lunedì 30 aprile 2018

Nel parco con un... parco


Viaggiamo attraverso il vocabolario della lingua italiana alla ricerca di parole omofone (stesso "suono", stessa pronuncia) e omografe (stessa grafia) ma di significati distinti. La prima tappa è alla parola "parco" la cui accezione piú nota e, quindi, piú conosciuta è "grande giardino, privato o pubblico, con piante ornamentali e d’alto fusto" oltre, naturalmente, al significato di "recinto in cui si custodisce materiale vario, soprattutto automobili e artiglierie". In queste due accezioni il termine è un sostantivo che si tramuta in aggettivo per acquisire il significato di "molto temperato e misurato in tutto ciò in cui è facile eccedere il limite", quindi "frugale", "parsimonioso", "sobrio", "temperato": è una persona "parca" nel mangiare, nel bere e nel chiedere. Può capitare benissimo, quindi, che un uomo parco vada nel … parco. Vediamo ora l’ "origine etimologica" dei vari parchi. Nell’accezione "principe", cioè nel significato di "giardino", la voce sembra provenga dall’antico tedesco "Perkan" e questo dal basso latino "parricus"; mentre nel significato di "recinto" il termine è l’adattamento italiano della voce francese "parc". Schiettamente italiano, cioè latino, è, invece, l’aggettivo "parco" (parsimonioso) essendo, per l’appunto, il latino "parcus", derivato di "parcere" (‘astenersi’, ‘risparmiare’). La persona parca, per tanto, "risparmia". Dal parco riprendiamo il viaggio per fermarci a "sciupare", altra parola omofona ed omografa con distinti significati ma di "origine etimologica" identica essendo il latino "exsupare", composto del prefisso "ex-" e del verbo "supare", variante di "sipare" (‘gettar via’). Quanto ai significati del verbo, chi non li conosce? Vediamoli ugualmente:

1) verbo transitivo: ridurre in cattivo stato, guastare, conciar male (sciupare un vestito);

2) compromettere, rovinare l’effetto di qualcosa (tutto era andato bene, ma il suo comportamento ha sciupato la festa);

3) sprecare (quell’individuo ha sciupato una buona occasione);

4) verbo intransitivo pronominale: detto di persona che diventa smunta, assumendo un spetto poco florido e di cosa che si deteriora (quella camicia si è sciupata troppo presto, vale a dire si è deteriorata).

domenica 29 aprile 2018

Avere il gatto nella madia



Chi ha il gatto nella madia? Colui che si trova in disagiate condizioni economiche o in povertà assoluta e non ha nulla di cui sfamarsi. Un gatto nella madia gli ha mangiato tutte le provviste, in senso figurato, naturalmente.

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I gazebo o i gazebi?

Il Dop, Dizionario di Ortografia e di Pronunzia, ha "toppato" sul plurale di "gazebo"? È il solo, tra i vocabolari che abbiamo consultato, ad ammettere la forma plurale gazebi. Vediamo, in particolare, i dizionari consultati che ritengono il vocabolo invariato al plurale: De Mauro; Gabrielli; Garzanti; Treccani; Sabatini Coletti. Come regolarsi? Attenendosi - a nostro avviso - a quanto riporta/no la maggioranza dei vocabolari. Le parole straniere, e gazebo è una di queste, restano invariate al plurale. Siamo molto perplessi, in proposito, sulla correttezza di "rivestito da piante", come si legge nella definizione che dà del termine il vocabolario Sabatini Coletti: «Chiosco da giardino, perlopiù rivestito da piante rampicanti». Se non cadiamo in errore le preposizioni da usare con il verbo rivestire sono "di" o "con": rivestito di/con piante rampicanti.

sabato 28 aprile 2018

Insito: come si usa?


Giuseppe Patota, della Crusca, spiega l'uso corretto.

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La parola proposta da questo portale e non a lemma nei vocabolari dell'uso: acquacchiare, verbo sinonimo di acquattare. Adoperato in senso figurato e coniugato nella forma pronominale intransitiva (acquacchiarsi) sta per avvilirsi, abbattersi e simili. È "immortalato" in numerose pubblicazioni.

mercoledì 25 aprile 2018

I trinciapollo?


