Nel vasto regno della Lingua Italiana vivevano due fratelli, Chiamare e Appellare. Pur avendo ruoli simili, le loro origini erano diverse e il loro carattere ancora più distinto.
Chiamare, il maggiore, deriva dal latino clamare, che significa “gridare, esclamare con forza”. Fin dall’infanzia aveva una voce potente e un’energia spontanea: amava attirare l’attenzione e convocare gli altri con immediatezza. Si racconta che, nel Medioevo, quando si voleva radunare la gente nella piazza per ascoltare un annuncio, si usavano i banditori che chiamavano i cittadini ad alta voce, spesso iniziando con un reboante Oyez, oyez!
Ma c’è un’altra curiosità: in molte lingue europee, il verbo chiamare ha dato origine a parole legate alla comunicazione e al suono. In francese abbiamo clamer (proclamare), in inglese claim (dichiarare, rivendicare) e persino nel mondo del teatro clamor in latino indicava un’espressione forte di emozione!
Crescendo, Chiamare imparò a usare la sua voce in modi più raffinati e quotidiani:
Ti chiamo per cena!
Mi hanno chiamato al telefono.
Lo chiamano il "saggio del villaggio".
Il fratello minore, Appellare, aveva un’indole più solenne. Deriva dal latino appellare, che significa “rivolgersi a qualcuno, dare un nome ufficiale”, e si era sempre mosso con grazia tra gli ambienti giuridici e formali. In epoca romana, appellare aveva un valore fondamentale nel diritto: quando un cittadino voleva contestare una decisione, poteva fare un appellatio, una vera e propria richiesta di revisione da parte di un’autorità superiore.
E sai una cosa interessante? Il termine appellativo, che oggi usiamo per indicare un soprannome o un titolo, nasce proprio da appellare! E in certe epoche, avere un appellativo prestigioso poteva determinare il destino di una persona, rendendola temuta e rispettata.
Ecco alcuni modi in cui si manifesta ancora oggi:
L’avvocato appellò la sentenza.
Lo appellano “maestro della retorica” per la sua eloquenza.
Si appellò alla misericordia del giudice.
Nonostante le loro differenze, Chiamare e Appellare vivevano in armonia. Il primo si manifestava ogni giorno nelle conversazioni spontanee, mentre il secondo agiva nei contesti ufficiali, come nei tribunali o nei documenti importanti. Talvolta, chi abitava il villaggio li confondeva, ma con il tempo imparò a riconoscere la loro unicità.
Così, i due fratelli continuarono a svolgere il loro compito, aiutando i parlanti a comunicare con chiarezza, precisione e un pizzico di 'arte linguistica'.
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“Impunire”
Nel vasto panorama linguistico, nascono parole nuove per rispondere a esigenze espressive inedite. Il neologismo che proponiamo,"impunire", si inserisce proprio in questa evoluzione, indicando l’atto di esonerare qualcuno da una punizione, decidendo di non infliggere una pena prevista o revocandola.
La neoformazione è tratta dall’aggettivo "impunito", a sua volta proveniente dal latino impunitus, formato dal prefisso "in-" (negazione) e "punitus", participio passato di punire ("castigare, infliggere una pena"). Da questa base etimologica, il verbo deaggettivale "impunire" prende forma, esprimendo l’azione di rendere impunito, cioè di liberare qualcuno da un provvedimento disciplinare.
Nonostante l’accusa fosse fondata, il giudice ha deciso di impunire l’imputato, annullando la sua pena. Il professore avrebbe potuto sospendere gli studenti, ma ha scelto di impunirli dopo aver ascoltato le loro spiegazioni. In certi contesti sociali si tende a impunire determinati comportamenti, alimentando situazioni di ingiustizia.
L’uso di "impunire" potrebbe trovare spazio nel linguaggio giuridico, scolastico e persino quotidiano, diventando un termine utile per descrivere la revoca di una punizione o il suo annullamento. Chissà, forse un giorno entrerà ufficialmente nel vocabolario!
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PS: Ci siamo accorti, solo ora, che non è una neoformazione che abbiamo coniato, il sintagma verbale "impunire", non attestato nei vocabolari dell'uso, si trova in numerose pubblicazioni.
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