venerdì 31 maggio 2019

Congiuntivo presente o imperfetto? Dipende...

Da "Domande e risposte" del sito Treccani:

Pongo alla vostra cortese attenzione questi due enunciati. “Vorrei che fosse Giovanni a venire con noi.” “Vorrei che sia Giovanni a venire con noi.” Penso sia accettabile anche il congiuntivo presente in frasi del genere. Anzitutto vi chiedo se potete darmi conferma di questo. E inoltre vi domando quale è la differenza semantica tra i due enunciati. Una persona mi ha detto che al termine della seconda frase col congiuntivo presente, al posto del punto fermo, ci starebbe bene un bel punto esclamativo. Non mi ha saputo spiegare il motivo però. Voi siete d'accordo?

  Risposta degli esperti:

Sulla questione del punto esclamativo, si tratta di una libera scelta: vogliamo calcare la mano e dare un’intonazione esclamativa all’enunciato? E diamola! (punto esclamativo!). Vogliamo essere più sobri? Facciamo a meno di adoperarlo. Punto (senza esclamativo).

 La questione centrale è un’altra: la frase oggettiva dipendente dal verbo di volontà o desiderio al condizionale presente esige l’uso del congiuntivo imperfetto (fosse, in questo caso) o, al limite, del congiuntivo trapassato (fosse stato), ma con un’evidente inclinazione diversa di attualità/temporalità. Niente sia, dunque.
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La "regola" secondo la quale al condizionale presente deve seguire il congiuntivo imperfetto non è tassativa. Il prof. Salvatore Claudio Sgroi, dell'Università di Catania, spiega magistralmente quando usare il congiuntivo presente e quando, invece, il congiuntivo imperfetto. Qui, qui e qui.






giovedì 30 maggio 2019

Ancora sulla lingua "biforcuta" della stampa (e no)

Da un quotidiano, "che fa opinione", in rete:
Il giovane colpito da un fendente scagliato dal padre della giovane, è spirato in ospedale
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In buona lingua italiana l'inserimento della virgola tra il soggetto (giovane) e il verbo (è spirato) è un "orrore" che grida vendetta al cospetto del Divino. In proposito si veda quanto scrivemmo tempo fa. Anche qui.

mercoledì 29 maggio 2019

Tre testi del prof. Salvatore Claudio Sgroi sul sito della Crusca

Segnaliamo i seguenti tre  testi del prof. Salvatore Claudio SGROI  appena pubblicati nel Sito dell’Accademia della Crusca:

(1)  Un esempio di intolleranza (e variazione) linguistica: l’accento tonico di salubre” come   “Quesito” del 14 dicembre 2018
<http://www.accademiadellacrusca.it/it/lingua-italiana/consulenza-linguistica/domande-risposte/esempio-intolleranza-variazione-linguistica->ripreso ora in "Italiano Digitale" VII, 4 ottobre-dicembre 2018 [ma: 28 maggio 2019] pp. 55-56
<http://www.accademiadellacrusca.it/it/pubblicazioni/italiano-digitale-rivista-crusca-rete/vii-20184-ottobre-dicembre > ;il testo era pure apparso nel nostro Blog, giovedì 6 dicembre 2018
<https://faustoraso.blogspot.com/2018/12/sgroi-un-esempio-di-intolleranza-e.html>.
 
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(2) Un'abbuffata di neologismi treccaniani in "Italiano Digitale" VII, 4 ottobre-dicembre 2018 [ma: 28 maggio 2019] pp. 96-97
<http://www.accademiadellacrusca.it/it/pubblicazioni/italiano-digitale-rivista-crusca-rete/vii-20184-ottobre-dicembre >;
Il testo era apparso in precedenza nel nostro Blog del 19 dicembre 2018
<https://faustoraso.blogspot.com/2018/12/sgroi-unabbuffata-di-neologismi.html>.


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 ( 3)Sbagliatamente? Non comune, ma corretto” come   “Quesito” del 21 maggio 2019;
 <http://www.accademiadellacrusca.it/it/lingua-italiana/consulenza-linguistica/domande-risposte/sbagliatamente-comune-ma-corretto>

martedì 28 maggio 2019

È uno schifo ma... è proprio bello!

