martedì 27 febbraio 2024

L' Accademia della Crusca bacchetta l'Università di Bologna

 


Il motivo della 'bacchettata' si può leggere qui.



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La lingua "biforcuta" della stampa

LA PROTESTA

Bruxelles assediata tra i trattori, le strade invase di segatura

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Correttamente: fra i trattori (per evitare l'incontro di due "t") e invase da segatura. Si veda qui al punto 2. b.

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La crudele fine di Jayne Mansfield, l'attrice che sarebbe potuta essere un'altra Marilyn

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Correttamente: avrebbe potuto essere. Quando il verbo modale (o servile o famulatorio) è seguito dal verbo essere l'ausiliare da usare è "avere": ha voluto essere l'ultimo ad abbandonare il luogo del disastro.


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(...) E a superato Milano diventata troppo cara.(...).

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Refuso o ignoranza la mancanza dell' h (ha)? Propendiamo, decisamente, per la seconda ipotesi.


lunedì 26 febbraio 2024

La parroca e la vescova

 


Se in futuro la Chiesa cattolica ammetterà nei suoi "ruoli" il così detto gentil sesso per i linguisti e i lessicografi si porrà il problema  della femminilizzazione delle varie funzioni, finora riservate agli uomini. Sicuramente il suffisso "-essa" la farà da padrone: prete/pretessa; presbitero/presbiteressa; parroco/parrochessa; vescovo/vescovessa ecc. Per chi scrive, invece, il problema non si presenterà (non si dovrebbe presentare) se si seguiranno le norme sulla formazione del femminile. I sostantivi maschili in "-o" nella forma femminile mutano la desinenza "-o" in "-a" (sarto/sarta; cuoco/cuoca); i sostantivi maschili in "-e" (attenzione non in "-iere", tipo consigliere) nel femminile restano invariati (cambia solo l'articolo): il preside/la preside. Seguendo questa legge grammaticale, avremo, correttamente: il prete/la prete; il parroco/la parroca; il presbitero/la presbitera; il vescovo/la vescova; il prevosto/la prevosta. E sempre secondo questa regola una donna nominata cardinale sarà una... cardinale. Parroca, vescova ecc. "suonano" male? Basta farci l'orecchio. Linguisti "d'assalto" siamo pronti...

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Rendere conto – locuzione verbale che si costruisce con la preposizione di non con la congiunzione che: mi rendo conto di avere esagerato, non che ho esagerato. Quando non è possibile questa costruzione per motivi  “fonici” si ricorre/a all’espressione “rendersi conto del fatto che”: mi rendo conto del fatto che la situazione è complessa.

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Da un quotidiano in rete

Non avevano rimosso, a conclusione dell’intervento, un ritaglio di tessuto di tre centimetri che la piccola, in una crisi respiratoria, che per poco non l'ha uccisa, ha vomitato dalla bocca una settimana dopo essere finita sotto i ferri.

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Sarebbe interessante sapere -- dai "massinformisti" --  se si può vomitare anche da un'altra apertura naturale (oltre che dalla bocca).



(Le immagini sono riprese dalla Rete, di dominio pubblico, quindi. Se víolano i diritti d'autore scrivetemi; saranno prontamente rimosse: faraso1@outlook.it)


sabato 24 febbraio 2024

Il Treccani scancella (sic!) alcuni neologismi

 


I
l prestigioso vocabolario Treccani ha scancellato (sic!) i neologismi  che non sono stati cristallizzati dall'/nell' uso. Qui.

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La lingua "biforcuta" della stampa

IL CASO

Naufragio di Cutro, un anno dopo riconosciuta la più piccola delle vittime. Il governo diserta le commemorazioni

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Siamo rimasti scioccati nel leggere che la ridente cittadina calabrese sia naufragata. Naufragare.



(Le immagini sono riprese dalla Rete, di dominio pubblico, quindi. Se víolano i diritti d'autore scrivetemi; saranno prontamente rimosse: faraso1@outlook.it)

mercoledì 21 febbraio 2024

Come si va "a capo"

 


Alcuni lettori ci hanno posto il problema  dell' "a capo". Come si fa ad andare "a capo" senza tema di sbagliare? "Giriamo" il quesito a Si dice o non si dice? (Hoepli Editore).

Quante volte ci mettiamo le mani nei capelli perché dobbiamo andare a capo e non sappiamo come! Il problema è quello della divisione delle parole in sillabe, che i programmi di scrittura dei computer non sempre azzeccano. Le regole dell’a capo, cioè della divisione in sillabe, dobbiamo conoscerle bene, non fidiamoci del computer o ci troveremo a compiere strafalcioni come quelli che incontriamo ogni tanto sui giornali. Si tratta di capire e di applicare cinque regole chiare e pratiche. Eccole.

Prima regola: quando una parola comincia per vocale seguíta da consonante semplice, la vocale fa sillaba a sé: a-moree-remoi-solao-noreu-manesimo.

Seconda regola: le consonanti semplici fanno sillaba con la vocale che le segue; dunque, tornando agli esempi precedenti: a-mo-ree-re-moi-so-lao-no-reu-ma-ne-si-mo. Altri esempi: se-re-nove-lo-ci-pe-deta-vo-li-no.

Terza regola: le consonanti doppie si dividono a metà: una va nella sillaba che precede, l’altra nella sillaba che segue: mot-tet-toboz-zel-loaz-zur-roel-la.

Quarta regola, è la più complicata e riguarda i gruppi di consonanti diverse, come brtrdrsprczgm eccetera. Come si dividono? Dobbiamo distinguere due casi.

