lunedì 30 giugno 2025

Il lamento di Adoperare: un'eleganza messa all'angolo

 

C’era una volta, nel Regno delle Parole, un verbo di nobile lignaggio, Adoperare. Viveva in una villa del modo congiuntivo, ai margini del Bosco Semantico, dove ogni frase aveva il profumo delle intenzioni e l'eleganza dell'attenzione.

Era un verbo amato dai poeti e dagli oratori. Diceva spesso, con un tono che tradiva un po’ di nostalgia: Ho adoperato ogni mia energia per aiutare chi ne aveva bisogno. Occorre adoperare buon senso, soprattutto nei momenti difficili. Adoperò parole gentili, scegliendole con attenzione.

Ma i tempi erano cambiati. Sulle bocche di tutti si aggirava il giovane Usare. Pratico, informale, ubiquo. Lo si sentiva dappertutto: Ho usato il trapano per appendere quel quadro. Puoi usare questa 'app' per tradurre istantaneamente. Ha usato parole dure, e ha ferito qualcuno.

Un giorno, durante una sessione del Gran Consiglio dei Verbi, Adoperare prese la parola. Si alzò in piedi, la voce colma di dignità e risentimento: Colleghi, mi stanno cancellando! Un tempo ero chiamato per ogni impresa sentita. Ora mi si sostituisce con un verbo… generico.

Un borbottio percorse l’aula. Ma fu allora che si levò un verbo arcigno ma saggio, Adoperarsi, fratello maggiore di Adoperare: La lingua non è mai ferma, fratello. Ma sappi che chi vuole dire qualcosa con amore e intenzione, ti cercherà. Nessuno adopererebbe te per caso.

I presenti annuirono. Anche il verbo Rammemorare, che raramente interveniva, sussurrò: Ricordate quando nel 1955, durante una storica conferenza a Torino, un anziano professore di retorica disse: "In questa aula oggi ci siamo adoperati con fermezza e rigore per difendere l'eleganza della parola?" Lo ricordano ancora in tre generazioni di grammatici.

Fu allora che Adoperare si commosse. E capì: non era la quantità delle sue apparizioni a determinarne il valore, ma la qualità. Rimase così a disposizione di chi, come i veri amanti della lingua, sa riconoscere la differenza tra un termine utile e una parola scelta.

Da allora, proseguì il suo viaggio nella lingua quotidiana, ma con una nuova consapevolezza. E ogni volta che qualcuno voleva dire qualcosa con animo, riflessione o rispetto… Adoperare tornava a vivere.

Adoperare, dunque, quando si vuole esprimere attenzione, cura, partecipazione consapevole. Quando l’azione è accompagnata da sentimento, intenzione o eleganza stilistica. È il verbo delle scelte ponderate, delle frasi che chiedono rispetto.

Usare, allorché si tratta di uno scopo pratico, funzionale, immediato. Quando l’azione riguarda uno strumento, un oggetto, un’applicazione del quotidiano, senza necessariamente aggiungere peso emotivo o raffinatezza.



Rischiare e arrischiare: due verbi (quasi) "identici"


N
ella nostra cara lingua italiana, esistono molte parole che sembrano intercambiabili, ma che in realtà nascondono sfumature interessanti. È il caso di rischiare e arrischiare, due verbi che condividono il concetto di pericolo, ma che si applicano – secondo chi scrive – in contesti leggermente diversi.

"Rischiare" è il verbo più comune e diffuso, impiegato sia nel linguaggio quotidiano sia in quello formale. Indica l'esposizione a un pericolo concreto o ipotetico, con la possibilità di subire danni o perdite con conseguenze negative. Spesso si lega a situazioni in cui il rischio è reale e tangibile, come rischiare la vita, rischiare un investimento o rischiare un incidente.

Un esempio emblematico è il viaggio di Cristoforo Colombo nel 1492. Nel salpare verso l'ignoto rischiò concretamente la propria vita e quella del suo equipaggio, affrontando un oceano sconosciuto e potenzialmente pericoloso. Tuttavia, il suo azzardo non fu solo fisico: arrischiò anche la sua reputazione e la fiducia dei sovrani che lo finanziavano. Se avesse fallito, il suo nome sarebbe stato ricordato come quello di un avventuriero imprudente, piuttosto che come quello di un grande esploratore.