Il nostro idioma, gentil sonate e puro, per dirla con l’Alfieri, è ricco di parole omofone (stesso suono) e omografe (stessa grafia) ma di significato diverso. Una di queste è lo schifo: ripugnanza, ribrezzo e battello di piccole e modeste dimensioni. 
    Il primo significato, vale a dire quel senso di ripugnanza, nausea, disgusto, ci riporta al verbo schifare (schivare, evitare). E questo al francese antico eschif che risale al francone skiuhjan (aver riguardo). Colui che ha nausea di una determinata cosa ne ha riguardo, quindi la evita, la schiva. 
    La seconda accezione del termine, quella di battello, scialuppa, si rifà al longobardo Skif (battello). È interessante, in proposito, notare quanto scrive Carlo Alberto Mastrelli: 
   «Si farà ora accenno sorprendente dell’influsso dei Longobardi (sulla lingua italiana, NdR); sorprendente perché mostra l’incidenza che essi hanno avuto anche per un settore della lingua, e quindi per un aspetto storico-culturale, che poteva non apparire tipico del mondo germanico. Infatti nei dialetti italiani si riscontra un piccolo manipolo di termini che hanno a che fare con le attività connesse all’acqua (...).
    Sotto questo profilo si chiariscono forse i prestiti skif, imbarcazione, scafo (...) che vedono i Longobardi, o le popolazioni longobardizzate, impegnati anche nella navigazione specialmente fluviale e lagunare, in un ambito geografico nel quale essi si trovavano ai margini della sfera di influenza bizantina».

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Forse non tutti sanno che "ha", oltre a indicare la terza persona singolare del presente indicativo del verbo avere, si può adoperare come interiezione (invece di "ah") per esprimere una risata. Dal Treccani in rete:  ha2 ‹ha› interiez. – Suono, di solito ripetuto, che accompagna un riso ironico o sarcastico, per esprimere irrisione non grave ma in tono un po’ risentito: ha ha, te l’avevo detto, peggio per te. In genere, la pronuncia aspirata dell’h è più o meno marcata a seconda dell’enfasi con cui si vuole sottolineare il riso.
 
 

 

domenica 26 maggio 2019

I "perditempo" o i "perditempi"? Dipende...




Sul plurale di "perditempo" c'è un po' di confusione perché i vocabolari non sono di grande aiuto: uno lo dà invariabile, un altro variabile e un altro ancora invariabile e variabile. Insomma i perditempo o i perditempi? Consigliamo di attenersi a quanto riporta il DOP, Dizionario di Ortografia e di Pronunzia:

sabato 25 maggio 2019

Essere un (o fare il) manigoldo

Questa locuzione (non ricordiamo se è stata già trattata) non è propriamente un modo di dire, anche se si adopera come tale in riferimento a una persona il cui comportamento non è proprio ortodosso, anzi... Il manigoldo, insomma, è un malfattore, un furfante, una canaglia. 
    L'origine del termine non è molto chiara. Per alcuni proverrebbe dal nome del tedesco Manegold (vissuto nell'XI secolo e autore di molti libelli contro gli eretici). Per altri, invece, sarebbe l'alterazione del longobardo "mun-wald" ('che detiene la patria potestà').
    Ma sentiamo Ottorino Pianigiani e il Tommaseo-Bellini. Il manigoldo, dunque, probabilmente è il boia e attraverso un passaggio semantico ha acquisito l'accezione di "furfante", "uomo di feroce natura o di costumi corrotti".

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Due parole, due, su un avverbio che, a nostro modo di vedere, molto spesso è adoperato impropriamente: immancabilmente. E ci spieghiamo. Sovente è usato con l’accezione di “indubbiamente”, “certamente”, “sicuramente” e simili: ti telefonerò,‘immancabilmente’ (certamente, sicuramente, senza dubbio), la prossima settimana. Il significato proprio dell’avverbio è, invece, “senza mancanza”, “che non subisce una mancanza”, “sempre”, potremmo dire, derivando dal verbo “mancare”. È corretto, quindi, solo in frasi in cui c’è il concetto di mancanza: ogni domenica,‘immancabilmente’ (“non manca mai”) va allo stadio per assistere alla partita del cuore. I vocabolari...

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La lingua "biforcuta" della stampa
Da un giornale in rete:

Silvio Muccino a processo per diffamazione
contro il fratello Gabriele
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Non sapevamo che si diffama/diffamasse "contro" qualcuno. Noi avremmo scritto "per diffamazione del fratello". Ma il giornale in questione è uno di quelli "che fanno opinione".