Caso a)

Sono quei gruppi di due o tre consonanti diverse che potremmo trovare sia nel corpo che all’inizio di una parola. Per esempio, il gruppo br lo troviamo sia nel corpo di parola (Abramo, imbrunire) che all’inizio (bravo, bruma). Questi gruppi di consonanti si uniscono tutti alla vocale che segue. Vediamoli in pratica. Gruppo br: bra-vobre-veA-bra-moim-bru-ni-re; gruppo tr: tra-vetro-noa-tro-ce; gruppo str: stra-nostro-febi-stro; gruppo spr: spro-nespruz-zove-spro; gruppo cr: cro-cecri-sia-cro-sti-co; gruppo ststa-tostu-fore-sta-re; gruppo sfsfe-rasfa-scia-resod-di-sfa-re; gruppo dr: dro-me-da-riodru-pala-dro.

Caso b)

Sono quei gruppi di due o tre consonanti che nella nostra lingua non vengono mai a trovarsi in principio di parola, come lmcntmptczcqgmntrtlcmttrltrntrmplbdcmgnmscrxpzmnlmdmztct. In questi casi la prima consonante va con la vocale della sillaba che precede, l’altra o le altre consonanti con la vocale della sillaba che segue: el-motec-ni-coa-rit-me-ti-ca crip-taec-ze-maac-quaseg-men-toan-ti-por-taAlc-ma-nespet-troal-tro con-tra-stoe-sem-pla-resub-do-loac-meWag-nerGram-scimar-xi-staop-zio-neam-ne-siacal-moaz-te-cooc-to-pla-sma eccetera.

Quinta regola: riguarda i gruppi di vocali, che si distinguono in dittonghi e iati. I dittonghi sono quei gruppi di vocali che vanno pronunciate con una sola emissione di fiato, dunque formano insieme una sola sillaba: per esempio la au di pau-sa, la io di pio-ve, la ie di ie-ri. Gli iati sono invece quei gruppi di vocali che suonano separatamente, quindi formano due sillabe separate: la au di pa-u-ra, la io di pi-o-lo, la ui di be-du-i-no. E così abbiamo visto anche l’ultima delle regole che presiedono alla divisione in sillabe: le vocali di un dittongo restano unite, quelle di uno iato si separano.

Un consiglio: se non abbiamo sufficiente dimestichezza con dittonghi e iati, cosa più che legittima, atteniamoci a questa regola prudenziale: non andiamo mai a capo con una vocale.

Il discorso su sillabe e a capi potrebbe anche bastare ma... c’è sempre qualcuno che ama complicarci la vita. In questo caso sono certi grammatici che hanno posto il problema dei prefissi. Dicono: “Lasciate integri i prefissi e dividete in sillabe il resto della parola”. Per esempio: ben-ar-ri-va-tomal-au-gu-rioin-a-bi-ledis-di-recis-al-pi-notras-por-totrans-a-tlan-ti-co e simili. Perché creare questa complicazione inutile, che può portare a errori disastrosi? Non tutti sanno distinguere un prefisso al volo. E poi, il prefisso non è un elemento a sé, è entrato a far parte integrante della parola e non si capisce perché non debba seguire, con il resto della stessa, le normali regole della divisone sillabica. Dunque, be-nar-ri-va-to, ma-lau-gu-rioi-na-bi-ledi-sdi-reci-sal-pi-notra-spor-totran-sa-tlan-tico.

E buon “a capo” a tutti.


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Che prandipeta!

Prandipeta! Chi è costui?, parafrasando il Manzoni. È la persona che, per professione, scrocca i pranzi e le cene. L'origine è chiara, il latino prandium (pranzo) e il verbo petere (chiedere).
Il vocabolo non è attestato nei vocabolari dell'uso, tuttavia si può "vedere" cliccando qui.


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La lingua "biforcuta" della stampa

In questo Borgo del piacentino c'è uno dei Castelli più belli D'Italia

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Questa frase contiene tre errori. Piacentino ha la "p" minuscola, castelli e la preposizione "di" (d'Italia) con la maiuscola. Rettifichiamo, gli errori sono quattro: la "b" maiuscola di borgo. Ai "massinformisti" consigliamo un'attenta lettura sul corretto uso delle maiuscole.


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GLI IMMOBILI

Berlusconi e le mega ville: da Roma al lago Maggiore, ecco come i figli se le stanno spartendo

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Correttamente: megaville. I prefissi e i prefissoidi si scrivono uniti alla parola che segue. Mega, da solo, non ha alcun significato. Anzi, lo ha, ma è l'accorciamento del termine informatico megabyte.



(Le immagini sono riprese dalla Rete, di dominio pubblico, quindi. Se víolano i diritti d'autore scrivetemi; saranno prontamente rimosse: faraso1@outlook.it)

 

lunedì 19 febbraio 2024

Compilota

 


E se tutti cominciassimo a scrivere e dire "compilota"? Proprio non capiamo il motivo per cui si deve/deva dire "copilota". Ci sembra una vera anomalia della lingua italiana che, a nostro avviso, andrebbe "raddrizzata". E i "raddrizzatori" dovrebbero essere i linguisti e i vocabolaristi. Non capiamo, insistiamo, perché 'comprimario', 'compaesano', 'compatriota', 'compensare', 'compiacere', 'comprimere', 'comparare', tutti lessemi composti con il confisso "con-" (che si tramuta in "com-" davanti a parole che cominciano con la consonante "p") sono ritenuti termini corretti e "compilota" no. Viene considerato corretto solo "copilota" che, secondo chi scrive, è invece errato perché non ottempera alla legge grammaticale del prefisso "con-". Scriviamo tutti, dunque, compilota, così facendo 'costringeremo' i linguisti, ma soprattutto i compilatori dei vocabolari a lemmatizzare il lessema "errato" compilota.


