martedì 30 novembre 2010

Il singenionimo


Gentile dott. Raso,
recentemente mi sono imbattuto in un termine mai sentito: singenionimo. Ho consultato i vocabolari in mio possesso ma non ho trovato traccia del vocabolo in oggetto. Lei può aiutarmi?
Grazie e cordialità
Amedeo T.
Pesaro
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Ha ragione, cortese amico, il vocabolo non è attestato nella quasi totalità dei vocabolari (e francamente non capisco il perché). È un termine “tecnico” della lingua, viene dal greco “syngenes” (‘parente’) e “-onimo” (nome) e indica il “grado di parentela”. Per maggiori informazioni può cliccare su questo collegamento: http://faustoraso.ilcannocchiale.it/2007/11/01/i_singenionimi.html

lunedì 29 novembre 2010

Il modificante



Nessun “sacro testo” in nostro possesso specifica che l’avverbio è chiamato anche “modificante” perché modifica, per l’appunto, il significato di un verbo, di un nome, di un aggettivo o di un altro avverbio. L’avverbio, dunque, prende il nome dal latino “adverbum”, composto con “ad” (accanto, presso) e con “verbum” (parola) e costituisce una delle nove parti del discorso. Non specificano inoltre - sempre i “sacri testi” in nostro possesso - che i modificanti (gli avverbi) si sogliono dividere in tre categorie: semplici, composti, derivati.
Sono semplici quei modificanti che non derivando da altre parole hanno forma autonoma: già; mai, bene; oggi, domani; ieri; forse; poco ecc. Sono chiamati composti quelli che in origine costituivano delle locuzioni avverbiali formate da due o piú termini, poi fusi in un’unica parola (la cosí detta univerbazione): inoltre (in oltre); infatti (in fatti); indietro (in dietro); talvolta (tal volta) ecc. Si chiamano derivati, infine, i modificanti o avverbi che traggono origine da un termine mediante l’aggiunta di un suffisso, come “-mente” o “-oni (one)”: sereno/serenamente; bello/bellamente; onesto/onestamente; balzello/balzelloni; ginocchio/ginocchioni ecc.
Accanto agli avverbi veri e propri ci sono le locuzioni avverbiali , che hanno il medesimo significato e la medesima funzione grammaticale dei modificanti. Sono frasi fatte costituite da gruppi di termini in sequenza fissa. Vediamone qualcuna: a poco a poco; or ora; a stento, d’ora in poi; all’improvviso; di frequente; per caso; di bene in meglio ecc.

domenica 28 novembre 2010

Asserpolato


Tra le parole della nostra bella lingua da salvare metteremmo, questa volta, due aggettivi, l’uno denominale, l’altro deverbale: asserpolato (viene da serpe) e avaccevole (dal verbo avacciare, ‘sollecitare’, ‘affrettare’). Il primo significa “piegato a guisa di serpe”, “attorcigliato” e simili. Una volta si adoperava per insegnare ai fanciulli a riconoscere la “S”: quest’asserpolata è un’esse. Crediamo che lo registri ancora solo il GDU del De Mauro. Il secondo sta per “sollecito”, “affrettato”: si avvicinò a lui con passo avaccevole. Sembra si trovi ancora nel vocabolario del Palazzi.

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«Or sono» o «orsono»?

La sola grafia “corretta”, a nostro modo di vedere, è quella scissa. Non mancano, comunque, esempi di scrittori che preferiscono quella univerbata (orsono), tra cui, se non cadiamo in errore, Sciascia. Ora si tronca in “or” in alcune combinazioni cristallizzate, come “or ora” e in altre già unificate, come “ormai”. Non ci sembra il caso di “orsono” la cui grafia univerbata non è ancora cristallizzata. Una ricerca con Google ha dato, infatti, questi risultati: or sono, 30.600.000 occorrenze; orsono, 344.000 occorrenze.
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Una parola dello Zingarelli al giorno (dal sito della Zanichelli):
mitomanìa / /[fr. mythomanie, comp. del gr. mŷthos ‘mito’ e -manie ‘-mania’ ☼ 1930]s. f.● (psicol.) Tendenza a falsificare la realtà tramite racconti fantasiosi non veritieri per attirare l'attenzione su di sé.
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A nostro modesto avviso la “spiegazione” contiene una tautologia ("ripetizione"), che un vocabolario dovrebbe evitare: fantasiosi non veritieri. Se sono fantasiosi... è chiaro che non sono veritieri.

sabato 27 novembre 2010

Il bello scrivere


Molto spesso nello scrivere adoperiamo - probabilmente senza rendercene conto - parole generiche e “logorate”; è perciò buona norma fare un piccolo sforzo per ridurre al minimo questo “inconveniente” sostituendo i termini “logori” con altri, a volte meno comuni, ma anche piú efficaci e precisi nel significato. Sperando di non essere tacciati di pedanteria diamo alcuni esempi di parole facilmente sostituibili con altre, che fanno alla bisogna secondo il contesto.
Tra virgolette i termini piú appropriati: fare un’impresa, “compiere”; dare una notizia, “comunicare”; avere simpatia, “nutrire”; avere indosso, “indossare”; dare un incarico, “affidare”; fare un favore, “concedere”; avere un’automobile, “possedere”; dare un ceffone, “assestare”; fare un affare, “concludere”; dare in dono, “donare”; fare un regalo, “regalare”; fare un bel lavoro, “eseguire”; avere un messaggio, “ricevere”. Sono solo alcuni esempi che ci sono venuti alla mente, ma se ne potrebbero fare a iosa. Come si può vedere, la scelta delle parole, anche se viene spesso sottovalutata, o vissuta come una preoccupazione pedantesca, è estremamente importante perché dà ai nostri scritti un tocco di eleganza stilistica. Fine ultimo che dovrebbe stare a cuore a chi ama il bel parlare e il bello scrivere.