Un altro vocabolo sul plurale del quale non tutti i vocabolari concordano: trinciapollo. Per alcuni è invariabile, per altri variabile, per altri ancora può essere sia variabile sia invariabile. Un povero cristo, non avvezzo in fatto di lingua, rimane disorientato perché non trova una risposta certa al suo dubbio: i trinciapollo o i trinciapolli? Questo dubbio non si presenterebbe se tutti i lessicografi rispettassero le norme che regolano la formazione del plurale dei nomi composti. I nomi composti di questo tipo, quelli formati, cioè, con un verbo e un sostantivo maschile singolare - lo abbiamo visto altre volte - si pluralizzano normalmente: il trinciapollo / i trinciapolli.
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Una ricerca con Google ha dato una "leggera" prevalenza alla forma plurale: trinciapolli.

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Ancora sulla lingua "biforcuta" della stampa


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Il prefisso "mini-", dal latino "minimus" -  anche se a noi è arrivato attraverso l'inglese -  come tutti i prefissi, si scrive unito alla parola che segue: miniappartamento, minigonna ecc. Correttamente, quindi, "minicuore". "Mini", da solo (isolato), è la forma sostantivata femminile del prefisso e significa "gonna corta" (fino ai fianchi). Ma diamo la "parola" al Treccani: «Primo elemento compositivo, tratto dal lat. minĭmus «minimo» dietro l’esempio dell’ingl. mini- (sentito però anche come riduzione di miniature «miniatura»); questo, diffusosi internazionalmente dapprima nel composto minigolf, si è affermato soprattutto con la coniazione di miniskirt, la cui traduz. ital. minigonna ha dato in Italia la spinta ad altre composizioni, proprie soprattutto del linguaggio della pubblicità e della moda (ma anche dell’uso com. e letter.), nelle quali si fa riferimento a lunghezza, dimensioni e sim. inferiori a quelle normali (per es., miniabitominiappartamentominischermo, e altre formazioni scherz. e per lo più occasionali, come miniassegnominiriformaministipendio, ecc.) [...]».

martedì 24 aprile 2018

Il crescente dilagare degli anglismi nella lingua italiana


Quattro Autori spiegano il "perché" del crescente dilagare degli anglismi nella lingua italiana. Gli articoli sono pubblicati nel sito della Treccani. Si clicchi qui.

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La parola proposta da questo portale, non a lemma nei vocabolari dell'uso: ceceprete. Sostantivo maschile con il quale si definiscono tre tipi di piante. Si veda anche qui.