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La lingua "biforcuta" della stampa

Soldatesse molestate, Giulia Schiff: “Alle vittime voglio dire di tenere duro, la giustizia vincerà

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Speriamo che oltre alla giustizia vinca anche l'uso corretto della lingua italiana: il femminile di soldato è soldata (ma gli operatori dell'informazione, "massinformisti", sembrano essere totalmente digiuni  della lingua materna; in compenso conoscono perfettamente la lingua di Albione, che sta devastando, inesorabilmente, la lingua di Dante e di Manzoni).
La socio-linguista Vera Gheno ad Avvenire dice: «Dal punto di vista linguistico e di attenzione all'equità di genere "soldata" sarebbe la forma preferibile, perché la regola è che il suffisso -essa non serve, deforma inutilmente la parola: così come sindaco/a, anche soldato/a. Il suffisso -essa entra nell'uso in un momento in cui c'era il bisogno di sottolineare molto l'alterità femminile e poi spesso veniva usato in maniera sarcastica. All'inizio del Novecento c'era anche "atletessa" e "deputatessa", per esempio, ma per fortuna queste espressioni non si sono consolidate.

 

(Le immagini sono riprese dalla Rete, di dominio pubblico, quindi. Se víolano i diritti d'autore scrivetemi; saranno prontamente rimosse: faraso1@outlook.it)

domenica 18 febbraio 2024

Nomi difettivi del plurale

 


Navigando in Rete ci siamo imbattuti in un sito che potremmo definire "tuttologo" perché tratta i temi più svariati (ernesto.it). Siamo rimasti esterrefatti, e abbiamo avuto bisogno di un cardiotonico, quando abbiamo letto, per quanto riguarda la lingua italiana, l' "elenco dei nomi difettivi del plurale", di cui facciamo il 'copincolla'.

Elenco dei nomi difettivi del plurale

I nomi difettivi del plurale sono quei nomi che non hanno una forma specifica al plurale. Di seguito sono riportati alcuni esempi:

·         Singolare: il braccio
Plurale: le braccia

·         Singolare: il dito
Plurale: le dita

·         Singolare: il sole
Plurale: i soli

Sarà bene "ricordare" ai responsabili del portale in oggetto che "difettivi del plurale" significa che mancano (difettano) del plurale; non sono, cioè, "quei nomi che non hanno una forma specifica al plurale". Gli esempi riportati, dunque, non appartengono ai sostantivi difettivi del plurale. Ce l'hanno, eccome.

Tra i nomi difettivi (che mancano) del plurale (citiamo dalla grammatica italiana del sito Treccani):

– molti nomi astratti

la pazienza, il coraggio, la superbia, l’amore

– nomi che indicano oggetti o cose uniche in natura

l’Equatore, il nord, il sud, l’Oriente

– nomi di malattia

il tifo, la malaria, il vaiolo, l’Aids, il morbillo

– nomi che indicano un prodotto alimentare

il cioccolato, il pane, il miele, il riso

– nomi collettivi di uso consolidato

la gente, la prole, la roba, il fogliame

– i nomi di elementi chimici e metalli

l’idrogeno, l’uranio, il mercurio, il ferro

– i nomi dei mesi

aprile, maggio, giugno  (qui, però, dissentiamo totalmente dal Treccani perché i mesi dell'anno si pluralizzano normalmente. In proposito rimandiamo a un nostro vecchio intervento).

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Dal sito in oggetto:

Quali sono tutti i nomi difettivi?

Ci sono molti nomi difettivi nella lingua italiana. Alcuni esempi includono "bambino" (che non ha una forma femminile), "genitore" (che non ha una forma plurale), "addio" (che non ha una forma diminutiva), "braccio" (che non ha una forma collettiva), "mattino" (che non ha una forma augmentativa), e "pomeriggio" (che non ha una forma superlativa). Tuttavia, è importante notare che l'elenco completo dei nomi difettivi potrebbe non essere noto o definitivo, in quanto la lingua italiana può evolversi e cambiare nel corso del tempo. (Senza parole!)

Si presti attenzione, dunque, a non prendere per oro colato tutto ciò che ci "propina" la Rete.


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La lingua "biforcuta" della stampa

La Penisola prospera se il Mediterraneo è libero e aperto. In questo tempo di Guerra rischia di soffocare

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Sarebbe interessante conoscere per quale motivo i titolisti (o chi per loro) hanno/abbiano ritenuto opportuno "maiuscolare" il sostantivo guerra.


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Spaventosi latitanti scomparsi e mai più visti

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Spaventosi? Forse i  "massinformisti" avrebbero voluto scrivere 'pericolosi', ma si sono spaventati al solo pensiero di trovarseli davanti all'improvviso... Di qui il probabile lapsus.


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sabato 17 febbraio 2024

"Sprimaverare"


 Ci piacerebbe che i lessicografi o vocabolaristi prendessero in considerazione il neologismo sprimaverare e lo mettessero a lemma nei dizionari. Come da inverno si ha "svernare" (trascorrere l'inverno in un'altra località), cosí da primavera possiamo avere "sprimaverare". Pierluigi, da quando è giubilato (in pensione), ama sprimaverare in una cittadina montana.

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Aggettivi "abusati"

Molto spesso si fa un abuso degli aggettivi "buono"," forte" e " grande" perché innumerevoli sono le persone o le cose per le quali viene spontaneo adoperarli: ma il concetto che tali aggettivi esprimono è troppo vago e generico. Consigliamo agli amatori della lingua, per tanto, di sostituirli, ogni qual volta che sia possibile, con un termine piú appropriato. Vediamo qualche esempio di “abusi”, piluccando qua e là: in corsivo l’aggettivo “abusato” e in parentesi  quello piú appropriato. La grande (vasta) piazza era piena di dimostranti; una volta tanto sii buono (ubbidiente) e fa quello che ti chiede tuo padre; sapendo che siete tanto buoni (generosi, cortesi) ne approfitto per chiedervi un favore; in quel momento soffiava un vento forte (impetuoso), che faceva tremare le case; quel giovanotto, invece di scusarsi, ha peggiorato la situazione commettendo un grande (grave) errore; quella torta, a fine pranzo, era veramente buona (squisita); l’oratore ha arringato la folla con voce forte (tonante), tra applausi scroscianti; il fumo che usciva dall’appartamento in fiamme era forte (acre) e disgustoso; bisogna essere grati a questi  forti (valorosi) soldati che vanno in giro per il mondo a portare la pace; se ti comporti bene, Dio, che è sommamente buono (misericordioso), ti perdonerà; il barbone, per una notte, ha trovato accoglienza, in paese, presso una famiglia che è tanto buona (caritatevole); le ricerche sono state rinviate perché scrosciava una forte (violenta, impetuosa, dirotta) pioggia.