venerdì 26 novembre 2010

L'appartamento



Cortesi amici, vi siete mai chiesto che cosa è un appartamento? Certo, basta consultare un vocabolario della lingua italiana e l’ “arcano” è risolto. Si clicchi, infatti, su appartamento.
Quello che non tutti sanno, forse, è il motivo per cui l’abitazione si chiama “appartamento”. Il motivo è semplicissimo: il termine viene dal verbo “appartare” (dal latino “ad-partare”) nella duplice accezione di ‘separare’ e di ‘fare le parti’ (‘dividere la casa in parti’).
http://www.etimo.it/?term=appartamento

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Alcuni amici blogghisti si chiedono se è “piú corretto” scrivere (e dire) ‘chi sa’ o ‘chissà’. Entrambe le grafie sono corrette, non c’è una “piú corretta” dell’altra.
È consigliabile, però, usare la forma scissa, ‘chi sa’, quando ha valore strettamente verbale: chi sa se ci rivedremo; verrò, ma chi sa quando? Se, invece, la locuzione è adoperata come inciso e con valore dubitativo e può essere sostituita con un ‘forse’, è ‘probabile’, ‘può darsi’ e simili è preferibile scriverla in un'unica parola: verrai a trovarmi? Chissà (forse); egli credeva, chissà (può darsi), di essere nel giusto.

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Guardate come il “coniugatore” della http://www.scuolaelettrica.it/ coniuga il presente indicativo del verbo “sgranchire”:
io sgrancho
tu sgranchi
egli sgranche
noi sgranchiamo
voi sgranchite
essi sgranchono
Ci auguriamo che gli studenti, che si affidano ai vari coniugatori di verbi disseminati sulla rete, non cadano in questa “trappola”.
Ma non è finita. Guardate la coniugazione, completa, di “tradire”. Digitate il verbo dopo aver cliccato su questo collegamento: http://www.scuolaelettrica.it/quiz/media/classe2/italiano/coniugatore.shtml


giovedì 25 novembre 2010

C'è tornante e... tornante


Il tornante, sostantivo che sta per “curva”, è un francesismo che in buona lingua andrebbe evitato. Non lo sostiene l’estensore delle modeste noterelle sulla lingua italiana, lo consiglia un padre della Lingua, Aldo Gabrielli.
Tornante, sostantivo maschile, brutto francesismo, modellato su “tournant”, nel significato di “svolta di strada”: “una strada tutta a tornanti”. Ma “tournant” è propriamente il participio presente sostantivato del verbo “tourner”, che significa “girare”; mentre “tornante” è participio presente di “tornare”, che ha ben diverso significato: “la tornante primavera”. L’italiano dice “curva”, “svolta”, “giravolta”, “serpentina”, “zig-zag”: “una strada tutta a curve”.
Personalmente seguiamo gli insegnamenti del compianto Maestro. Voi, amici?

mercoledì 24 novembre 2010

Espletare? Lasciamolo ai burocrati

L’argomento, forse, è già stato trattato sul “Cannocchiale”. Lo riproponiamo, comunque, perché come dicevano i Latini...

Probabilmente molti linguisti dissentiranno su quanto stiamo per scrivere, ma siamo confortati da numerosi vocabolari, quelli con la V maiuscola.
In buon italiano non è consigliabile adoperare il verbo espletare nel significato di «adempiere, compiere, ultimare» e simili.
Il verbo in oggetto è di sapore burocratico e in quanto tale è meglio lasciarlo alla... burocrazia. Chi ama il bel parlare e il bello scrivere userà (nei suoi componimenti) verbi più appropriati alla bisogna come finire, portare a compimento, concludere e simili; la nostra lingua è ricca di verbi similari.
Così pure sarà bene evitare i sostantivi (fuori del linguaggio burocratico) espletazione ed espletamento.


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La terza persona singolare del presente del verbo essere si scrive tassativamente con l’accento grave (è). Il problema nasce con la maiuscola (È). Molti, per non dire quasi tutti, usano - commettendo un grave errore - l’apostrofo (E’) perché la tastiera del computiere non ha il tasto con la e grave maiuscola.
Coloro che adoperano “word” possono ottenere la È in due modi:
digitare la è (minuscola, presente sulla tastiera), evidenziarla e premere contemporaneamente i tasti “maiuscolo” e “F3”;
tenere premuto il tasto “alt” e digitare sul tastierino numerico (a sinistra della tastiera) 212; quindi: alt + 212 = È.

Cediglia: premere contemporaneamente tasto maiuscolo e tasto della o accentata (ò): ç, Ç

Accento circonflesso: premere contemporaneamente tasto maiuscolo, tasto “ctrl” e tasto circonflesso e dopo averli lasciati digitare la vocale che deve avere l’accento circonflesso: ê, ô, î

Dieresi: premere in contemporanea tasto maiuscolo, tasto “ctrl” e tasto due punti, poi “liberarli” e digitare la vocale interessata: ï, ë


Per le maiuscole identico procedimento, poi selezionare le vocali e premere tasto maiuscolo e “F3”: ô, Ô, ê, Ê

ç, Ç

ü, Ü

martedì 23 novembre 2010

Cestinare


Due parole, due, sull’uso corretto di questo verbo derivato di cestino, che alla lettera significa “gettare qualcosa nel cestino (dei rifiuti)” e, con uso figurato, riferito a scritti, “respingere”, “rifiutare” e simili: le lettere anonime saranno cestinate; quell’articolo è stato cestinato dal direttore. Ci sembra un uso improprio del verbo quando si riferisce a cose astratte che non hanno alcun rapporto con il cestino: le tue idee, amico mio, sono tutte da cestinare. I verbi da usare in questo caso, e in altri simili, sono “respingere”, “scartare”, “rifiutare” e simili: le tue idee sono da respingere. Alcuni vocabolari sono dalla nostra parte, altri no. Voi, amici amatori del bel parlare e del bello scrivere, seguite la vostra “coscienza linguistica”.

lunedì 22 novembre 2010

Qualcosa e qualche cosa




Alcuni vocabolari classificano ‘qualcosa’ di genere femminile, altri di genere maschile, altri ancora di ambo i generi. Vediamo un po’ di fare chiarezza. Intanto è un pronome indefinito ed è la forma contratta di ‘qual(che) cosa’ e per il suo valore indeterminato è considerato di genere neutro, quindi maschile: qualcosa è stato fatto; qualcosa non è andato per il verso giusto. In grafia univerbata, come forma contratta di qualche cosa, è preferibile, dunque, consideralo sempre di genere maschile. Sarà tassativamente femminile, invece, in grafia scissa (cosa, infatti, è di genere femminile): qualche cosa è stata fatta, qualche cosa non è andata per il verso giusto. In una parola sola gli alterati, che sono di genere femminile: qualcosina; qualcosetta; qualcoserella; qualcosellina; qualcosuccia.


domenica 21 novembre 2010

«Nelle more...»