"Arrischiare", invece, ha un tono più ricercato e letterario. Sebbene sia un sinonimo di rischiare, si distingue per un uso più legato al mondo delle scelte audaci, delle decisioni coraggiose e delle situazioni meno legate alla concretezza fisica.

Un caso interessante riguarda Giacomo Leopardi. Il poeta, con le sue idee controcorrente, arrischiò la propria credibilità letteraria sfidando il pensiero dominante del tempo. Se avesse scelto di conformarsi alle convenzioni dell’epoca, forse avrebbe avuto una carriera meno travagliata, ma proprio la sua audacia gli permise di influenzare profondamente la cultura italiana.

La distinzione tra i due sintagmi verbali non è assoluta e, nella pratica, si possono trovare numerosi casi in cui si sovrappongono. Tuttavia, per chi ama giocare con le sfumature della lingua, scegliere il verbo giusto può arricchire il discorso e renderlo più preciso ed elegante.

E proprio le vicende di Colombo e Leopardi dimostrano come il concetto di "rischio" non si limiti al pericolo fisico, ma possa anche tradursi in una scommessa intellettuale e morale.

In fondo, ogni parola porta con sé un mondo di significati, ed è proprio nelle piccole differenze che si nasconde il vero fascino della lingua italiana.

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Chi non risica, non rosica (senza correre rischi non si ottiene nulla)

Chi non arrischia, non guadagna (variante più antica e letteraria, ma con il medesimo spirito)

Meglio un rischio oggi che un rimpianto domani (è un invito a vivere con coraggio)

 

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La lingua “biforcuta” della stampa

“Via libera alle mine anti-uomo”, l’Ucraina si ritira dalla Convenzione di Ottawa

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Prima o poi, speriamo, gli operatori dell’informazione (ma non solo) impareranno a scrivere correttamente i prefissi (e i prefissoidi), che devono essere “attaccati” alla parola che segue: antiuomo. Il trattino si mette solamente se il prefisso (e il prefissoide) è seguito da un nome proprio: anti-Pomponio.



(Le immagini sono riprese dalla Rete, di dominio pubblico, quindi. Se víolano i diritti d'autore scrivetemi; saranno prontamente rimosse: fauras@iol.it)


domenica 29 giugno 2025

Valorizzare, il verbo che ha stancato anche sé stesso

 


Nell’immenso teatro della lingua italiana, ci sono parole che, da comparse umili, si ritrovano all’improvviso sotto i riflettori. Alcune reggono la parte, altre si montano la testa. Valorizzare appartiene alla seconda categoria: un verbo che ha esordito con buone intenzioni e ha finito col voler dire tutto e niente. Questa è la sua storia, raccontata con affetto e un pizzico di ironia.

Correva l’anno, poniamo, 1984. In una sede periferica del Ministero per i Beni Culturali, un funzionario guardava l'immagine di una chiesa sconsacrata con un’idea in mente: “Bisognerebbe valorizzarla.” Il termine suonava bene: propositivo, rispettoso, vagamente poetico. Nessuno obiettò.

Così valorizzare cominciò la sua scalata. In principio toccava solo a rovine, artigianato, paesaggi e tradizioni. “Valorizzare il territorio”, “valorizzare i mestieri antichi”. Poi arrivarono i convegni, le delibere, le ‘slide’. E a quel punto, valorizzare perse un po’ il senso dell’orientamento.

Si cominciò col valorizzare tutto: le risorse umane, i rifiuti, i sottopassi ferroviari. L’aria si riempì di valorizzazioni in atto, in itinere, in prospettiva. Ogni progetto, anche il più sgangherato, “mirava a valorizzare le sinergie”.

Verbi come “migliorare”, “rinnovare”, “recuperare” e simili cominciarono a sentirsi trascurati. Avevano un contenuto, ma non ‘suonavano’ abbastanza importanti. Valorizzare invece abbagliava, come una parola vestita con l’abito della domenica.

L’apoteosi si ebbe quando una nota azienda annunciò di voler “valorizzare le criticità interne”. Nessuno capì se fosse un’ammissione o una minaccia. Ma tant’è.