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È scaricabile, gratuitamente, dalla rete cliccando qui.

venerdì 24 maggio 2019

Sull'accordo del participio passato

Riproponiamo un nostro vecchio intervento sull'accordo del participio passato perché abbiamo notato che molto spesso è causa di "dubbi amletici" anche in persone la cui cultura linguistica è insospettabile.

I baci che ti ho dato o i baci che ti ho dati? Siete stanchi, nervosi, affaticati, sfiduciati, non riuscite ad accordarvi sul dato o dati? Non vi preoccupate, è arrivato per voi, solo per voi, il vostro accordatore. Tranquillizzatevi, non accordo il vostro pianoforte, bensì la vostra lingua. Sedetevi comodamente, rilassatevi e ascoltatemi. 
Il participio, innanzitutto, vale a dire uno dei modi indefiniti del verbo, ha tale nome in quanto partecipa della natura del verbo, ossia esprime l’idea del verbo come se si trattasse dell’attributo di un nome; è, perciò, simile all’aggettivo e concorda con il nome cui si riferisce nel genere (maschile e femminile) e nel numero (singolare e plurale). Quanto detto, però, vale per il participio presente il cui uso più comune è quello con funzione aggettivale. Per quanto riguarda il participio passato il discorso è un po’ più complesso (ma non molto). Vediamo.
   Quando anch’esso è in funzione aggettivale si comporta come il fratello presente, concorda, cioè, con il sostantivo cui si riferisce: hai le mani bucate (non: bucato). Allorché il participio passato è coniugato con l’ausiliare essere la concordanza ha sempre luogo: ci siamo incontrati per caso e ci siamo rivisti con piacere. I dolori, si fa per dire, cominciano quando il nostro amico (il participio passato) è coniugato con l’ausiliare avere o con i riflessivi apparenti.

    Cominciamo con questi ultimi in cui la concordanza o no è lasciata esclusivamente al gusto di chi parla o scrive: si può dire, infatti, mi sono lavato le mani o mi sono lavate le mani. Con il verbo avere il participio passato dei verbi intransitivi resta invariato: ti ho telefonato (anche se il pronome ti si riferisce a una donna). Con i verbi transitivi attivi, coniugati con l’ausiliare avere, alcuni linguisti lasciano alla discrezionalità di chi scrive o parla la concordanza o no del participio passato. Si può dire, insomma, ha indetto o indetta una conferenza stampa; ha aperto o aperta la porta. È meglio fare, però, alcuni… distinguo.
   Se il participio passato precede il complemento oggetto resta invariato, ossia maschile singolare: i bambini hanno studiato la poesia; i bambini hanno studiato le poesie. Se, invece, il complemento oggetto si trova prima del verbo, cioè prima del participio passato, ed è rappresentato dalle particelle pronominali atone (mi, ti, ci, si, vi, la, le, li, ne) il participio passato concorda con il complemento oggetto: i fanciulli la poesia l’hanno imparata; i fanciulli le poesie le hanno imparate.

   Con i pronomi relativi l’accordo si può fare oppure no; anche in questo caso autorevoli linguisti lasciano al gusto di chi parla o scrive piena libertà di coscienza linguistica. Alcuni insigni grammatici consigliano, tuttavia, di lasciare il participio passato invariato, vale a dire nella forma maschile singolare: i baci che ti ho dato, ma anche i baci che ti ho dati; le canzoni che ti ho dedicato, ma anche le canzoni che ti ho dedicate. Prima di chiudere voglio ricordarvi che anche il participio passato è usato, spessissimo, in funzione di aggettivo (o sostantivo): ecco gli uomini eletti o, semplicemente, gli eletti; nel primo caso ha valore di aggettivo, nel secondo di sostantivo.