Perché si dice “Nelle more”?
L’espressione non ha nulla che fare con le... more. Si veda questo collegamento:
http://www.accademiadellacrusca.it/faq/faq_risp.php?id=8479&ctg_id=44
E a proposito di “mora”, che ha molteplici significati, si clicchi su questo collegamento per “scoprirne” i vari passaggi semantici:
http://www.etimo.it/?term=mora&find=Cerca

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Cortese dott. Raso,
a proposito della donna condannata alla lapidazione perché accusata di blasfemía, vorrei sapere se questo termine è sinonimo di bestemmia.
Grazie e cordiali saluti.
Lorenzo S.
Ragusa
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Sí, gentile Lorenzo, i due termini sono sinonimi. Quanto a blasfemía mi sembra interessante notare che si può pronunciare anche con l’accento sulla “e”: blasfèmia. Veda, in proposito, questo collegamento:
http://www.dizionario.rai.it/poplemma.aspx?lid=79729&r=3937
Per quanto attiene, invece, all’ “origine etimologica” di blasfèmia clicchi su
http://www.etimo.it/?term=bestemmia&find=Cerca

sabato 20 novembre 2010

«La grande assise»

Dal sito della “Dante Alighieri”:


150° DELL’UNITÀ D’ITALIA: PRESENTATA A TORINO LA GRANDE ASSISE DELLA “DANTE” SULLA LINGUA ITALIANA
Ven, 19/11/2010 - 09:49 — admin Torino
19/11/2010
L’80° Congresso della Società Dante Alighieri si svolgerà a Torino dal 30 settembre al 2 ottobre 2011, nell’ambito di Esperienza Italia, il grande evento che celebrerà i 150 anni dell’Unità del Paese

Si è svolta il 18 novembre scorso presso l’Archivio di Stato di Torino la conferenza stampa dell’80° Congresso Internazionale della Società Dante Alighieri, in programma dal 30 settembre al 2 ottobre 2011 sul tema “Unità d’Italia e unità linguistica, tra storia e contemporaneità”, nell’ambito di Esperienza Italia.
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Non avremmo mai immaginato che la “Dante Alighieri” potesse “scivolare” sulla lingua italiana (che tende a tutelare). “Assise”, è bene ricordarlo, è solo femminile plurale. La grafia corretta è, dunque, “... A Torino le grandi assise della ‘Dante’...”. Non vorremmo che qualche lettore sprovveduto fosse indotto in errore. Il Dop, dizionario di ortografia e pronunzia, un’autorità in materia, parla chiaro. Si clicchi su questo collegamento:
http://www.dizionario.rai.it/poplemma.aspx?lid=88676&r=54778


Sentiamo anche un altro parere, quello del linguista Aldo Gabrielli:

Assise è sostantivo femminile plurale, il plurale di “assisa”, che significa “seduta”, e deriva dal participio passato del verbo “assidersi”, cioè da “assiso”. L’uso di questa voce ci è giunta dal francese nella sua forma plurale, “les assises”, e il plurale si spiega col fatto che la parola non indicava l’assemblea in sé ma le sedute di un’assemblea nel loro complesso. Termine squisitamente storico, questo plurale “assise” era fino a poco tempo fa riservato solo al linguaggio colto; era comune solo nell’espressione “Corte d’assise”, appunto per indicare il complesso delle sedute di una Corte penale durante l’anno giudiziario. Entrato nell’uso di tutti i giorni attraverso i resoconti giornalistici, non è stato inteso come un normalissimo plurale di un nome singolare in “-a” (l’assisa, le assise), ma come il singolare di un nome in “-e”; cosí si è cominciato a dire, e peggio ancora a stampare, “l’assise socialista”, “la grande assise politica”, e, trascinati dall’errore, ecco foggiarsi un plurale “assisi”, sí che oltre all’errore comunissimo di “Corte d’assisi” si sente spesso dire “le assisi politiche, democristiane” ecc. Attenti a non cadere in questo grossolano errore. Chi voglia usare questa solenne parola, la usi pure, ma senza sgrammaticare.

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Assitare

Ancora una parola, o meglio, un verbo da salvare perché in via di estinzione: assitare.
È un denominale provenendo dal sostantivo “sito” (‘odore’, di origine toscana) e significa “sentire l’odore”, “scoprire il fiuto”: il lupo ha assitato le pecore. Con uso estensivo “impuzzolire”: le sigarette hanno assitato l’ambiente.






venerdì 19 novembre 2010

Rallentare: ausiliare essere o avere?


Da "Domande e Risposte" del Treccani in rete:
Vorrei sapere se il verbo “rallentare” quando intransitivo prende come ausiliare il verbo “essere” o il verbo “avere”.