Poi, come di solito accade, arrivò la saturazione. Un assessore, intervistato durante una sagra di paese, dichiarò serissimo: “Valorizzeremo il soffritto.” Un applauso incerto. Qualcuno rise.

Fu il segnale. In alcuni ambienti si tornò timidamente ad  "apprezzare", "potenziare", "dare risalto a". Valorizzare, stanco di portare tutto il peso del ‘dire bene delle cose’, riscoprì il piacere del contesto giusto.

E fu così che, reduce da mille convegni e opuscoli patinati, si guardò allo specchio lessicale e sospirò: “È ora di tornare alle origini.” Si tolse il mantello istituzionale, abbassò il tono e si sedette accanto a riscoprire e illuminare, pronto a dire meno, ma meglio. E se oggi qualcuno tenta di “valorizzare la pioggia”, almeno c’è chi sa ancora distinguere il cielo dalle parole.

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Procedere, quale ausiliare?

 Due parole sul verbo intransitivo “procedere”, che può prendere tanto l’ausiliare ‘essere’ quanto ‘avere’. La scelta dell’ausiliare, però, è legata al significato che si vuol dare al verbo. Si adopererà l’ausiliare ‘essere’ quando il predetto verbo sta per ‘derivare’, ‘proseguire’: tutto ciò è proceduto (derivato) dalla tua imperizia; si userà ‘avere’, invece, nel significato di ‘dar principio’, ‘dare inizio’, ‘agire’ e simili: dopo le discussioni hanno proceduto (dato inizio) alle votazioni.  










sabato 28 giugno 2025

Dove il participio imparò a concordare


 C’era una volta, tra le colline verdi delle Frasi Ben Costruite, una piccola scuola di grammatica, l’Accademia della Concordanza Perfetta. In questa studiavano parole e costrutti desiderosi di imparare l’arte sublime dell’armonia linguistica.

Uno degli allievi più in difficoltà era il piccolo Participio Passato. Amava raccontare azioni già concluse, ma cambiava forma con troppa disinvoltura: un giorno si presentava come amato, un altro come amata, poi amati, e infine amate. Nessuno sapeva più riconoscerlo, e lui stesso cominciava a dubitare della propria identità.

Disperato, si rivolse alla maestra Sintassi, un’autorità elegante e paziente, famosa per risolvere i nodi più intricati della lingua.

“Maestra,” domandò il Participio, “quando devo cambiare forma? Perché a volte mi chiedono di adattarmi, altre no... Mi sento perso.”

La maestra Sintassi lo fece accomodare sotto una pergola punteggiata di proposizioni relative e, con voce rassicurante, iniziò:

“Piccolo mio, la tua forma dipende da chi ti accompagna nella frase. Se viaggi con il verbo essere, devi sempre adeguarti al soggetto. Per esempio, se la frase dice la bambina è caduta, tu diventi caduta, perché segui una bambina, femminile singolare. Se invece si dice i ragazzi sono tornati, ti trasformi in tornati, maschile plurale. E quando si dice le lettere erano state spedite, ti fai spedite, seguendo il plurale femminile.”

Il Participio annuiva, rincuorato.

“Ma, c’è un ma”, aggiunse la maestra, “quando viaggi con avere, non devi cambiare... a meno che il complemento oggetto non venga prima di te. Guarda: si dice ho letto i libri, e lì resti letto, perché i libri arrivano dopo. Ma se la frase è i libri che ho letti, lì l’oggetto è già stato espresso prima di te e allora ti trasformi in letti.”

Il Participio sgranò gli occhi. “E con i pronomi? Quelli piccolini che si mettono prima del verbo?”

“Sono piccini ma comandano, eccome!” disse la maestra ridendo. “Se il pronome è un oggetto diretto e viene prima del verbo, ti fai simile a lui. Se uno dice le ho viste al cinema, tu diventi viste, perché le si riferisce a donne o ragazze. Se invece si dice li abbiamo sentiti cantare, allora sei sentiti, perché li è un pronome maschile plurale. Oppure: L’ho trovata molto simpatica, ti trasformi in trovata, perché la è femminile.”