 Con la speranza di essere stato chiaro, di essere, cioè, riuscito a dissipare ogni vostro dubbio sulla concordanza del participio, vi ringrazio della vostra attenzione e vi do appuntamento alla prossima occasione ricordandovi, anche, di essere a vostra completa disposizione da queste colonne.
 Un caro saluto dal vostro amico
 L'Accordatore

mercoledì 22 maggio 2019

Il grande dizionario della lingua italiana


Il grande dizionario della lingua italiana, di Salvatore Battaglia, è consultabile in rete.

martedì 21 maggio 2019

"Sbagliatamente"? Perché no? Voce corretta


Un interessantissimo articolo del prof. Salvatore Claudio Sgroi pubblicato sul sito della Crusca in "Risposte ai quesiti".

sabato 18 maggio 2019

Svegliarsi (o alzarsi) con la cuffia di traverso

Quest'espressione di tradizione prettamente popolare - forse poco conosciuta - ci sembra chiarissima. Si dice, infatti, delle persone che, il mattino, si alzano di pessimo umore e sono, quindi, intrattabili, irritabili.
   La locuzione si rifà all'immagine di coloro che, nei tempi andati, erano soliti dormire con la cuffia in testa e per via di un sonno agitato e pieno di incubi andava loro di traverso; quando si svegliavano, per tanto, erano di pessimo umore per la cattiva nottata trascorsa.
   Il modo di dire si riferisce anche alle persone che - nella mattinata - incorrono in una serie di contrattempi: lasciami stare, questa mattina la sveglia non ha sonato, l'automobile non mi è partita e ho perso l'autobus! Si adopera anche nella variante "svegliarsi con la cuffia storta".

mercoledì 15 maggio 2019

Qualche o alcuni?

Qualche considerazione su "qualche" e "alcuni", entrambi aggettivi indefiniti. Il primo si usa soltanto nella forma singolare, il secondo solo al plurale, ma ambedue hanno gli stessi impieghi; si possono adoperare, quindi, indifferentemente essendo intercambiabili.
   Nell'uso corrente, però, qualche la fa da padrone. Possiamo dire (e scrivere) tranquillamente, per esempio, e senza cadere in errore, che «Paolo è uscito di casa da alcuni minuti o da qualche minuto». Solo una lievissima "sfumatura" differenzia i due aggettivi: qualche mette in risalto l'indeterminatezza; alcuni evidenzia una certa consistenza numerica.
   Qualche, inoltre, oltre alla pluralità, può esprimere anche altri significati: "uno" (non trovo più la borsa, eppure in qualche parte l'avrò riposta); "un certo" (è un libro di una qualche importanza); "qualsiasi" (una qualche prova ci dovrà pure essere).
   Un'ultima annotazione. Il singolare di alcuni, "alcuno", si adopera esclusivamente nelle frasi negative ed equivale a "nessuno",  ed  è preferibile a quest'ultimo perché ha un "sapore aulico"; mentre in quelle positive è sostituito da qualche: non posso darti alcun consiglio in proposito; mi occorre qualche giorno per trovare una soluzione.


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La lingua "biforcuta" della stampa

Da un quotidiano in rete:
Intanto Atac proroga il bando per l'acquisto di 240 nuovi mezzi in attesa dell'ultima via libera sul concordato
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Vocabolario Sabatini Coletti:
via libera

[vi-a lì-be-ra] loc. sost. m. inv.
1 Passaggio consentito, perlopiù come segnale stradale o ferroviario: aspettare il via libera

2 fig. Autorizzazione: è arrivato il via libera del Ministero

 

martedì 14 maggio 2019

Denigrare e insultare

Quando denigriamo una persona sappiamo benissimo - "per pratica" - che il suddetto verbo significa diffamare, screditare, togliere ad altri il buon nome con volontaria malizia. Quando denigriamo qualcuno, dunque, gli "togliamo il buon nome". Ma come? Tingendolo di nero.
     Il verbo in questione, infatti, vale - propriamente - "tingere di nero" venendo pari pari dal latino denigrare, composto con la particella intensiva de e il sostantivo niger, nigri, nero. È un verbo denominale, quindi. Adoperato estensivamente nel senso di "annerire il buon nome" il verbo in oggetto ha acquisito, in lingua volgare (l'italiano), l'accezione figurata di diffamare tingendo di nero, per l'appunto, il (buon) nome di una persona.
    Quando, invece, insultiamo qualcuno, vale a dire l'ingiuriamo, l'oltraggiamo, figuratamente gli "saltiamo sopra". Anche questo verbo è pari pari il latino insultare, forma intensiva di insilire, "saltar su", composto con la particella in (su, sopra, contro) e salire, saltare. Non diciamo, infatti, sempre in senso figurato, che «quella persona mi è saltata addosso»? Vale a dire mi ha offeso, ingiuriato.
     E a proposito di ingiuria, cioè di offesa, quando la "mettiamo in atto" non facciamo altro che una "cosa ingiusta" ledendo il diritto di una persona. Questo termine, infatti, è un derivato del latino iniurius, ingiusto, formato con il prefisso in negativo (che toglie) e ius, iuris, diritto. L'ingiuria, per tanto, è «tutto ciò che è fatto in onta al diritto di qualcuno». L'ingiuria, insomma, è ogni fatto detto o scritto dolosamente allo scopo di "togliere il buon nome" a una persona ed è affine, quindi, ma non "uguale", alla denigrazione.