lunedì 23 aprile 2018

Sgroi - Congiuntivo o indicativo? Costi e benefici


di
Salvatore    Claudio Sgroi*

L'uso del congiuntivo, si sa, è un topos e un tormentone, che riguarda la norma e la teoria grammaticale, di parlanti e di rubriche linguistiche. Sul tema è ritornato domenica scorsa Francesco Sabatini nel corso del programma di "Rai UnoMattina in Famiglia", dedicato al "Pronto soccorso linguistico".
In uno spot pubblicitario un ascoltatore ha sentito la frase (i) "Nessuno quando nasce pensa che i serpenti sono velenosi". E ha chiesto: "non sarebbe più corretto dire siano velenosi?".
Il giudizio di valore sulla frase con l'indicativo può in effetti variare secondo i parlanti. Per l'ascoltatore la presenza dell'indicativo nella frase dello spot la renderebbe errata. E questa è una valutazione assai diffusa. Tradizionalmente, il congiuntivo è definito infatti come modo dell'incertezza, del dubbio, della soggettività rispetto all'indicativo modo invece della realtà. E quindi col verbo "pensare" il solo modo corretto sarebbe il congiuntivo.
Ma Sabatini ha subito risposto (condivisibilmente) che si tratta di frasi entrambi "corrette". Con quali argomentazioni? Sabatini non ha attribuito esplicitamente al congiuntivo il valore di modo della soggettività. Sottilmente, egli ha sostenuto che le frasi "sono corrette tutt'e due" perché presentano due diversi significati dipendenti dal verbo pensare. Il quale può significare (i) "pensare-credere con dubbio, ipotizzare" (soggettività) e quindi la frase reggente va al congiuntivo: (i) "(Quando nascono) i bambini non pensano che i serpenti siano velenosi". Ovvero "Nessuno quando nasce pensa che i serpenti siano velenosi". Ma pensare può anche significare (ii) "pensare-sapere" (oggettività). E quindi la dipendente va all'indicativo: (ii) "(Quando nascono) i bambini non pensano che i serpenti sono velenosi". Ovvero "Nessuno quando nasce pensa che i serpenti sono velenosi". Frasi perciò entrambe corrette ma con diversi significati.
Per altri parlanti, però, le due frasi all'indicativo e al congiuntivo non presentano (condivisibilmente) alcuna differenza di significato. Il verbo credere vale solo "ritenere", "pensare", stando anche ai dizionari. Un enunciato come "Credo che Dio esist-e" (all'indicativo) o "Credo che Dio esist-a" (al congiuntivo) in bocca indifferentemente a credenti, dimostra invero la inconsistenza della teoria tradizionale del congiuntivo dipendente (incertezza) opposto semanticamente all'indicativo (certezza). Con l'indicativo una frase come "Penso che viene" può in realtà non "suonar bene". Come dire che è molto informale, non-elegante.
Se invece il parlante prova ad opporre frasi quali: (iii) "Penso che stia/sta venendo (da qui a poco)", (iv) "Penso che venga/viene (ora)", (v) "Penso che verrà (tra poco, domani, tra una settimana)", il compimento dell'azione di "venire", rispetto al momento dell'enunciazione ("penso"), è spostato gradualmente in avanti. Si passa infatti da (iii) l'aspetto progressivo del gerundio, a (iv) l'azione presente, a (v) l'azione futura. Se poi si aggiunge (vi) "Penso che verrebbe", si introduce col condizionale la modalità della potenzialità della realizzazione dell'azione di "venire".
Ma lo stesso parlante a cui non suona (o suoni) bene "Penso che viene" può non percepire alcuna 'stonatura' in (iii.a) "Penso che sta venendo" (all'indicativo) rispetto a (iii.b) "Penso che stia venendo" (al congiuntivo), probabilmente perché la distanza indicativo-congiuntivo "sta/stia", rispetto a "viene/venga", è al confronto minima, legata alla sola vocale "i".
 E in effetti, la motivazione di fondo per cui l'indicativo tende a guadagnare terreno sul congiuntivo è morfo-fonologica, dovuta cioè alla debole identità morfologica del congiuntivo, spesso omofono con l'indicativo (es. "am-i/am-iamo"), e alla sua scarsa "salienza fonica", legata com'è a una sola vocale (es. "am-ino", "am-ano").
Da qui, la tendenza del parlante alla economia linguistica, al "minimo sforzo" (una sola forma), anziché distinguere due forme, peraltro prive di una differenza di significato. Come dire che il "costo" del congiuntivo non sempre è valutato come proporzionale al suo "beneficio" solo formale e non significativo.


* Docente di linguistica generale presso l'Università di Catania.

Tra i suoi ultimi libri Il linguaggio di papa Francesco (Libreria editrice Vaticana 2016), Maestri della linguistica otto-novecentesca (Edizioni dell’Orso 2017), Maestri della linguistica italiana (Edizioni dell’Orso 2017).


sabato 21 aprile 2018

Tifare: verbo transitivo e intransitivo?


Alla domanda del titolo risponde l'Accademia della Crusca. Fra tutti i vocabolari consultati, il Garzanti è l'unico che va contro corrente. Sulla "nascita" del tifo riproponiamo un nostro vecchio intervento.

mercoledì 18 aprile 2018

I segnaposto o i segnaposti?


Ecco un altro nome composto, segnaposto (cioè quella «targhetta o altro oggetto con scritto il nome della persona cui è riservato un posto a sedere»), sul cui plurale i vari vocabolari non concordano: per alcuni è invariabile, per altri variabile, per altri ancora variabile o invariabile. Come regolarsi? Semplice, a nostro modo di vedere. Basta  seguire la regola grammaticale secondo la quale i sostantivi composti di un verbo (segnare) e di un sostantivo maschile singolare (posto) si pluralizzano normalmente: il segnaposto / i segnaposti.

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La lingua "biforcuta" della stampa

Campidoglio, onorificenze ai sopravvissuti del rastrellamento del Quadraro

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Forse è il caso di "ricordare" ai titolisti del giornale in rete che si sopravvive "a" (qualcosa), non "di" (qualcosa). Dal Treccani in linea:

 sopravvissuto agg. e s. m. (f. -a) [part. pass. di sopravvivere]. – Che o chi si è salvato da un disastro e sim.: il patrimonio sarà diviso fra tutti gli eredi s.; elenco dei passeggeri s. al disastro aereo; i s. alla strage, all’attentato; s’immaginava con raccapriccio il suo cadavere sformato, immobile, in balìa del più vile sopravvissuto (Manzoni); in senso fig., persona di mentalità sorpassata, che mostra di avere idee e comportamenti da tempo superati: certi critici musicali sono ormai dei s.; fra i giovani mi sento un s.; era un s., ancorato a una realtà che era stata disfatta da decenni (Carlo Sgorlon).