 

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giovedì 15 febbraio 2024

"Figlio di mignotta"

 
Le gentili lettrici (e i lettori) ci perdoneranno se trattiamo un termine dal "sapore" volgare, ma anche i vocaboli  volgari fanno parte del patrimonio linguistico. Tutti i dizionari consultati al lemma "mignotta" attestano, all'unisono: "prostituta, puttana, sgualdrina, dall'antico francese 'mignotte' (amante, favorita)". Il "Dizionario dei modi di dire" (Hoepli Editore) dà un etimo totalmente diverso e... italiano. Vediamolo assieme.

Figlio di mignotta

Persona disonesta, sleale, infida, oppure scaltra e senza scrupoli, che si suppone educata da una prostituta. Vale di solito come insulto.

Un tempo molte madri naturali non intendevano riconoscere legalmente i propri figli, e non davano il loro nome all'anagrafe; questi bambini erano pertanto registrati come “figli di madre ignota”, che abbreviato in “M. Ignota” ha dato luogo al termine “mignotta” con valore d'insulto (ma si può adoperare anche in senso scherzoso, ndr). In senso scherzoso e "affettuoso" possiamo dire, però: "Ieri ho trascorso l'intera giornata con quel figlio di mignotta di Peppino; non finivo mai di ridere per le sue battute".

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La lingua "biforcuta" (di quasi tutte le persone)

Il deserto del Sahara non è quello che pensiamo. C’è un grande segreto

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Dire il deserto del Sahara è come dire "il deserto del deserto". Sahara (che all'interno di una frase non richiede la lettera maiuscola) viene dall'arabo الصحراء, sahrāʾ, che significa "deserto". Ma tant’è.



 

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domenica 11 febbraio 2024

Come si chiamano i componenti di un'orchestra?

Il recente "festival" della canzone italiana (Sanremo 2024) ci ha richiamato alla mente un nostro intervento sul corretto uso del sintagma aggettivale orchestrale. Lo riproponiamo perché non ha sortito l'effetto sperato.


S
iamo smentiti dai vocabolari su quanto stiamo per scrivere, ma andiamo avanti per la nostra strada, convinti della bontà della tesi che sosteniamo. Intendiamo parlare del termine "orchestrale" che, a nostro avviso - al contrario di quanto riportano i vocabolari dell'uso, appunto - è corretto solo come aggettivo. Si legge e si sente dire, per esempio, "gli orchestrali della Scala hanno avuto tre minuti di applausi", dando a orchestrali la "patente" di sostantivo. Si deve/dovrebbe dire, invece, i "componenti", i "membri", i "professori d'orchestra". Orchestrale, infatti, è un aggettivo denominale provenendo, appunto, da "orchestra". Che è/sia un aggettivo lo conferma il suffisso "-ale". Questo affisso (anche "-iale" e "-uale), dal latino "alis", serve, infatti, per la formazione di aggettivi derivati da sostantivi che indicano uno stato, un'appartenenza, una condizione, una relazione: autunnalecollegialeintellettuale ecc.  A nostro sostegno il Tommaseo-Bellini, che attesta il termine esclusivamente come aggettivo. Orchestrale, inoltre, non è a lemma nella "Lessicografia della Crusca" in rete né nell'OVI, Tesoro della Lingua Italiana delle Origini. Linguisti "d'assalto" tenete pronte le vostre faretre... e scagliateci i vostri "strali glottologici".


 

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sabato 10 febbraio 2024

Il correttore e il conrettore (sic!)


 Prima di addentrarci nei meandri della lingua che – come abbiamo visto altre volte – è ricchissima di parole che usiamo con la massima indifferenza senza conoscerne il significato “recondito”, soffermiamoci  un attimo sull’accezione “nascosta” di meandro, appunto.

Adoperiamo questo termine quando vogliamo mettere in particolare evidenza l’ “intricatezza” e la “tortuosità” del linguaggio di talune persone nell’esporre il proprio pensiero o il proprio scritto. Il meandro, dunque, è ciascuna delle anse, delle sinuosità che i fiumi determinano scorrendo su un terreno piano o con lieve pendenza. Anche questo vocabolo proviene dal tanto bistrattato latino: “meandrus” (curva), tratto dal nome del fiume Meandro che scorre in Asia Minore in numerosissime sinuosità.

In senso traslato, quindi, meandro è sinonimo di “tortuosità di pensiero”: non è affatto possibile seguirlo nei meandri del suo ragionamento. La nostra lingua – a nostro modo di vedere – è ricca di “meandri” dai quali molte persone, anche quelle meno sprovvedute culturalmente, non sanno uscire. Prova ne sia  il fatto che moltissime "grandi firme" della carta stampata e no – “spalleggiate” dai soliti vocabolari permissivi – scrivono (e dicono) “coproduzione “ in luogo della sola forma corretta “comproduzione”.

Si deve dire – ripetiamo – “comproduzione”, e non lo sostiene l’illustre signor nessuno, estensore di queste noterelle, ma l’insigne linguista Aldo Gabrielli che nel suo Dizionario Linguistico Moderno così spiega: “coproduzione è brutto neologismo, specie nel gergo cinematografico. In buon italiano il prefisso ‘co’ (per ‘con’) si costruisce solo dinanzi a vocale: coabitazione, coincidenza, cooperare, coutente; in ogni altro caso si ha il prefisso ‘con’, mutato anche in ‘com’.” E aggiunge: “coproduzione, forma nell’uso, ma errata”.