domenica 12 maggio 2019

Ancora sulla "lingua" della stampa

Da un quotidiano in rete riportiamo lo stralcio di un articolo che - a nostro modo di vedere - contiene delle "imperfezioni" grammaticali e delle ambiguità:
    Il battesimo del fuoco del nuovo prefetto di Roma potrebbe essere lunedì 13 maggio alla Sapienza, se i neofascisti di Forza Nuova daranno seguito alla minaccia di voler impedire a Mimmo Lucano di parlare agli studenti. Gerarda Pantalone dovrà assumersi in quel caso una grossa responsabilità: consentire o meno, come naturalmente speriamo, che l’università ripiombi nella cupa atmosfera di mezzo secolo fa quando le provocazioni squadriste erano all’ordine (…).
    Cominciamo con il "nuovo prefetto" in luogo della forma corretta  "nuova prefetta", perché si tratta di una gentile donna, per l'appunto. Quanto a "o meno", in funzione disgiuntiva, con il significato di "no" ("non") in buona lingua italiana è da evitare, come fa rilevare Luca Serianni, accademico della Crusca: «Locuzione  molto diffusa ma da evitare almeno nello scritto e nel parlato piú formale». Non si capisce, infine, dall'inciso ("come naturalmente speriamo") che cosa spera l'autore (ripiombare nell'atmosfera di mezzo secolo fa, o no?).

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Auguri a tutte le mamme, lettrici di questo portale

sabato 11 maggio 2019

I "cacasenni"? No. I "cacazibetti"? Sí


Perché "cacasenno" non si pluralizza e "cacazibetto" sí? Ci piacerebbe che qualche linguista (o lessicografo) - piú "esperto" di chi scrive - ci svelasse questo arcano.
  Entrambi i vocaboli sono composti di una voce verbale e di un sostantivo maschile singolare, e i nomi cosí formati nella forma plurale mutano la desinenza del sostantivo: il parafango / i parafanghi; il rompicollo / i rompicolli; il passaporto / i passaporti. Non ci "entra nella testa", quindi, perché cacasenno debba rimanere invariato.
  Ma non è finita, perché per quanto attiene al "cacazibetto", sinonimo di "elegantone", "bellimbusto", "vanesio", alcuni vocabolari attestano il femminile "cacazibetta" con il rispettivo plurale "cacazibette". 
  Altri, invece, sono "salomonici": invariato o plurale. Il termine in questione, invece, come "ficcanaso", non ha il femminile e si pluralizza solo se riferito a un maschile: il cacazibetto / i cacazibetti. Nel femminile resterà invariato: la cacazibetto / le cacazibetto.

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DOP (Dizionario di Ortografia e di Pronunzia)









giovedì 9 maggio 2019

Lo avreste mai immaginato che...

... contrariamente a quanto uno  portato a credere colui che medita non è tanto il filosofo quanto e soprattutto il medico? Sotto il profilo etimologico - ovviamente - il medico si può definire, infatti, "il meditabondo".
  Se ricerchiamo l'origine del termine vediamo che esso non è altro che il solito... latino "medicu(m)", derivato del verbo "mederi", riflettere, meditare per curare, sanare e per estensione, quindi, "curare" (dopo aver riflettuto, meditato).

... con il termine "ingenuo" - il cui significato, crediamo, è noto a tutti - in origine si intendeva il neonato "preso dal padre sulle sue ginocchia"? Come si è arrivati all'accezione di "persona poco accorta", "persona priva di malizia"? Vediamo assieme i vari passaggi semantici risalendo, come sempre, alla lingua dei nostri padri latini. 
   Ingenuo, dunque, è il latino "ingenuu(m)", derivato di "genu" (ginocchio) e aveva il significato su detto, valendo, per tanto, "riconosciuto autentico" (dal padre). Con il trascorrere del tempo il vocabolo fu inteso come formato da "in" e "genus" (casato, stirpe) conservando press'a poco l'accezione originaria: nato da stirpe interna (non da schiavi o barbari) e, quindi, "libero", "nobile". 
   Passato in lingua volgare (italiano), il vocabolo, attraverso il significato di "schietto", "genuino", "libero nel parlare", ha acquisito l'accezione di "eccessivamente spontaneo", "poco accorto", "senza malizia".
   Ma le sorprese non finiscono. Prima che il termine approdasse in Italia (si fa per dire) anche nella lingua di Cicerone "ingenuus" era adoperato, talvolta, come sinonimo di "limitato", "sprovveduto", "debole", "delicato".