Il Participio si sentiva già più lucido, ma aveva ancora un dubbio.

“E gli ho parlato?” chiese.

“Il pronome gli in quella frase non è un oggetto diretto, è un complemento di termine. Quindi lì tu non cambi. Resti invariato.”

“E quel misterioso ne?” chiese con cautela il Participio.

“Ah, ne ha poteri sottili. Se dici ne ho mangiate tre, e ne si riferisce a tre mele, tu prendi la forma mangiate, perché è femminile plurale. Anche se l’oggetto è nascosto, tu devi adeguarti se il significato è chiaro.”

Il Participio, che ormai si sentiva un po’ più saggio, aggiunse: “E se ci sono più pronomi insieme, tipo quelli combinati?”

“Saggia domanda!” esclamò la maestra Sintassi, con un sorriso compiaciuto. “Guarda quest’esempio: Te le avevo promesse. Qui ci sono due pronomi: te, che è di termine, e le, oggetto diretto femminile plurale. Tu diventi promesse, perché ti accordi solo con il pronome oggetto diretto che ti precede: le.”

Il Participio si alzò in piedi, grato. Ora sapeva quando doveva mutare e quando rimanere fedele alla sua forma originale. Il segreto era osservare attentamente: chi veniva prima, cosa significava, e come si legavano le parole tra loro.

Da quel giorno, tornò tra le frasi con nuova fierezza. Le costruzioni lo accoglievano con rispetto, e ogni volta che qualcuno sbagliava una concordanza, una lieve brezza tra le righe sembrava suggerire: “Attento… il participio si adatta, ma solo quando serve.”








Accademia della Concordanza Perfetta


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Fuori margine. Il destino di una parola e delle persone che rappresenta


C
rediamo che poche parole abbiano resistito al tempo - e agli abusi del tempo - quanto emarginazione. Pronunciata con foga nei ‘talk show’, brandita come chiave universale nei convegni, evocata perfino nei ‘social post’ di chi cerca facili consensi, questa parola è passata da grido d’allarme a ‘slogan’ di circostanza. Ma dietro la sua usura comunicativa, conserva ancora un’anima viva?

Oggi come ieri, emarginazione è il termine prediletto di chi opera nelle scienze sociali: psicologi, educatori, sociologi, giornalisti. Con tono grave si afferma: “Il disagio giovanile è il frutto dell’emarginazione sociale”; “Le devianze nascono dall’emarginazione economica”; “Questa generazione è emarginata dal progresso”. Spiegazione definitiva, indiscutibile. O forse solo comoda.

Eppure, vale la pena fermarsi un momento. Cosa vuol dire davvero emarginare? Etimologicamente, nasce nel gergo tipografico: collocare un elemento fuori del margine, come quei titoli in grassetto nei vecchi manuali scolastici, che il tipografo spostava ai lati per sottolinearne l’importanza o per isolarli. Dal margine della pagina a quello della società, il passaggio è stato breve e brutalmente logico.

Nel tempo, la metafora ha preso forma concreta: sono “fuori margine” gli immigrati esclusi dall’integrazione; le persone “neurodivergenti” o con disabilità, ancora invisibili nel quotidiano “normalizzato”; le minoranze culturali, politiche, economiche, che disturbano il corpo uniforme della cosiddetta maggioranza.

Ma oggi l’emarginazione si è fatta più silenziosa e tecnologica. Non sempre visibile nelle strade, spesso si nasconde in algoritmi, interfacce e metriche di ‘performance’. Chi non parla la lingua dei codici, chi non ha accesso alla rete o agli strumenti digitali, finisce col "non esistere” statisticamente. L’inclusione è diventata una questione di banda larga.

Eppure, come scriveva acutamente Ethel WatersNoi emarginati siamo molto felici di lasciare il giudizio ai nostri superiori sociali. Una frase che oggi suona più attuale che mai. Forse, in un mondo che continua a spingersi verso l’omologazione, chi vive ai margini può ancora essere voce libera, scomoda, ma necessaria.