Riteniamo doveroso, per tanto, soffermarci sul corretto uso del prefisso “con”. Detto prefisso, dunque, perde la “n” davanti a parole comincianti con vocale (coinquilino); muta la “n” in “m” dinanzi a parole che cominciano con le consonanti “b” e “p” (combelligerante, comproprietario); si assimila davanti alle parole che cominciano con le consonanti “l”, “m” e  “r”: collaboratore, commilitone, corregionale. L’assimilazione – è utile ricordarlo – è un processo linguistico per cui dall’incontro di due consonanti la prima diventa uguale alla seconda, cioè si “assimila”.

È chiaro, però, che in casi di ambiguità non possiamo rispettare “alla lettera” le norme che regolano l’uso di tale confisso, occorre affidarsi al buon senso. Il “correttore”, infatti, è colui che corregge, il “conrettore”, invece, anche se non a lemma nei vocabolari dell'uso, ma "immortalato" in alcune pubblicazioni,  è la persona che divide la responsabilità del rettorato con un’altra. E che dire del "co-fondatore" in luogo della grafia corretta "confondatore", lemmatizzata nel prestigioso vocabolario Treccani e nel DOP, Dizionario di Ortografia e di Pronunzia? Basta applicare la "regola del prefisso -con" e non si hanno problemi di sorta. Finiamola, quindi, di scrivere co-conduzione, co-locazione, co-locatario ecc.

Avete visto, cortesi amici, quanti “meandri” linguistici abbiamo incontrato durante la nostra chiacchierata? Ma non finisce qui. La “congestione”, vale a dire la “gestione comune” di una determinata cosa si potrebbe confondere con la congestione, termine usatissimo in campo medico. Allora? Allora, gentili lettori, in casi di ambiguità dobbiamo ricorrere – giocoforza* – all’uso, per altro non molto bello, della perifrasi.

Amici della carta stampata, non fate gli indiani, sapete benissimo di avere un gravoso compito: quello di educare la gente anche e soprattutto dal punto di vista linguistico. Non diffondete, per tanto, parole errate e “coproduzione” è una di queste.

Dimenticavamo: crediamo sia chiaro a tutti il significato dell’espressione “fare l’indiano”, ossia far finta di non capire. L’espressione è nata dalla figura dell’indigeno stereotipato, esattamente degli abitanti delle Indie occidentali, che agli occhi degli uomini europei appariva assente, sbalordito, dando la chiara impressione, appunto, di non capire.

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* A proposito di giocoforza quasi tutti i vocabolari attestano la locuzione come sostantivo maschile specificando, però, che si adopera esclusivamente nell'espressione "essere giocoforza". Solo il De Mauro e l' Olivetti lemmatizzano, giustamente (e correttamente), l'espressione come avverbio.


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giovedì 8 febbraio 2024

Lanaia - 5 - Baiardo: un francesismo diffuso nei dialetti italiani e nell’italiano regionale letterario della Sicilia

 


di Alfio Lanaia

     1.    L’evento giornalistico

 

Nel bell’articolo di S.C. Sgroi, La festa di Sant’Agata tra “candelore”, “fercolo” e “baiardo”, pubblicato in questo blog il 6 febbraio scorso, si parla di baiardo, «termine decisamente opaco […] micro-regionalismo siciliano che il grande Voc. Sic. registra come bbaiardu con un duplice significato: (i) “fercolo, piedistallo munito di stanghe su cui vengono trasportate a spalla statue di santi nelle processioni” e (ii) “a Catania, ciascuna delle stanghe del fercolo”».

 

2. La ricchezza semantica del sic. bbaiardu

 

 Nel libro di Berardino Palumbo, Pregare i santi. Inchini rituali e pratiche mafiose (Bologna 2020, Marietti, ed. digitale), si dice in nota che «parte importante del fercolo è il baiardo, ossia una struttura di travi di legno, spesso imbottite, che viene a contatto con le spalle e/o le mani dei portatori». Altri significati, registrati dal Voc. Sic. sono: a) “strumento portatile fatto di tavole per comprimere la vinaccia sotto il torchio”; b) “legno pesante di forma circolare con quattro manici che, spinto in basso dalla madrevite, spreme il pastone delle ulive macinate o delle vinacce”; c) “madrevite”; d) “treggia”; e) “barella”; f) “cataletto su cui si trasporta la cassa da morto”. Vi è, inoltre, il modo di dire scherzoso, ora scomparso dall’uso, purtari na puntiḍḍa di bbaiardu “camminare barcollando, di ubbriaco”. Con allargamento dell’infisso, -al-, troviamo infine la var. bbaialardu “madrevite”, “barella”, “fercolo”, “uomo alto, corpacciuto e quasi scemo” ecc.

 

3. Il baiardo come regionalismo letterario

 

Grazie a Google libri è possibile rintracciare gli usi letterari di baiardo in un giallo Mondadori, La profezia degli incappucciati di Roberto Mistretta (2019). Citiamo, fra i tanti, i seguenti esempi dall’edizione digitale che non riporta i numeri di pagina:

 

a)   Il baiardo era un capolavoro ligneo di rara bellezza.

b)   Nofrio si disse che il baiardo a forma di croce era fatto apposta per lui.

c)   Il ricordo delle mammelle dure come pietre e delle cosce tornite di Minica, abbrancata al baiardo che già si sollevava, centimetro dopo centimetro, lo gonfiò di eccitazione.

d)   Quelle tre morti avevano in comune il baiardo della Veronica.