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La prestigiosa Accademia della Crusca "striglia" il MIUR: nei documenti privilegia l'inglese a discapito della lingua italiana.

martedì 17 aprile 2018

La proposizione


Stupisce il constatare che molte persone confondono la preposizione con la proposizione, ritengono, cioè, i due termini l’uno sinonimo dell’altro. Vediamo, quindi – sia pure per sommi capi – che cosa è la “proposizione” (con la “o”). Ce lo dice la stessa parola latina dalla quale deriva (“propositio”, ‘cosa proposta’ alla considerazione, alla discussione e, per tanto, “argomento”, “concetto”) vale a dire “gruppo di parole unito a un verbo che esprima un pensiero riguardo a un dato argomento”, insomma una frase: Giovanni legge attentamente; Paolo rimira le stelle; Giuliano risolve i cruciverba. In tutti questi esempi ogni parola è unita a un verbo e forma, o meglio esprime un concetto “proposto” (‘proposizione’) alla nostra attenzione. Gli “ingredienti” essenziali di una proposizione sono il soggetto e il verbo, senza quest’ultimo, anzi, non si ha alcuna proposizione in quanto il gruppo di parole risulterebbe “slegato”. Ma cos’è il soggetto, elemento “principe” – dopo il verbo – di una proposizione? Semplicissimo: è la persona, l’animale o la cosa di cui si parla. Viene dal latino “subiectus” ed è l’elemento “sottoposto” a un giudizio, vale a dire – per usare le parole del linguista Francesco Ugolini – “il termine di cui si afferma una maniera d’essere o d’agire”. Negli esempi sopra riportati “affermiamo” che Giovanni legge attentamente, che Paolo rimira le stelle e che Giuliano risolve i cruciverba; Giovanni, Paolo e Giuliano sono, per tanto, “elementi sottoposti” a una nostra considerazione. Attenzione, quindi, non si confonda la “preposizione” con la “proposizione”: il figlio di un nostro conoscente ha scritto – in un compito in classe – che trovava “difficoltoso riconoscere i vari complementi contenuti in una preposizione”. Riteniamo superfluo riportare il giudizio negativo dell’insegnante, fortunatamente di quelli con la “i” maiuscola. E visto che siamo in tema di proposizioni evitate – se desiderate scrivere forbitamente – di adoperare l’avverbio “onde” seguito da un infinito (anche se usato da “firme eccellenti”): ti scrivo onde avvertirti del mio arrivo. Si dirà, correttamente, ti scrivo “per” avvertirti del mio arrivo. Sí, siamo caduti nella pedanteria, ma non importa. Onde, è bene ricordarlo, è un avverbio di luogo, precisamente di moto da luogo, è il latino “unde” e vale “da dove”; non ci sembra corretto adoperarlo, quindi, per introdurre una proposizione finale o causale. Non è, insomma, una parolina ‘multiuso’ anche se molte cosí dette grandi firme non si fanno scrupolo alcuno dell’uso improprio. Abbiamo sempre detto, infatti, che non tutti gli scrittori sono linguisti e che non tutti i giornalisti sanno adoperare la lingua a dovere. Voi, amici, seguite chi volete; se desiderate, però, scrivere (e parlare) correttamente diffidate di queste “firme illustri”.  


lunedì 16 aprile 2018

La «lattigine»


In un "forum" sulla lingua italiana un utente domanda e si domanda se esiste/a il termine lattigine. Questo vocabolo non è attestato nei vocabolari dell'uso, ma "è in vita"...  Si veda qui.

domenica 15 aprile 2018

La nascita (linguistica) del picnic


Per conoscere la nascita del picnic (sotto il profilo linguistico, ovviamente), che in lingua italiana si scrive correttamente, ricordiamolo, solo in grafia unita (non, dunque, "pic nic" o "pic-nic") ci affidiamo a Gianfranco Lotti:

«Trascrizione inglese del francese "pique-nique", parola composta che propriamente vale "becca-niente". Era cosí detto il "pasto in comune a cui si partecipa portando vivande o pagando la propria quota". Tale definizione fa pensare che "pique-nique" sottintendesse "pour le pique-assiette" 'per lo sbafatore' e fosse inteso nel senso di "colazione dove non c'è niente da beccare (per lo scroccone)". Nell'Ottocento il termine passò a significare "merenda all'aperto durante una scampagnata". "Pique" è voce verbale di "piquer", dal latino parlato  "*piccare"; "nique" è, cosí come il tedesco "nichts", di origine germanica».