Specialmente se parliamo di veicoli e di guidatori, rallentare intransitivo, nell’accezione di ‘andare più piano’ ha come ausiliare avere: in curva la macchina ha rallentato. Nell’accezione di ‘essere meno veloce (del previsto), divenire più lento’, l’ausiliare di rallentare intransitivo è essere: il ritmo è rallentato; nell’ultimo semestre la crescita dei profitti è rallentata.
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Ci spiace, ma dobbiamo mettere in evidenza che la risposta non rispecchia quanto si legge nel vocabolario Treccani in linea, dove non si menziona affatto l’uso dell’ausiliare avere:
rallentare v. tr. [der. di lento, col pref. ra–] (io rallènto, ecc.). –
1. Rendere lento, o più lento, meno veloce: r. il passo, la marcia; r. il moto, la velocità; l'automobile rallentò la sua corsa; Come a corrier tra via, se 'l cibo manca, Conven per forza r. il corso (Petrarca); r. il tempo, in un'esecuzione musicale; r. il gioco (nel calcio, nel tennis, ecc.), renderlo meno rapido, meno vivace o intenso, per stanchezza, o intenzionalmente per fini tattici. Frequente l'uso assol.: rallenta un po', non riesco a tenerti dietro; è buona norma di prudenza, per chi guida, r. agli incroci; entrando in stazione, il treno rallenta progressivamente; con valore più chiaramente intr. (aus. essere), con o senza la particella pron.: mi pare che la velocità sia rallentata, sia diminuita; il suo passo si rallentò; nelle ultime battute, il tempo rallenta (v. anche rallentando).

giovedì 18 novembre 2010

Assorbire e calcolare


A nostro modo di vedere, questi due verbi non vengono quasi mai adoperati a dovere. Cominciamo con “calcolare”, il cui significato proprio è “fare i conti, i calcoli” (i latini usavano i sassolini, i calcoli per fare i.... calcoli; di qui il verbo). Spesso si usa col significato di “stimare”, “valutare”, “considerare”, “soppe-sare”, “pensare” e simili: partiamo domani mattina alle sei e calcoliamo di essere da te entro un’ora e mezzo. Un costrutto simile è un francesismo, e in buona lingua italiana - a nostro avviso - è da evitare. Lo stesso discorso per quanto riguarda il verbo “contare”: conto su di te. Molto meglio: faccio affidamento su di te.
E veniamo al verbo “assorbire” il cui significato “principe” è “inghiottire liquidi” (
http://www.etimo.it/?term=assorbire&find=Cerca ). Nell’uso corrente si adopera nel senso di “portar via”, “consumare”, “prendere”, “esaurire”, “impegnare” e simili: non posso uscire perché il lavoro mi assorbe tutto il pomeriggio. È un uso improprio del verbo. Si dirà, piú appropriatamente: il lavoro mi impegna tutto il pomeriggio. Per quanto riguarda la coniugazione può prendere o no l’infisso “-isc-”: assorbo e assorbisco. Ha due participi passati: assorbito e assorto. Quest’ultimo di uso raro, però.

mercoledì 17 novembre 2010

«Rinnovare» il carcere duro


L’accezione primaria del verbo “rinnovare” è ‘rendere nuovo’, si veda rinnovare. Questa piccola premessa per introdurre un titolo di “Libero” di ieri, anzi un sommario, come si dice in gergo giornalistico: «Nel 1993 il Guardasigilli Conso non rinnovò il carcere duro a 140 boss». Tralasciamo il barbarismo “boss” e occupiamoci del verbo, che a nostro modo di vedere è adoperato impropriamente se non, addirittura, errato. I titolisti del giornale avrebbero dovuto impiegare un verbo appropriato, nella fattispecie “confermare”, “prolungare” e simili. Qualche linguista “d’assalto” ci contesterà, ma andiamo avanti convinti della bontà della nostra tesi.

martedì 16 novembre 2010

Passare in cavalleria


Gentile dott. Raso,
potrebbe spiegare, cortesemente, cosa significa “passare in cavalleria”? Sento spesso quest’espressione ma, le confesso, non ne “afferro” il significato.
Seguo sempre le sue “noterelle” sul buon uso della lingua italiana. Grazie e cordialità.
Gennaro S.
Capua (CE)
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Cortese Gennaro, questo modo di dire è stato trattato - molto tempo fa - sul “Cannocchiale”. Glie lo ripropongo.
Appena attaccata la cornetta del telefono Giannino si rivolse alla moglie con aria mesta ed esclamò:
“Ormai di quell’affare non se ne fa piú nulla, non se ne parla piú, cara, è passato in cavalleria”. Il
figlio Marco, sentendo questa frase che ai suoi orecchi sonava ridicola, non potè fare a meno di
chiedere spiegazioni circa l’uso e le origini. Come può un affare andare a cavallo, pensò, e
soprattutto che cosa significa “passare in cavalleria”?
Si usa questo modo di dire – come i piú sanno – quando si vuole mettere in risalto il
comportamento scorretto di una persona alla quale è stato prestato un oggetto che non viene piú
restituito; oppure, per estensione, il comportamento non “cavalleresco” di una persona che trascura, ma soprattutto che non mantiene gli impegni presi e concordati.
Quante volte, gentili amici, vi sarà capitato di notare che un accordo preso con qualcuno non è
stato rispettato e che il tutto è “passato in cavalleria”? Per contarle occorrerebbe una calcolatrice.
Ma vediamo l’origine della locuzione che ci è stata tramandata dal gergo militare. Nei tempi
passati nell’arma di Cavalleria militavano, per lo piú, nobili e ricchi, mentre nella Fanteria
prestavano servizio soldati di umili origini che nulla potevano contro i soprusi cui venivano
sottoposti da parte dei “cavalieri”: ai fanti venivano sequestrati vesti, coperte, vettovaglie e tutto ciò che potesse rendere piú confortevole la vita militare al “cavaliere”.
Va da sé che gli oggetti “passati in cavalleria” non venivano piú restituiti ai legittimi proprietari:
Di qui il passaggio di significato.
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Cortese dott. Raso,
rassettando la soffitta ho rinvenuto un vecchio libro di mio nonno, l’ho aperto a caso e mi ha colpito un verbo che non avevo mai sentito: “escruciare”. Le riporto la frase: «Il padre, spazientito, disse al figlio che non avrebbe dovuto piú escruciare la madre con le sue richieste inammissibili». Ho cercato il verbo nei dizionari, invano. Sa dirmi il significato?
Grazie e cordialità
Saverio T.
Cesena
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Gentile amico, è un verbo non piú in uso e relegato, quindi, nella... soffitta della lingua. Significa “tormentare”. È intensivo del verbo “cruciare”, ancora in uso. Clicchi su
cruciare.