 

4. Il baiardo negli altri dialetti

 

Il V vol. del Lessico Etimologico Italiano (LEI 1979-) s. v. BATARE 4.a. e 4.b. registra il laz. centro-sett. vayárdu insieme a moltissime varianti abruzzesi, molisane, lucane pugliesi e calabresi col significato di “barella per il trasporto di grossi pesi (pietre, letame, concime)”. Altri significati del tipo lessicale sono: a) il laz. centro-sett. “specie di barella improvvisata nella campagne per il trasporto di malati” e b) “feretro”; c) l’irp. “carriola”; d) l’abruzz. occ. “recipiente inservibile, oggetto ingombrante”. Nell’Italia sett. troviamo il lig. occ. bayárd “barella per il trasporto di grossi pesi (pietre, letame, concime)”; il ven. centro-sett. baiardo “carriola da muratore per trasporto di sassi o altro”; il lig. centr. baiarda “carriola con una ruota con fondo a listelli”; lo stesso tipo lessicale con l’ultimo significato è attesto nel ticinese e nel moesino.

 

5. L’etimo di baiardo

 

Secondo il citato LEI, il sic. bayardu è un prestito angioino con significato tecnico di “pressa di legno per le vinacce”, dal fr. ant. baiart “barella” (XII sec.). Anche il Vocabolario storico etimologico dei gallicismi nel siciliano (2022) di Iride Valenti conferma l’etimo dal fr. a. bajart (e bayard) “civière à divers usages”. Se gli studiosi concordano nell’individuare il francese antico come modello del prestito, esprimono opinioni diverse nell’individuare la base ultima del francese. Secondo l’ipotesi di Alessio, ripresa dal LEI, l’origine ultima di bayard, sarebbe il latino tardo batare “spalancare la bocca”, di prob. origine onomatopeica. Più convincente, secondo Valenti, sarebbe l’ipotesi del von Wartbug (Französisches Etymologisches Wörterbuch, 1928-2002), che associa il vocabolo al lat. badius ‘di color castagno’, da cui il fr. bai “baio”, beart, baart che sarebbe passato a indicare l’agg. “di color baio” e poi il nome masch. “cheval tacheté”. Dal significato di “animale” si è passati poi a quello di “strumento per trasportare”. Accettando questa ipotesi trovano la loro giusta collocazione il fr.a. baiart “di color baio”, da cui l’it. baiardo “destriero”, nome del cavallo del paladino Rinaldo, l’it. ant. baiardo “stravagante, bizzarro” e, infine, il cognome Baiardo, tutti citati nel Dizionario onomastico della Sicilia (1993) di Gerolamo Caracausi.

 

 

 Sommario

1. L’evento giornalistico

2. La ricchezza semantica del sic. bbaiardu

3. Il baiardo come regionalismo letterario

4. Il baiardo negli altri dialetti

5. L’etimo di baiardo





 

 

 

 

Sgroi - 168 - Le regole (inconsce) dei parlanti e le norme (logicistiche) degli storici della lingua

 


di Salvatore Claudio Sgroi

 

           1. L’evento televisivo

Un caro amico, storico della lingua, ha acutamente e dottamente rilevato l’uso della pronuncia del quadrisillabo Alalìa indicante la celebre battaglia degli etruschi contro i latini in bocca alla prof.ssa Laura Maria Michetti, ospite della trasmissione del 5 febbraio “Passato e Presente” di Paolo Mieli in RAI-3, osservando che la pronuncia greca Alalìa era errata stando anche al Treccani, ovvero da scartare a favore della pronuncia latina come trisillabo Alàlia. Ed ha argomentato questa sua scelta “ideologica” per la pronuncia latina, condivisa da un secondo caro amico, anch’egli storico della lingua, con il giudizio di Bruno Migliorini e di Giuseppe Malagoli che nel volumetto su L’accentazione italiana (Sansoni 19461, 19682) a p. 72 aveva scritto: “il Migliorini è decisamente a favore dell’accento latino (salvo per alcune serie compatte con i nomi in -ìa)”.

 

2. Norma ed etimologia latina

I nostri storici della lingua fanno così coincidere l’uso corretto con quello etimologico (latino). In una prospettiva “laica” le due pronunce sono invece per me entrambe corrette in quanto in bocca a parlanti colti, nel caso specifico una specialista di storia etrusca.

 

3. Regola alla base della pronuncia “errata”

Il nostro storico della lingua, andando al di là del problema normativo, si è anche opportunamente chiesto quale sia la regola alla base della pronuncia “errata” del quadrisillabo Alalìa:

 

“penso che ci sia stata anche l’attrazione dei nomi dove l’accento è causato dalla i lunga energìa, simpatìa, teofanìa, che hanno creato una serie dove sono finite parole come sinfonìa o afonìa, favorite anche dalla pronuncia francese” e nel caso della ricostruzione della storia di epidèmia diventato epidemìa nel ’700”, nella sua ricchissima monografia su La lingua del Covid. Italiano pubblico e privato sotto attacco virale (edizioni libreria universitaria.it, 2023, pp. 11-13).

 

4. Regole inconsce alla base della pronuncia Alalìa

Ponendoci dal punto di vista della colta parlante, alla ricerca della regola inconscia che ne ha generato la fonia, diverse invero possono essere le motivazioni:

a) la consapevolezza della pronuncia etimologica dal greco ’Αλαλíη preferita a quella latina (Alàlia).

b) attrazione della pronuncia dell’omonimo alalìa neurol. ‘impossibilità totale di articolazione delle parole dovuta spec. a una lesione cerebrale’, sin. logoplegia., 1829; “der. di -lalìa con 1a-, cfr. gr. álalos "muto" (De Mauro 2000).

c) prevalenza in it. delle parole in /-ìa/, rispetto a quelle in /-’ia/:

d) più in generale preferenza per il quadrisillabo /a.la.lì.a/ con due piedi bisillabici trocaici

(´– – //´– –), rispetto al trisillabo /a.là.lia/ con piede degenerato cioè monosillabico e un piede bisillabico trocaico (´– //´– –).