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La parola proposta da questo portale: sontico. Aggettivo sinonimo di torbido.

sabato 14 aprile 2018

Vieppiú? Per carità! Una sola «p»


I "revisionisti" del vocabolario Gabrielli in rete hanno proprio deciso di far rivoltare nella tomba il compianto professore ritoccando "in peggio" il suo vocabolario. Nel "nuovo" Gabrielli si legge, infatti, che l'avverbio "viepiú" si può scrivere anche con due "p" (vieppiú). «viepiù
[vie-più] vie piùvieppiù.
avv. lett. Sempre più, molto più: vidi Sansone / vie più forte che saggio Petrarca». Grafia condannata dal Gabrielli nel suo "Il museo degli errori":
«Volendo fare della locuzione avverbiale di più (che è la forma piú comune) una sola parola, bisogna scrivere dipiù, con una sola p.  E questo per la semplice ragione che la preposizione di non vuole in nessun caso il rafforzamento sintattico e di conseguenza il raddoppiamento della consonante scritta. Analogamente scriveremo  digià e non “diggià” (ma piú comunemente di già),  difatti e non “diffatti” (meno comune di fatti), didietro e non “diddietro” (ma anche di dietro), dipoi o di poi, ma non “dippoi”, disopra e disotto, o di sopra e di sotto, ma non “dissopra” e “dissotto”. Uguale errore molti commettono con l’avverbio composto viepiù (anche scisso vie piú) che assai spesso vediamo scritto vieppiù. Anche questo vie, infatti, antica alterazione di via usata come rafforzativo dei comparativi, non richiede mai il raddoppiamento della consonante iniziale. Analogamente scriveremo viepeggio (o vie peggio) e viemeglio (o vie meglio), e non “vieppeggio” e “viemmeglio”: ma qui l’errore è piú raro data l'ormai vieta pedanteria di queste due espressioni».


Abbiamo riscontrato il medesimo orrore nel De Mauro, nel Garzanti e nello Zingarelli. Il Sabatini Coletti - stranamente - non attesta l'avverbio in questione.

venerdì 13 aprile 2018

Andare a vela e a remi


Il modo di dire che proponiamo non è molto conosciuto perché non di "uso corrente", ma rende bene l'idea della persona che impiega qualunque mezzo per raggiungere uno scopo e sa adattarsi, per tanto, a tutte le situazioni che le si presentano, anche se negative. La locuzione, insomma, si riferisce a una persona che è capace, in caso di necessità, di cavarsela in qualunque situazione si trovi. L'espressione "chiama in causa" i tempi andati, quando le imbarcazioni - prima dell'introduzione dei motori - andavano a vela e a remi, se si rompevano le vele... c'erano i remi e viceversa.

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La parola proposta da questo portale, ripresa dal GDU (De Mauro): scarafaldone. Sostantivo maschile sinonimo di sgherro.

giovedì 12 aprile 2018

Quattro alternative

Quattro alternative per la formazione del governo.

Cosí titolava un quotidiano in rete. Le "quattro alternative" gridano vendetta al cospetto della grammatica italiana e di coloro che amano il bel parlare e il bello scrivere. Nella lingua di Dante le "quattro alternative" vanno sostituite con  "quattro possibilità" perché l'alternativa, lo dice la stessa parola, viene dal latino "alternus", che significa "il ripetersi, a turno, di due cose", "possibilità di scelta fra due soluzioni" (non quattro o venti). Sull'uso corretto di alternativa riproponiamo un nostro vecchio intervento.