lunedì 15 novembre 2010

«Quí» e «quà»


La nostra lingua, si sa, cambia con il trascorrere del tempo: ciò che oggi è considerato un errore non lo era secoli fa (e viceversa, se fosse possibile). Se, oggi, qualcuno scrivesse gli avverbi di luogo “quí” e “quà” , con tanto di accento, sarebbe messo alla gogna. Non era cosí, invece, qualche secolo fa. Si veda, in proposito, il collegamento in calce.
http://books.google.it/books?id=skwVAAAAYAAJ&pg=PA498&dq=qu%C3%A0&hl=it&ei=GnLgTLmlCobP4ga4ufj6Bw&sa=X&oi=book_result&ct=result&resnum=1&ved=0CB0Q6AEwAA#v=onepage&q=qu%C3%A0&f=false


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I porchi comodi...

Qualcuno - se non tutti - strabuzzerà gli occhi: “porchi”!? Come è possibile un simile strafalcione? No, amici, non è uno strafalcione.
Tutti i “sacri testi” che abbiamo consultato tacciono sull’argomento, ma “porchi” è forma correttissima. Quando il sostantivo ‘porco’ è usato in funzione aggettivale con il significato di “spregevole”, “indecente”, “orribile” e simili, nella forma maschile plurale “può” prendere la desinenza “-chi” in luogo di quella comunemente in uso “-ci”. A voler sottilizzare, anzi, porchi ‘sarebbe’ la sola forma corretta perché i sostantivi in “-co” piani (con l’accento tonico sulla penultima sillaba) nel plurale conservano il suono gutturale; quelli sdruccioli, invece, lo perdono. Naturalmente non mancano le eccezioni e porco è una di queste; in funzione di sostantivo, infatti, il plurale “corretto” è porci.

sabato 13 novembre 2010

Parricidio e matricidio


Dalla rubrica di lingua del Corriere della Sera in rete:
Il terribile reato di uccisione del padre si chiama parricidio. Ma, stranamente, l'omicidio di un figlio, da parte del genitore, si chiama ugualmente parricidio.
Ultimamente, un famoso psicologo chiamato spesso in TV per il caso Cogne aveva usato il neologismo "figlicidio", parola dal suono un po' strano, quasi cacofonico, ma che forse sta sostituendo, con più esattezza, la seconda accezione di "parricidio".
La cosa strana è che il Devoto-Oli non compie lo stesso percorso linguistico per il termine matricidio, che resta soltanto con il significato principale. Sarebbero graditi dei commenti esplicativi da qualche esperto che scrive sul nostro Forum.
Con il permesso del gentile professor De Rienzo.
Firma
Risposta dell’esperto:
De Rienzo Venerdì, 12 Novembre 2010
Via al Forum.
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Il parricidio è l’uccisione di un padre quanto di un figlio, cioè di un discendente o un ascendente, perché il termine deriva dal latino “parens, parentis” (‘parenti’). In senso lato, quindi, chi uccide un parente è un parricida. Un matricida, invece, è solo colui che uccide la propria madre perché anche questo termine viene dal latino “mater” che significa, però, solo “madre”. I percorsi linguistici, quindi, di parricidio e matricidio sono completamente diversi.
http://www.etimo.it/?term=parricida&find=Cerca
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concordanza verbo
Buon giorno Dott. De Rienzo,
vorrei per favore un chiarimento su queste frasi:
"La gestione d'impresa è uno dei temi che maggiormente interessa agli utenti";
"La gestione d'impresa è uno dei temi che maggiormente interessano agli utenti".
Qual è la concordanza giusta? riferendoci a gestione d'impresa o a temi?
Grazie come sempre,
cordiali saluti
Firma
Risposta del linguista:
De Rienzo Venerdì, 12 Novembre 2010
Quella al singolare.
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Sono corretti entrambi gli “accordi”: interessa e interessano.

venerdì 12 novembre 2010

Gettare olio sulle onde


Chi non conosce questo modo di dire, che in senso figurato si adopera quando si vuole mettere pace tra contendenti in una controversia, in una discussione? Insomma quando si vuole pacificare, rasserenare qualcuno.
Nei tempi andati, durante le tempeste, i marinai erano soliti gettare nel mare dell’olio che, galleggiando e spargendosi, attenuava la violenza dei marosi attorno allo scafo. Di qui, per l’appunto, l’uso figurato.

* * *

Abbiamo avuto bisogno della “coramina” e, fortunatamente, l’abbiamo scampata. Il GDU del De Mauro attesta “d’accordo” come variante di “daccordo”. La grafia da seguire sarebbe, quindi, quella che tutti i dizionari bollano di scorrettezza, persino il “pluripermissivo” Zingarelli.

* * *

Ancora una volta ci preme ricordare che il verbo “arricchire” si costruisce con le preposizioni “di” o “con”. I “dicitori” dei notiziari radiotelevisivi, imperterriti, continuano a utilizzare la preposizione “da”, che, ripetiamo, è scorretta inducendo, quindi, in errore gli ascoltatori sprovveduti in fatto di lingua. Si veda
arricchire

mercoledì 10 novembre 2010

«Accorcire»


Gentilissimo dott. Raso,
la disturbo nuovamente per una altro dubbio sulla lingua italiana. Esiste il verbo “accorcire”? Sinceramente non l’ho mai sentito, e i vocabolari in mio possesso non mi sono stati d’aiuto. Il dubbio è nato perché il solito amico “che sa tutto” mi ha apostrofato dicendomi: “Bravo, finalmente hai accorcito i capelli”.
Grazie
Antonio F.
Lodi