 

5. Suffisso atono 'ia in latino vs tonico -ία in greco

Come abbiamo in precedenza  chiarito (intervento 61 “Papa Francesco contro la Pandèmia, pardon "La Pandemìa", sabato 25 aprile 2020; ried. in S.C. Sgroi Dal Coronavirus al Covid. Storia di un lessico virale, Ed. dell'Orso 2020, pp. 127-32), in  latino, come ricorda il Traina-Bernardi Perini in Propedeutica al latino universitario (Patron 19773), (I) il suffisso '-ia atono è sempre indigeno, per es. lat. custōdĭa(m) > it. custodia; lat. fŭrĭa(m) > it. furia; lat. gratĭa(m) > it. grazia; – lat. malĭtĭa(m) > it. malizia; lat. infamĭa(m) > it. infamia.

II) In lat. il suffisso atono '-ia adatta così a sé il suffisso tonico greco -ía, per es. nei seguenti grecismi: gr. historía > lat. histŏrĭa(m) > it. storia; gr. kōmōidía > lat. comoedĭa(m) > it. commedia; gr. tragōidía > lat. tragoedĭa(m) > it. tragedia; gr. artēría > lat. tardo artērĭa(m) > it. arteria.

E ancora: II.a) gr. philosophía > lat. filosofĭa (ma: it. filosofìa); gr. allēgoría> lat. allegorĭa(m) (ma: it. allegorìa); gr. analogía > lat. analŏgĭa(m) (ma: it. analogìa); gr. philología > lat. philolŏgĭa(m) (ma: it. filologìa). E quindi: gr. ’Αλαλíη > lat. Alalĭa.

 

5.1. Suffisso tonico -ìa in latino deriva dal greco -εία

Invece (III) il suffisso lat. -īa deriva sempre dal gr. -eía: gr. elegeía > lat. elegīa(m) > it. elegìa; gr. eirōneía > lat. ironīa(m) > it. ironìa; gr. apátheia > lat. apathīa(m) > it. apatìa; gr. periphéreia > lat. tardo peripherīa(m) > it. periferìa.

 

5.1.1. Doppia accentazione in italiano

La situazione sopra descritta in greco e in latino spiega anche l'esistenza della duplice accentazione, normativamente corretta, legata ora alla base greca ora a quella latina, per es. gr. homōnumía > lat. tardo homonўmĭa(m) > it. omonimìa/omonìmia; o gr. metōnumía > lat. tardo metonўmĭa(m) > it. metonimìa/metonìmiaE ora gr. ’Αλαλíη > lat. Alalĭa > it. Alalìa/Alàlia.

 

 

6. Italiano: suffisso (tonico) -ìa vs (atono) '-ia

Per quanto riguarda la presenza in italiano dei due suffissi, L. Serianni (1988, 19972) nella sua grammatica osserva: "I due suffissi (-ìa di follìa [neoform.:"der. di folle con -ìa" De Mauro 2000) e -'ia di perfidia ["dal lat. perfĭdĭa(m)"] risalgono al greco -ìa [...]: il primo, che è l'unico ad essere realmente produttivo, mantiene l'accento greco; il secondo presuppone la mediazione del latino (il che spiega la ritrazione dell'accento dalla penultima breve alla terz'ultima" (§ XV.24).

L'A. sembra così privilegiare l'etimo greco di -ìa in italiano, per via della sua produttività, rispetto all'atono '-ia, di cui presuppone sempre la mediazione del latino. Ma l'es. perfidia con l'atono '-ia non implica alcun grecismo. E quindi bisognava sia cambiare la esemplificazione, per es. indicando un grecismo mediato dal latino, come peripezìa: "dal lat. mediev. peripetīa(m), dal gr. peripéteia", o energìa "dal lat. tardo energīa(m), dal gr. enérgeia", sia soprattutto precisare la formulazione storica con la triplice esemplificazione: follìa (neoform.), perfidia (latinismo tout court), peripezìa o energìa (grecismi latini).

 

6.1. Frequenza in italiano dei suffissi tonico -ìa e atono '-ia

Ma, a parte ciò, l'A. fornisce una risposta essenziale riguardo alla frequenza dei due suffissi in italiano, allorché rileva che "la frequenza di suffissati in -ìa è dovuta anche al fatto che alla serie deaggettivale (allegro > allegrìa ["der. di allegro con -ìa"], pazzo > pazzìa ["der. di pazzo con -ìa"]) e denominale (tiranno > tirannìa ["der. di tiranno con -ìa"] si affiancano le formazioni in -erìa [nel De Mauro sono ben 556 i lessemi in /eria/ di cui 534 lessemi tonici in /erìa/ e per lo più suffissati in /-erìa/] e in composti dotti con secondo elemento grecizzante (filosofia ["dal lat. philosŏphĭa(m), dal gr. philosophía"], astronomìa ["dal lat. astronŏmĭa(m), dal gr. astronomía"] ecc.".

 

7. Conclusione

Tutto ciò farebbe quindi propendere, a mio giudizio, alla maggioranza in italiano di lessemi in /-ìa/ tonici rispetto a quelli atoni in /'-ia/ quale regola inconscia determinante alla base della pronuncia Alalìa della colta italo-nativofona, affiancata alla preferenza per la struttura metrica quadrisillabica.