Non hai altre alternative. Frasi simili le leggiamo (e ascoltiamo) quotidianamente sulla stampa ma non sono “esatte”, anzi… “corrette”. I grammatici raccomandano il fatto che per “alternativa” deve intendersi una scelta, o meglio una possibilità di scelta fra due termini, non come una delle soluzioni che la scelta stessa concede. La frase, per esempio, l’alternativa è “combattere o morire” è correttissima perché abbiamo, per l’appunto, la possibilità di scegliere fra due soluzioni, possiamo cioè scegliere fra il combattere o il morire. Nella frase, invece, “non ha altra alternativa che morire”, il discorso non regge perché non c’è possibilità di scelta. Nei casi dubbi alcuni autorevoli grammatici consigliano di sostituire alternativa con “dilemma” (una specie di prova del nove, insomma): se il discorso “fila” – ha, cioè, un senso – l’uso di alternativa è corretto. Nel primo esempio… per esempio, “l’alternativa è combattere o morire” si può sostituire benissimo alternativa con “dilemma” e dire “il dilemma è combattere o morire”; il discorso “fila”, quindi l’uso di alternativa è correttissimo. Nel secondo esempio, invece, non si può dire, perché non “fila”, “non ha altro dilemma che morire”; l’uso di alternativa è, per tanto, errato. L’alternativa, inoltre, è sempre una (e soltanto una): questo o quello. Non si può dire, quindi, c’è un’altra alternativa o ci sono due (o più alternative). La stampa è incurante di queste “norme” e fa un uso improprio, per non dire scorretto, di alternativa. Ma anche alcuni vocabolari non sono da meno. Lo Zingarelli registra: non avere altra alternativa; gli resta una sola alternativa. Proviamo a sostituire alternativa con dilemma e vediamo che… “i conti non tornano”; l’uso di alternativa è errato. Il vocabolario Sandron riporta: la sola alternativa che ci resta è la resa; avverte, però, che l’uso è improprio.
Tornando al titolo in oggetto proviamo a sostituire alternativa con dilemma: Quattro dilemmi per la formazione del governo. Vi "suona"?...

mercoledì 11 aprile 2018

Tenere il piede in due scarpe o stare con due piedi in una scarpa?


A questo interrogativo risponde la redazione della consulenza linguistica della Crusca.

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La parola proposta da questo portale: rob (o robbo). Sostantivo maschile con il quale si indica una sorta di succo di frutta usato come medicinale.

domenica 8 aprile 2018

Una disparità di trattamento morfologico


Speriamo che qualche linguista "di buona volontà" si imbatta in questo sito e, dopo averci letto, possa spiegarci il perché di una "disparità di trattamento morfologico"; noi, onestamente, non riusciamo a trovare una spiegazione. Ci riferiamo a due nomi composti che, pur avendo la medesima composizione, hanno un plurale diverso: malalingua e falsariga. In questo caso tutti i vocabolari che abbiamo consultato sono concordi: malelingue e falsarighe. Entrambi i termini, dicevamo, hanno la medesima "composizione etimologica", vale a dire sono composti di un aggettivo e di un sostantivo: mala (aggettivo), lingua (sostantivo); falsa (aggettivo) riga (sostantivo). E i nomi cosí composti - secondo la legge grammaticale - nella forma plurale  mutano la desinenza del secondo elemento (sostantivo): falsariga / falsarighe*. Non segue questa regola, invece, il sostantivo malalingua perché al plurale muta le desinenze di entrambi gli elementi: malalingua / malelingue.
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* In rete si trova anche il plurale non "ortodosso" falserighe.



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La parola proposta da questo portale, ripresa dal GDU (De Mauro): porrigine. Sostantivo femminile con il quale, in medicina, si indicano diverse patologie del cuoio capelluto, la forfora in particolare. È tratto dal latino "porrigine(m)" (forfora, tigna).

sabato 7 aprile 2018

Edmondo De Amicis e i dialetti


«Nel clima di generale ostracismo verso i dialetti, De Amicis ne intravede la preziosità e la dignità, in quanto condividono con l’italiano larga parte del loro patrimonio linguistico, legittimato nell’uso comune» (si clicchi qui). In proposito riproponiamo un nostro intervento di qualche tempo fa.

venerdì 6 aprile 2018

La cremosità


Una gentile lettrice, con una cortese lettera, desidera sapere se in lingua esiste il termine "cremosità". Il sostantivo in oggetto - per quanto ne sappiamo - non è attestato nei vocabolari dell'uso, ma ciò non significa che non possa esistere, e infatti... esiste ed è immortalato in numerose pubblicazioni. È un nome deaggettivale, vale a dire derivato da un aggettivo (cremoso) con l'aggiunta del suffisso "-ità" ("-ietà").

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Un altro lettore è rimasto basito - come usa dire - davanti a un titolo di un giornale che recitava: «Abbiamo assistito a un gran spettacolo di acrobazia».  "Gran spettacolo"? si domanda il lettore. Ma si può fare il troncamento davanti a un sostantivo che comincia con la S impura? Si sa come la pensiamo sull'uso della lingua degli operatori dell'informazione, ma in questo caso (anche se inconsciamente) il titolista non ha commesso alcuno strafalcione. Contrariamente a quanto stabiliscono le "leggi" grammaticali l'aggettivo "grande" può subire il troncamento  anche davanti  a una S impura (e a una Z)  al fine di ottenere un'espressione familiare e piú efficace. Ciò soprattutto quando l'aggettivo in questione è preceduto dagli articoli indeterminativi: Filippo è proprio un gran scansafatiche; Mariella è una gran scostumata; il cane gli ha dato una gran zampata.

giovedì 5 aprile 2018

Destrimano o destrimane?