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Sí, cortese Antonio, il verbo esiste, anche se non tutti i vocabolari lo riportano ed è una variante regionale, se non prendo un granchio toscana, del piú conosciuto, appunto, “accorciare”. Appartiene alla schiera dei cosí detti verbi incoativi in quanto si coniuga con l’infisso “-isc-” tra il tema e la desinenza: io accorcisco. È transitivo e nei tempi composti prende l’ausiliare avere. Esiste anche la forma intransitiva pronominale “accorcirsi”.

martedì 9 novembre 2010

Anche, pure e virgola


Uno degli usi più elementari della virgola è quello di separare tra loro i membri (parole o proposizioni) di un'enumerazione, tranne il penultimo e l'ultimo, che solitamente sono separati da "e" o da "o" (secondo i casi, naturalmente). “L'uva è un frutto bello, buono, sano e nutriente”. Quando però l'enumerazione è concitata, si ha la virgola anche davanti all'ultimo membro. "La stanchezza quasi sempre scomparve, gli tornò il polso, sentì il sangue scorrer libero e tepido per tutte le vene, sentì crescere la fiducia dei pensieri..." (Manzoni). Se, invece, si vuol dare maggior risalto a ciascun membro, la virgola è sostituita del tutto dalla congiunzione, che può trovarsi anche davanti al primo membro. "Scegli: o la passeggiata lungo il viale o il cinema o la partita"; “Giovanni è un uomo buono e serio e laborioso”. La congiunzione “e” diventa “ed” "obbligatoriamente" solo dinanzi a parole che cominciano con "e": “Erano appena partiti ed erano già stanchi”. Davanti alle altre vocali è preferibile non mettere la "d" eufonica: “E io”; “e ora”. Sempre in tema di congiunzioni è utile ricordare che, generalmente, “pure” segue il termine a cui si riferisce (“verremo noi pure”), mentre “anche” lo precede (“verremo anche noi”).

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Gentilissimo dr Raso,
seguo da tempo il suo impareggiabile nonché preziosissimo “blog” sulla lingua italiana dal quale ho appreso e apprendo sempre “informazioni linguistiche” sottaciute dalle varie grammatiche. Le scrivo per un dubbio che mi assilla da qualche giorno: è corretto dire “io invertisco” in luogo di “io inverto”? L’ho sentito da un amico. Grazie se prenderà in considerazione la mia domanda.
Cordialmente
Antonio F.
Lodi

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Cortese Antonio, perché mai non dovrei prendere in considerazione la sua richiesta? E veniamo al quesito. Sí, è corretto “invertisco”, anche se non comune. Molti verbi della III coniugazione, quelli in “-ire”, possono avere due forme, la normale (io inverto) e quella incoativa (io invertisco). La forma incoativa si ha inserendo l’infisso “-isc-” fra il tema e la desinenza. Mentire e tossire, per esempio, si possono coniugare con le due forme (tosso/tossisco; mento/mentisco).



lunedì 8 novembre 2010

L' «accordo» del verbo


L’accordo del verbo con il soggetto è, molto spesso, causa di dubbi. Vediamo, per quanto possibile, di scioglierli. La norma stabilisce che il verbo concorda con il soggetto nel numero (singolare e plurale) e nella persona: io parto; tu cammini; noi leggiamo; essi dormono. Se una proposizione (o frase) ha due o piú soggetti il verbo si mette - in linea generale - nella forma plurale: Pasquale e Carlo erano amici d’infanzia. Esiste, tuttavia, una deroga alla norma generale, cioè il verbo può avere sia la forma singolare sia la forma plurale nei seguenti casi: a) quando il soggetto è rappresentato da un nome collettivo seguito da un complemento di specificazione: un gruppo di scolari partí / partirono per una gita; b) quando i soggetti sono separati tra loro dalle congiunzioni disgiuntive “o”, “oppure”, “né”: né la forza né la persuasione è / sono bastata / bastate. ; c) quando i soggetti sono riuniti dalla preposizione “con”: Giovanni con Daniela passeggiava / passeggiavano in giardino; d) quando i soggetti inanimati sono considerati un tutt’uno, quando esprimono, cioè, un’unica idea: l’amore e la comprensione del padre fu / furono determinante / determinanti; e) quando i soggetti si intendono riferiti a uno stesso verbo: tuoni, fulmini e lampi si abbatté / abbatterono sul Paese. Un’ultima notazione. Quando i soggetti sono di genere diverso il verbo si pone sempre nella forma plurale maschile: Pasquale, Giovanna e Serafina furono rimproverati dal direttore. Se si tratta, però, di soggetti inanimati (di cose) il verbo può concordare col soggetto piú vicino: aerei e navi furono avvistate, ma anche (e forse è meglio) avvistati.

domenica 7 novembre 2010

Questi e quegli (uso corretto)


“Questi” e “quegli” - crediamo sia utile ricordarlo - oltre a essere le forme plurali di “questo” e “quello” sono anche pronomi singolari maschili in funzione di soggetto, mai di complemento. È errato, quindi, dire o scrivere «ho detto a questi di venire»; il pronome “questi” - nell’esempio - non è in funzione di soggetto ma di complemento di termine e in quanto tale è errato. Si dirà, correttamente, «ho detto a questo di venire». Non seguite l’esempio, se amate la lingua, di alcune cosí dette grandi firme del giornalismo (grandi in che cosa?), che per mera presunzione prendono sistematicamente a pedate la lingua italiana e adoperano “questi” e “quegli” tanto come soggetti tanto come complementi. Loro - dicono - essendo “grandi” possono permettersi il lusso di maltrattare la lingua (a loro piacimento) come quando scrivono, per esempio, “fuorilegge” (grafia univerbata) nel significato di “fuori della legge” e non, nell’accezione corretta, di “bandito”, “delinquente” e simili. Il termine si scrive in due parole quando si intende indicare la contravvenzione a una norma: un comportamento fuori legge. No, amici, non possono e non hanno alcun titolo per farlo. Quando lo fanno sono dei ‘fuorilegge’, dei banditi della lingua. E i banditi vanno puniti severamente. In questo caso, come? Semplice: non leggendo i loro articoli e i loro libri. Perdonateci se insistiamo: siamo proprio stanchi di vedere il dispensatore dei “consigli per gli acquisti”... dispensare anche consigli sui libri da leggere, libri che il piú delle volte servono solo da tappezzeria, perché scritti da “autori” linguisticamente presuntuosi o - peggio - semianalfabeti. Ma tant’è. La lingua, amici, è una cosa seria. Non per nulla si dice che «ferisce piú la lingua che la spada». E coloro che adoprano e dispensano la lingua in modo errato feriscono - irrimediabilmente - la sensibilità linguistica delle persone che, invece, amano l’idioma di Dante.