 

Sommario

            1. L’evento televisivo

2. Norma ed etimologia latina

3. Regola alla base della pronuncia “errata”

4. Regole inconsce alla base della pronuncia Alalìa

5. Suffisso atono 'ia in latino vs tonico -ία in greco

5.1. Suffisso tonico -ìa in latino deriva dal greco -εία

5.1.1. Doppia accentazione in italiano

6. Italiano: suffisso (tonico) -ìa vs (atono) '-ia

6.1. Frequenza in italiano dei suffissi tonico -ìa e atono '-ia

7. Conclusione












(Le immagini sono riprese dalla Rete, di dominio pubblico, quindi. Se víolano i diritti d'autore scrivetemi; saranno prontamente rimosse: faraso1@outlook.it

 

 

La pistola? Non viene da... Pistoia


 Quando seduti a tavola davanti a un bel piatto fumante di pastasciutta arricchito di un bel po' di parmigiano o quando beviamo un buon bicchiere di marsala, sappiamo benissimo - tutti - che quel pezzo di formaggio o quell'ottimo bicchierino anche se non provengono da Parma o da Marsala, traggono i loro nomi da quei luoghi: Parma e Marsala, appunto.

Il nostro idioma è ricchissimo di parole di questo tipo, però non di tutte l'origine è così ovvia. Sarà interessante, quindi, fermarci a esaminare - piluccando qua e là - alcuni nomi di città, di regioni, di popoli entrati per questa via nella lingua usuale, quella "di tutti i giorni", quella parlata, cioè, dal colto e dall'inclito (inclito, con la "o", non inclita, come si legge spesso; di ciò avremo modo di parlare in seguito). Il mondo classico, la Grecia e Roma, avevano  parecchi nomi così formati; alcuni sono stati ereditati o rimessi in uso. Basti pensare, per esempio, ai "fari" - antichi e moderni - che traggono tutti il nome da quella torre luminosa eretta da Tolomeo Filadelfo nella "miniisola" di Faro, nel porto di Alessandria. 

Rimanendo in tema culinario possiamo notare come numerosissime piante da frutto conservino tuttora il nome del Paese d'origine: la pèsca, che in vernacolo romano (ma anche in altri dialetti) si chiama "persica" viene, appunto, dalla Persia; mentre la susina viene da Susa, antichissima città dell'Impero persiano; come la cotogna trae il nome da Cidonia, città cretese.
Per quanto attiene ad alcuni nomi di materiali per costruzione  abbiamo la pozzolana che, manco a dirlo, viene da Pozzuoli; mentre il travertino - propriamente "lapis Tiburtinus" (pietra di Tivoli) - proviene da Tivoli, una cittadina alle porte di Roma. 

Il nostro idioma, però, si arricchisce di vocaboli "geografici" durante il Medio Evo, quando un gran numero di stoffe  venivano dai mercati orientali: il damasco, dalla città omonima; la mussola da Mossùl, città della Mesopotamia; l'organdi dalla città di Urgang', nel Turchestan, importantissimo mercato della seta, e allo stesso nome si fa risalire l'organzino, vale a dire il filo ritorto di cui si fa l'ordito delle stoffe di seta. La cugina Francia e la Fiandra ci hanno dato altri nomi di stoffe come i cambri e il popelin cui va aggiunto il nome delle famosissime tappezzerie murali - gli arazzi - che vengono dalla città di Arras, mentre il tulle dalla omonima città della Francia centrale. Gli arazzi ci hanno fatto venire in mente il baldacchino che risale al nome antico di Baldacco, l'odierna Bagdad. E che dire delle persiane, delle ottomane, delle maioliche? Come vedete - gentili amici - non finiremmo mai di stupirci nello scoprire vocaboli "geografici" entrati nella lingua comune.

Non possiamo, però, sottacere alcuni nomi comuni provenienti dalle nostre regioni come, per esempio, le "marchiane" che non sono solamente certe pregiatissime ciliegie provenienti dalle nostre Marche, ma tutto ciò che è smisuratamente grosso. Il modo di dire sembra derivi dal fatto che un tempo nelle regioni limitrofe si attribuiva ai marchigiani il vezzo di sballarle grosse; come ai guasconi i Francesi attribuiscono il primato delle "guasconate". Marchiane, infatti, citiamo dal vocabolario "Treccani", significa: "grosso, o grossolano (probabilmente per estensione della locuzione ciliegie marchiane), dette solitamente di cose che sono da disapprovare per la loro grossolanità: errore, sproposito marchiano; questa è proprio marchiana; anche con uso ellittico: dire, fare delle marchiane".
E il norcino? Non vi dice nulla questo nome? Abbiamo fatto solamente pochi esempi, il tempo è tiranno. Sarà per un'altra volta.

Non possiamo, però, "chiudere" senza  prima aver disilluso quanti credono che il bergamotto e la pistola provengano rispettivamente dalla città di Bergamo e dalla città di Pistoia - come potrebbe sembrare di primo acchito - essendo vocaboli casualmente simili ai nomi delle due città: si tratta, nell'ordine, di un vocabolo turco e di uno boemo. Il primo è, appunto, il turco "beg-armudi" (il pero del signore), il secondo "pist'ala". Come si può notare per "assodare" un'etimologia non basta una casuale somiglianza, occorre sempre - anche se la cosa non è di facile 'reperimento' - una documentazione storica.

In proposito è interessante vedere quanto scrive il Deli circa l'origine della pistola: “...il tedesco importò la voce al tempo della guerra degli Ussiti (1419-1439) e la diede al francese nel secolo XVI, durante le guerre di religione, alle quali parteciparono anche i tedeschi con i loro eserciti. La pistola fu da principio uno schioppo corto che i cavalieri tedeschi, i quali introdussero i primi quest'arma in Francia (…) portavano ad armacollo, come si portano dai nostri cavalleggeri i piccoli moschetti: cangiò a poco a poco di forma, e si ridusse a tale da poterne portare due entro fonde di cuoio (…)”. Dimenticavamo la cosa più importante: “pist’ala”, all’origine ‘fischietto’, viene da “pisk”, fischio, appunto. Il pistolotto, invece, vale a dire il “finale di un discorso”, non ha nulla che vedere con la… pistola; viene dal latino “epistola”, divenuta “pistola” per la caduta (aferesi) della “e” iniziale.


 

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