Entrambi i termini sono corretti, anche se a voler sottilizzare - a nostro avviso - il suffisso "-mane" si riferisce solo a una persona affetta da qualche manía e non a una persona che usa la mano destra. Buona parte dei vocabolari attesta/attestano, infatti, solo destrimano. Una rapida ricerca con Googlelibri ha dato, però, un risultato sorprendente: 813 occorrenze per destrimano e 2190 per destrimane. In proposito è interessante ciò che scrive la redazione della consulenza linguistica della Crusca.

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La parola proposta da questo portale e non a lemma nei vocabolari dell'uso: orognosía. Sostantivo femminile sinonimo (quasi) di orografia: studio dei rilievi montuosi.

mercoledì 4 aprile 2018

L'elocuzione


Forse alcuni si imbatteranno per la prima volta nel termine "elocuzione" perché non è una "parola di tutti i giorni". Con il suddetto vocabolo si intende il "modo di ordinare le varie parole in uno scritto (o in un discorso) al fine di esprimersi con chiarezza ed eleganza" secondo determinate regole o princìpi. Si parla e si scrive bene, dunque, quando si rispettano cinque “princípi  fondamentali”: purezza, proprietà, armonia, eleganza e convenienza. Esaminiamo, succintamente, ogni singolo “principio”.

Purezza: consiste nell’usare parole e frasi schiettamente italiane. Sono da evitare, per tanto, i barbarismi, cioè parole e costrutti introdotti, senza alcuna necessità, nella nostra lingua da altri idiomi: anglismi e francesismi la fanno da padroni.

Proprietà: consiste nell’usare quei termini che esprimono il nostro pensiero con “somma precisione”. Si ottiene la proprietà facendo un buon uso dei sinonimi, cioè di quei vocaboli che hanno un significato affine ma non identico come, per esempio, scalino e gradino; strillare e urlare. Chi parla e scrive con proprietà evita le ambiguità, le lungaggini e i cosí detti giri di parole.

Armonia: si ottiene evitando le cacofonie (“cattivi suoni”), le ripetizioni sgradevoli, i periodi troppo lunghi o costruiti malamente.

Eleganza: consiste nella semplicità e naturalezza dell’espressione. L’eleganza è anche grazia e leggiadria. Guai a esagerare nelle ricerca dell’ “effetto”: si cade nella leziosaggine.

Convenienza: adoperare parole e frasi meglio adatte all’argomento e alle persone per le quali si scrive o si parla. Altro è un discorso (o uno scritto) per una solenne cerimonia, altro è una lettera familiare.

Chi rispetta queste cinque “regole” parlando e scrivendo con... purezza e proprietà, eleganza, convenienza e armonia ottiene la chiarezza che è il maggior pregio dell’elocuzione.

martedì 3 aprile 2018

Sgroi - L'angloamericano imperversa...


             

di Salvatore Claudio
            Sgroi*    



Nell'ambito della politica linguistica è ora da leggere senz'altro il "Tema del mese" di marzo del presidente della Crusca, Claudio Marazzini, dal titolo Ma siamo proprio sicuri che la lingua della ricerca sia solo l’inglese? contro i "talebani dell'inglese" del "Corriere della Sera" del 27 febbraio 2018, ovvero contro coloro che con tono tra l'altro autoritario "volevano e vogliono bandire l'italiano" nell'insegnamento universitario a vantaggio della lingua inglese in quanto lingua veicolare. Una innovazione sostenuta con argomentazioni paradossali, non scientifiche e in-condivisibili (l'italiano "perd[e] la capacità di esprimere i concetti più recenti"; l'"impossibilità di trovare termini italiani che si avvicinino alla nuova terminologia di scienza e innovazione ormai totalmente in lingua inglese"; "Forzare l’utilizzo dell’italiano dove il linguaggio del progresso scientifico è solo in inglese porterà a continuare a depauperare il nostro patrimonio del sapere").