mercoledì 8 maggio 2019

Un incarico (o un posto) si "(ri)copre" o si "occupa" (si "tiene")?

Il verbo "coprire", leggiamo dal Tommaseo-Bellini, significa «porre alcuna cosa sopra a checché sia, che l'occulti o che la difenda». Tutti (?) i vocabolari - e la stampa li segue - gli danno un'accezione che etimologicamente non ha: reggere, tenere, percorrere, occupare e simili.
   Quando sulla stampa leggiamo frasi del tipo «il corridore ha coperto i restanti chilometri in dieci minuti; i fondi ha disposizione non sono sufficienti per coprire le spese; il Tizio ha (ri)coperto l'incarico per tre anni» non possiamo trattenerci dal ridere perché davanti ai nostri occhi compaiono le immagini del corridore che si ferma e copre i restanti chilometri con un tappeto. Nelle frasi su menzionate il verbo coprire è "spudoratamente" errato.
  I verbi che fanno alla bisogna sono, nell'ordine: percorrere, sostenere, tenere. Sí, saremo censurati da qualche linguista, ma... facciamo spallucce e andiamo avanti. E agli amanti del bel parlare e del bello scrivere consigliamo di attenersi al vocabolario del Palazzi che scrive: «erroneo dire coprir le spese, per ricavare da una cosa le spese occorse per essa; coprire un posto, un ufficio, per occuparlo, sostenerlo; coprirsi, per mettersi in capo il cappello il N. adombrare, ammantare, avvolgere, bendare, celare, circondare, chiudere, difendere, fingere, imbacuccare, mascherare, mimetizzare, nascondere, occultare, ricoprire, riparare, rivestire, soffocare, tappare, velare, verniciare i contr. scoprire».

domenica 5 maggio 2019

L'articolo con i nomi di parentela

Molto spesso siamo incerti sull'uso dell'articolo con i nomi di parentela, chiamati "singenionimi", dal greco "syngenes" (‘parente’) e "-onimo" (nome). Vediamo, nel nostro piccolo, di fare un po' di chiarezza, perché non tutti i "sacri testi" trattano l'argomento.  
  Con padre, madre, figlio, figlia l’articolo si omette; va sempre espresso, invece, con le varianti affettive, vale a dire con babbo, papà, figliolo, figliola. Vediamo, in proposito, un bellissimo esempio del Verga: «Ringraziava Dio e i santi che avevano messo il suo figliuolo in mezzo a tutte quelle galanterie».
  Nell’uso familiare sono ben radicati i tipi mia mamma e mio papà – anche fuori della Toscana, dove questi linguismi la fanno da padroni – ma che noi sconsigliamo recisamente perché cozzano, per l’appunto, con il buon uso della lingua di Dante.
  Con altri singenionimi (sorella, fratello, nipote, ecc.) l’uso toscano predilige l’articolo ma non per questo sono da considerare fuori legge le forme senza, ben rappresentate, del resto, anche in ottimi scrittori della terra del Divino. Personalmente preferiamo le forme non toscaneggianti (quelle senza articolo): tuo cugino, quindi, a nostro modestissimo avviso, è meglio che non il tuo cugino. Non siete d’accordo anche voi?
  E in questo caso – una tantum – ci facciamo forti della legge dell’orecchio. Insomma, amici, la grammatica, a questo proposito, ci lascia agire secondo coscienza linguistica, vale a dire ci lascia liberi di adoperare o no l’articolo senza incorrere – nell’un caso o nell’altro – in madornali strafalcioni.
Ci obbliga, invece, all’uso dell’articolo davanti ai singenionimi – sempre che lo scrivente o il parlante voglia rispettare le leggi linguistiche – nei seguenti casi:
   a) con gli alterati (la mia sorellina);
   b) con alcuni singenionimi particolari, tipo figliastro, patrigno e matrigna (il vostro patrigno non meritava una simile umiliazione);
   c) con i sostantivi che potremmo definire parasingenionimi, ossia con i nomi che esprimono un rapporto sentimentale che non rientra, o non rientra ancora, nei vincoli di parentela: fidanzato, amante, moroso, bella, bello, ragazzo e simili (la mia bella, il mio ragazzo, la mia morosa, la sua fidanzata);
   d) quando, in costrutti con valore enfatico, l’aggettivo possessivo è posposto al singenionimo (il nonno tuo, la suocera sua, il nipote vostro).
  Possiamo scegliere di omettere l’articolo, invece – la grammatica ci dà ampia facoltà – quando un singenionimo è accompagnato dal nome o dal cognome: mio cognato Arturo, sua nonna Evelina, vostra nuora Palmira. Non sono errate, come dicevamo, le forme con l’articolo; nell’uso, però, è più frequente l’omissione e noi propendiamo per quest’ultima.
  C’è da dire, per concludere, che senza l’aggettivo possessivo l’uso formale richiede sempre l’articolo con i nomi di parentela, anche se babbo, mamma e papà – comunemente – si adoperano senza articolo. In quest’ultimo caso, però, la soppressione dell’articolo è in regola con le leggi della grammatica solo quando il singenionimo si riferisce ai genitori dell’interlocutore o del parlante.
  Non si potrebbe dire, infatti – ed è evidente la stonatura – mamma di Maria non è partita. La sola forma corretta – va da sé – è la mamma di Maria non è partita. E noi speriamo che non parta – lancia in resta – qualche pseudolinguista - nel caso si imbatta in questo sito - pronto a contraddirci… Se così fosse, però, la cosa ci lascerebbe nella più squallida indifferenza.