sabato 6 novembre 2010

Adempiere


Il verbo “adempiere” appartiene alla schiera dei cosí detti verbi sovrabbondanti perché ‘abbonda’ di coniugazioni: adempiere e adempire. Entrambi i verbi significano “soddisfare”, “eseguire”, “esaudire,
“mantenere” e simili. Buona parte dei vocabolari, sbrigativamente, classificano il verbo tra quelli della seconda coniugazione. No, amici, adempiere, finendo in “-ere” è, sí, della seconda ma non adempire che, terminando in “-ire” si classifica tra i verbi della III coniugazione. Adempiere e adempire, insomma, pur essendo fratelli, seguono due coniugazioni diverse. Adempiere segue la II coniugazione, come ‘temere’; adempire segue la III terza come ‘finire’ e come quest’ultimo in alcune voci prende l’infisso “-isc-” tra il tema e la desinenza. Entrambi sono transitivi. Si sconsiglia, quindi, l’uso “imperante” di adoperarli intransitivamente: adempiere a un dovere. Si dirà, correttamente, adempiere un dovere. Nei tempi composti si adopera l’ausiliare avere. I coniugatori di verbi in rete non fanno distinzione alcuna “mischiando” le due coniugazioni. Fate attenzione soprattutto a questo coniugatore, molte voci sono completamente sballate: http://www.scuolaelettrica.it/quiz/media/classe2/italiano/coniugatore.shtml

venerdì 5 novembre 2010

SCIEnza e incandeSCEnza


Un interessante quesito posto a “Domande e risposte” del sito della “Treccani”.

Perché “scienza” si scrive con la “i”, “fantascienza” si scrive con la “i”, “incandescenza” si scrive senza “i”?

Intanto si potrebbe osservare che le parole che contengono il gruppo -sce- in italiano sono un tormento per gli indecisi. Perché si pronunciano tutte uguali, sia che si scrivano con la i, sia che si scrivano senza la i: coscienza e coscetta, dal punto di vista della pronuncia di quel gruppetto grafico (che, parlando invece dal punto di vista della fonetica, corrisponde a un unico suono), sono uguali (a dire il vero, nel Mezzogiorno d’Italia, la i di coscienza, scienza, ecc. viene fatta sentire). Ma coscienza e coscetta si scrivono in modo differente, senza che madre lingua abbia avuto la pietà di renderci possibile distinguere in base a una regola precisa che, purtroppo, non esiste.

I motivi per cui quel suono viene reso con due grafie differenti sono vari. Il primo, per la nostra lingua, figlia di illustre e influente madre latina, è di ordine etimologico: ecco allora che scriviamo scienza perché scienza ricalca la grafia della parola latina dalla quale deriva, scientia(m). Stesso discorso vale per coscienza che viene da coscientia(m). In fantascienza, che non deriva dal latino, ma è parola creata non troppo tempo fa (metà degli anni Cinquanta del Novecento), è però palese l’attrazione analogica di scienza, parola che fa da base a fantascienza. Incandescenza, da confrontare col francese incandescence, si rifà invece al verbo latino incandescere ‘diventare bianco per il calore’.

L’italiano è pieno di casi di -sce- resi in modo differente (scellerato ma scienziato; scemo ma incosciente, ecc.). L’unica risorsa è la memoria e, se si può, un’occhiata al dizionario di lingua italiana.
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Segnaliamo, agli amanti del bel parlare e del bello scrivere, le lezioni di lingua italiana del prof. Giuseppe Patota, ascoltabili collegandosi a
www.garzantilinguistica.it

mercoledì 3 novembre 2010

Anàfora e catàfora


Riprendiamo il viaggio - interrotto tempo fa - attraverso il gergo linguistico che non tutti i “sacri testi” trattano e, quindi, pressoché sconosciuto ai piú; anche a coloro che amano il bel parlare e il bello scrivere. Cominciamo con l’ «anàfora», che le grammatiche riportano sotto la voce “retorica” spiegando che si tratta di una figura retorica, appunto, consistente nella ripetizione di una o piú parole all’inizio di piú frasi o versi successivi. Classico esempio di anàfora i versi danteschi: «Per me si va nella città dolente, / per me si va nell’eterno dolore, / per me si va tra la perduta gente» (Inferno, III 1-3). Non trattano, invece - le grammatiche - l’anàfora che interessa in questa sede e che in gergo linguistico significa “riferimento all’indietro”, vale a dire riferimento a qualcosa di cui si è già parlato. L’anàfora è, insomma, la ripresa di un elemento del discorso (chiamato “antecedente”) rappresentata - per lo piú - mediante un pronome: Giovanni, non «lo» saluto. Il pronome «lo», in questo caso, ha una funzione anaforica in quanto ci rimanda all’indietro, a quanto già detto, cioè a Giovanni. L’anàfora, quindi, termine tratto dal greco “anaphèrein” (‘riportare’), ci “riporta” indietro. Un altro esempio, crediamo, farà maggiore chiarezza: «Le domande di ammissione al concorso debbono essere presentate entro il termine predetto...». L’aggettivo predetto - come si intuisce facilmente - ha valore anaforico perché ci riporta, per l’appunto, al termine... già precisato.
All’anàfora si contrappone la «catàfora», che - sempre in gergo linguistico - significa “riferimento in avanti”, a qualcosa di cui si parlerà... in avanti, in seguito: Non lo conosco, Giovanni. Nell’esempio riportato, per capire che il pronome «lo» si riferisce a Giovanni dobbiamo andare “in avanti”, dobbiamo, cioè, arrivare a... Giovanni; il «lo», per tanto, ha una funzione cataforica. È interessante notare, in proposito, che i pronomi questo e quello (con i rispettivi plurali e femminili, naturalmente) possono assumere, secondo i casi, valore anaforico e cataforico. Avranno funzione anaforica quando servono per richiamare qualcuno o qualcosa di cui si è detto in precedenza; avranno funzione cataforica, invece, quando sono impiegati per anticipare ciò di cui si parlerà piú avanti.
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http://it.wikipedia.org/wiki/Anafora_%28retorica%29