Dall'altro segnalo – descrittivamente e non (neo)puristicamente – un uso lessicale neologico dell'inglese, che si definirebbe decisamente "anglicismo di lusso", in quanto non suggerito dalla "necessità" di colmare un vuoto lessicale o concettuale dell'italiano e della cultura italiana. Si tratta più propriamente di un "anglo-americanismo", più che di un "anglicismo" in quanto tendenzialmente ignoto e non adoperato dai nativofoni inglesi, e quindi all'apparenza uno "pseudo-anglicismo" o, come direbbe un amico filologo, un "iper-anglicismo".



Qualche giorno fa, mi trovavo in una nota farmacia di Catania, e nell'attesa del mio turno, guardandomi intorno, sono stato colpito da un testo pubblicitario dove si leggeva HOT WATER BAG. Anche a non sapere una parola d'inglese, il testo era chiaro perché mostrava una bella foto della "borsa dell'acqua calda", con immancabile effetto di amarcord della mamma sempre pronta a soddisfare il tuo bisogno di caldo.

Ora l'espressione inglese "HOT WATER BAG" sembrava invero sospetta, malgrado l'impeccabile ordine delle parole dell'inglese, perché ricalcava lessicalmente l'espressione italiana: ''borsa dell'acqua calda".

A parte la consultazione di un dizionario bilingue italiano-inglese, la conferma indiretta di un sospetto "pseudo-anglicismo", ovvero di un anglicismo nostrano, sembrava avallata dalla risposta fornitami da una collega amica nativofona inglese.

Alla mia domanda: – "HOT WATER BAG mi sa di uno pseudo-anglicismo, o un anglicismo più inglese dell’inglese, laddove il lessema corrente in ingl. dovrebbe essere HOT-WATER BOTTLE. Mi confermi il mio sospetto? o entrambe le forme sono per te anglo-nativofona normali?" – la collega ha risposto senza batter ciglio: "Hot water bottle è quello che ho sempre usato. Non ho mai sentito "hot water bag". Una ulteriore conferma in tal senso mi è anche giunta da un secondo informante inglese.

Senonché un bravo collega tedesco (Harro Stammerjohann) mi ha lapidariamente fatto osservare che "In inglese americano hot water bag si usa dal 1864 (vedi OED. s.v.)". L'OED cartaceo del 1991,  non riportava invero il lemma "hot water bag", ma l'OED on line indica la voce come "chiefly U.S.". Si tratta quindi di un americanismo tendenzialmente estraneo all'inglese europeo, come ora mi conferma un informante americano universitario. E in effetti il Webster ovvero l'"American Dictionary of the English Language" nella III ed. 1961 "Webster's Third New International Dictionary of the English Language. Unabridged" (rist. Koenemann 1993), registra prioritariamente l’americanismo nell'ordine: "hot-water bag or hot water bottle" con la foto di una borsa d’acqua calda. E d'altra parte se il Ragazzini bilingue nella sezione "Italiano-ingl." indica come traducente solo "hot-water bottle",  invece nella sez. "Inglese-it." sotto "hot" precisa: "hot-water bottle (USA anche bag)".

Sarebbe interessante conoscere anche la vitalità di tale americanismo, se è presente in altre città italiane.

Volendo comunque esprimere un giudizio di valore, come parlante, direi che in quel contesto, tale neologismo – americanismo non familiare agli inglesi (o "falso pseudo-anglicismo", si potrebbe dire) – è del tutto gratuito, in quanto ha l'effetto paradossale di rendere poco comprensibile il "messaggio pubblicitario" rivolto a tutti.


P.S. Tenendo presente che l'ingl. hot water bottle è datato 1636 (OED), mentre l'anglo-americano hot water bag risale al 1864, maliziosamente si potrebbe anche sospettare che il costrutto borsa d'acqua calda sia un calco sull'anglo-americano. Il composto è infatti attestato in italiano, stando al Battaglia, solo nel 1947 con Pratolini e ("La borsa di gomma per l'acqua calda") nel 1949 con V. Brancati, per quanto retrodatabile al 1904 con "Google libri ricerca avanzata" in "Il Morgagni" (p. 74). Nessun esempio it. essendoci peraltro nell'800.

* Docente di linguistica generale presso l'Università di Catania.

Tra i suoi ultimi libri Il linguaggio di papa Francesco (Libreria editrice Vaticana 2016), Maestri della linguistica otto-novecentesca (Edizioni dell’Orso 2017), Maestri della linguistica italiana (Edizioni dell’Orso 2017).



domenica 1 aprile 2018

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