talaltra leggendo.
L’illustre glottologo, nel suo “Dizionario Linguistico Moderno” scrive, invece: «… non richiede mai l’apostrofo davanti a parola che comincia con vocale: tal altro, tal amore, tal ira ….» E conclude, proprio, condannando tal altro con l’apostrofo: «… errore è quindi scrivere, come invece spesso si vede, tal’altro, tal’amore, tal’e quale ecc.».

sabato 3 marzo 2018

Starnuto o starnutisco?


Cortese dr Raso,

 vorrei sottoporre alla sua benevola attenzione due quesiti. 1) si dice io “starnuto” o “starnutisco”? Un collega d’ufficio mi ha censurato “io starnuto” sostenendo che la forma corretta è “starnutisco”; 2) perché si dice che appoggiare il cappello sul letto porta male? Donde deriva questa superstizione?

Grazie in anticipo se avrò una risposta e complimenti per il suo impareggiabile sito.

Paolo P.

 Lucca

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Gentile amico, entrambe le forme sono corrette: “starnuto” da starnutare e “starnutisco”, coniugato con l’infisso “-isc-“, da starnutire. Alcuni linguisti sostengono, però, che sarebbe “più corretta” la forma ‘starnutare’ essendo  il latino 'sternutare'. Con il tempo sono nate anche le varianti – sconsigliate recisamente –  ‘sternutare’ e  ‘sternutire’. Quanto al  “cappello sul letto” la superstizione è nata dal fatto che nei tempi andati i sacerdoti che si recavano a portare l’Eucarestia ai moribondi poggiavano il cappello sul letto del...  “trapassando”. Di qui, per l’appunto, è nata la credenza popolare.


venerdì 2 marzo 2018

Ambigenere o epiceno?

Nella rubrica "Scritto e parlato" del sito della Treccani una lettrice contestava "la giudice"  a lemma nel vocabolario in rete. Nella risposta si diceva che "la giudice" è forma grammaticalmente legittima perché è un sostantivo classificato nella categoria dei  nomi epiceni (nomi ambigenere). La risposta è ineccepibile. Abbiamo rilevato, però, una "diversità di vedute" tra l'estensore della risposta e il vocabolario Treccani in rete circa il significato di epiceno. Ecco la risposta: «[...] Dal momento che giudice termina in -e, è assegnabile alla categoria dei nomi epiceni: possiamo distinguere fra il giudice e la giudice, come facciamo per preside e presidente. Mentre la preside è d’uso corrente e la presidente ha registrato un’importante ascesa in tempi recenti [...]». Secondo il vocabolario Treccani sono nomi epiceni, invece, solo quelli che si riferiscono agli animali: «epicèno agg. e s. m. [dal lat. epicoenum (genus), gr. ἐπίκοινον (γένος) «(genere) comune», comp. di ἐπί e κοινός «comune»]. – In grammatica, sinon. raro di promiscuo, riferito a nomi (o al genere di nomi) di animali che non distinguono il maschio e la femmina (come tigre, gorilla, pantera, coccodrillo, ecc.)». Stando al Treccani, dunque, "la giudice" non sarebbe un nome epiceno perché si tratta di un essere umano e non di un animale. Ma non è cosí, appunto, perché epiceno essendo sinonimo di ambigenere è riferibile tanto agli uomini  quanto agli animali. Non sarebbe il caso che il predetto vocabolario emendasse il lemma in oggetto e riportasse ciò che dice, per esempio, il vocabolario De Mauro, che non fa distinzione alcuna tra gli esseri umani e gli animali?