http://it.wikipedia.org/wiki/Catafora

martedì 2 novembre 2010

Ridere verde





Forse pochi conoscono questo modo di dire di uso raro. Si adopera quando si vuole mettere in evidenza il fatto che una persona ride forzatamente, senza averne voglia, perché “dentro” è piena di rabbia, di astio, d’invidia, d’impotenza. E perché “verde”? Il verde è il colore della bile, che - un tempo - si riteneva aumentasse di quantità sotto l’effetto dell’ira.

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Il “se” ipotetico-fraseologico

Dallo “Scioglilingua” del Corriere della Sera in rete:
se +condizionale
Salve professore, mi è sorto un dubbio circa l'uso del condizionale preceduto dal se; è corretta una frase del tipo: "...sarebbe un piacere conoscerla in tal caso, se per lei andrebbe bene ovviamente". Una mia amica mi ha detto che suona male questo uso del condizionale presente con il se, ma io ho inteso subordinare quel "sarebbe un piacere conoscerla" ad una condizione, quella in cui "a lei andrebbe bene". Avrei dovuto usare l'imperfetto congiuntivo invece? Grazie.
Firma
Risposta del linguista:
De Rienzo Lunedì, 01 Novembre 2010
Sì, avrebbe dovuto usare l'imperfetto congiuntivo.
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Cortese Professore, non siamo affatto sicuri sulla correttezza del congiuntivo perché non ci sembra si tratti di un periodo ipotetico. A nostro modesto avviso va bene il condizionale, meglio ancora l’indicativo, perché in questo caso il “se” introduce una frase ipotetico-fraseologica. Dal Sabatini Coletti in rete: “...ipotetiche-fraseologiche (nelle quali l'ipotesi ha un valore attenuativo, di cortesia o di precauzione), con il verbo all'indicativo: se non sbaglio, c'eravamo già incontrati; se non disturbo, verrei volentieri con voi...”. Quindi: “...sarebbe un piacere conoscerla in tal caso, se per lei va/andrebbe bene ovviamente”.

lunedì 1 novembre 2010

Perché "gli" dèi e non "i" dèi"?


Alcuni amici blogghisti si domandano e ci domandano il motivo per cui con i sostantivi “dio” e “pneumatico” si adoperano l’articolo “gli” e la relativa preposizione articolata “degli”: gli dèi, degli dèi; gli pneumatici, degli pneumatici. Si dice, forse, “degli” denti?
Davanti a parole che cominciano con una consonante non si deve usare l’articolo determinativo “i”: i soldi, i denti, i fiumi e via dicendo? C’è un motivo che contraddice questa “regola” grammaticale?
Un motivo c’è. Andiamo con ordine. Nell’italiano antico esisteva una forma “iddio” con il relativo plurale “iddei”. Una “legge” grammaticale stabilisce l’uso di “gli” e di “degli” davanti a parole che cominciano con una vocale: gli astri, degli astri; gli orefici, degli orefici. Secondo questa regola, dunque, abbiamo, correttamente, gli iddei e degli iddei. Con il trascorrere dei secoli la forma iddio si è trasformata per aferesi (caduta della sillaba iniziale) in “dio” conservando, però, nel plurale l’articolo “gli” e la preposizione articolata “degli”.
Diverso il caso di pneumatici. Secondo le norme grammaticali si deve adoperare l’articolo “lo” con il relativo plurale “gli” e la preposizione articolata “dello”, con il plurale “degli” davanti a sostantivi che cominciano con i gruppi ‘gn’, ‘pn’, ‘ps’, ‘sc’ e con le consonanti ‘z’, ‘s impura’ e ‘x’. Secondo questa regola, abbiamo, dunque: lo zero, gli zeri; lo gnocco, gli gnocchi; lo specchio, gli specchi; lo psicologo, gli psicologi; lo scivolo, gli scivoli; lo pneumatico, gli pneumatici; lo xilografo, gli xilografi.
Per quanto attiene a “gli pneumatici” ci sono, però, due “scuole di pensiero”: una “fedele” alla legge grammaticale: gli pneumatici; l’altra, contraria all’applicazione rigida della regola, suggerisce l’adozione dell’articolo ‘i’: i pneumatici. Secondo questa scuola, “i pneumatici” ‘suona’ meglio che “gli pneumatici”.
Personalmente preferiamo la scuola “rigida”.


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Gentile dott. Raso,
seguo con passione le sue “noterelle” sulla lingua italiana in cui tratta anche alcuni modi di dire. Ne approfitto per domandarle il significato esatto e il perché si dice “farla in barba”. Grato se avrò una sua cortese risposta.
Gaetano L.
Livorno
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Cortese amico, le faccio “rispondere” da Carlo Lapucci.
La locuzione "farla in barba (a qualcuno)" significa riuscire a fare o a ottenere qualcosa a dispetto del divieto posto da uno. "In barba" significa: "proprio sotto gli occhi" o "quasi davanti alla barba", modo di dire che l'uso ha esteso e riferito impropriamente anche alla donna.
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Ancora una volta invitiamo gli amici blogghisti a non fidarsi ciecamente dei coniugatori di verbi che “pullulano” in rete. Guardate come il “coniugatore” di cui diamo il collegamento coniuga il presente indicativo di “bramire”:
http://www.scuolaelettrica.it/quiz/media/classe2/italiano/coniugatore.shtml