venerdì 3 maggio 2019

Cavalcar la capra

Questo modo di dire - forse poco conosciuto - si riferisce a coloro che si comportano in modo sconsiderato mettendosi, per tanto, in una situazione a loro sfavorevole, prestandosi a un tiro... mancino.
   La capra - si sa - è considerata un animale un po' matto; cavalcarla è, quindi, il colmo dell'imprudenza, soprattutto verso la china (i dirupi sono "prediletti" da questo quadrupede).
  Lo scrittore francese  Buffon (Georges-Louis-Leclerc) cosí "dipinge" questo animale: «La capra è viva, capricciosa e vagabonda.   L'incostanza della sua natura si evidenzia dalla irregolarità delle sue azioni; cammina, si arresta, corre, salta, si avvicina, si allontana, si mostra e si nasconde, o fugge, come per capriccio e senza altro motivo determinante che quello della sua vivacità bizzarra del suo sentimento interiore; e tutti i nervi del corpo sono appena sufficienti alla rapidità di questi movimenti che le sono naturali».
 Colui, quindi, che, in senso figurato, cavalca la capra sa benissimo a cosa va incontro. Uomo avvertito...

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Ci sono alcuni vocaboli che - a nostro modo di vedere - andrebbero relegati nella "soffitta della lingua" perché consunti dall'uso improprio che - complice la stampa - se ne fa. Le cronache dei giornali sono, per l'appunto, un esempio lampante.
 Prendiamo l'aggettivo "squallido" che etimologicamente significa "rozzo", "sudicio", essendo tratto dal verbo latino "squalere" (esser ruvido, aspro); quest'aggettivo, dicevamo, è bene adoperarlo solo in senso proprio: una casa squallida, cioè "misera", "rozza", arredata con mezzi di fortuna.
 Molto spesso i giornali ne fanno un uso metaforico adoperandolo a ogni piè sospinto, con considerazioni morali: il delitto è maturato nello squallido ambiente della prostituzione; oppure: l'imputato ha avuto un ruolo di primo piano in quella squallida vicenda.
 Squallido, è bene ripeterlo, è tutto ciò «che si trova in uno stato di miseria e di abbandono, tale da infondere tristezza», l'uso metaforico eccessivo ha reso questo aggettivo... "squallido", non sarebbe bene, quindi, relegarlo in soffitta e adoperare, volendo fare un apprezzamento morale, i piú appropriati "sostituti", vale a dire avvilente e deprimente? Un ambiente deprimente; una vicenda avvilente.
 Sappiamo benissimo di predicare al vento. Però, non si sa mai...