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Nutrito? No, caloroso

Due parole, due, sull’uso di un aggettivo che a nostro modo di vedere molto spesso viene adoperato a sproposito: nutrito. Questo aggettivo, dunque, è il participio passato del verbo “nutrire” e significa ‘pasciuto’,‘robusto’,‘ben alimentato’ e simili: è un ragazzo ‘nutrito’, cioè pasciuto. Molto spesso si usa, invece, con un significato che non ha: ‘caloroso’, ‘forte’, ‘insistente’, ‘scrosciante’ e simili: la cantante è stata accolta con un nutrito applauso. Quest’uso, se non scorretto, ci sembra, per lo meno, ridicolo. Gli applausi possono essere ‘nutriti’, cioè pasciuti, robusti? Certamente no. Chi ama il bel parlare e il bello scrivere ha altri aggettivi che fanno alla bisogna in casi del genere: caloroso, lungo, forte, fragoroso, scrosciante, incessante ecc.

 

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Parole “ermafrodite”

Si potrebbero definire “ermafrodite” quelle parole che i grammatici chiamano ambigeneri (o epicene) perché si differenziano solamente per mezzo dell’articolo o dell’aggettivo concordanti, non mutano, insomma, la desinenza. Appartengono a questa categoria: a) le parole terminanti in “-e”: il custode, la custode; il nipote, la nipote, il consorte, la consorte ecc.; b) i participi presenti sostantivati: il cantante, la cantante (a questo proposito sarebbe “piú corretto” dire la studente); c) le parole terminanti in “-ista” e in “-cida”: il ciclista, la ciclista; il fratricida, la fratricida; il giornalista, la giornalista. Questi ultimi sostantivi, però, nel plurale hanno forme distinte per il maschile e per il femminile: i ciclisti, le cicliste; i fratricidi, le fratricide. Vi sono, inoltre, le “ermafrodite” apparenti la cui differenza non è il genere ma il significato. I grammatici le chiamano “falsi ambigeneri” o “ambigeneri apparenti”. Vediamone qualcuna: il fine (lo scopo), la fine (il termine); il moto (movimento), la moto (la motocicletta); il radio (minerale), la radio (apparecchio ricevente): il pianeta (corpo celeste), la pianeta (paramento liturgico); il fronte (zona di guerra), la fronte (parte del volto); il tema (il componimento), la tema (la paura); il lama (monaco), la lama (parte del coltello); il boa (serpente), la boa (il galleggiante).  



giovedì 26 giugno 2025

Sgroi - 198 - “Ìran” (piano) o “Iràn” (tronco)?




di Salvatore Claudio Sgroi


1. Guerra mondiale ‘a pezzi’

Il bombardamento degli USA, insensatamente deciso da Donald Trump, in tre siti nucleari iraniani ha comportato una frequenza notevole in TV del toponimo “Iran”, pronunciato ora tronco “Iràn”, ora meno frequentemente piano “Ìran”.


2. Uso corretto della pronuncia del toponimo “Iran”

Stando al DiPI. Dizionario di pronuncia di Luciano Canepàri (Zanichelli 2000, anche in rete), entrambe le pronunce, piana /ìran/ e tronca /iràn/, peraltro omografe, i.e. graficamente non distinte <Iran>, sono normativamente corrette. Ovvero la pronuncia piana /ìran/ è quella “tradizionale”, “la più consigliata”, mentre la pronuncia tronca /iràn/ è quella “moderna”, “la più consigliabile”.

Il DOP. Dizionario d’ortografia e di pronuncia di B. Migliorini-C. Tagliavini-P. Fiorelli, ERI 1981 nuova ediz., lemmatizza la voce <Īrān>, seguita dalla pronuncia etimologica tronca con lunghezza vocalica “[persiano iiràan]”, e indica l’adattamento alla grafia italiana “italianizz. Iran” seguita a sua volta dalla pronuncia (etimologica) tronca “[iràn]”.

Il DOP online, ovvero Dizionario italiano multimediale e multilingue d'ortografia e di pronunzia, seconda edizione multimediale (2025), fornisce le stesse informazioni, con in più la censura della variante piana: “Īrān [persiano iir#an] top. m. — italianizz. Iran [ir#n; non &-ì]”.

G. Malagoli in L’accentazione italiana (Sansoni 1946 I ed., 1968 II ed.) rileva che, quanto ai “nomi propri geogràfici stranieri […], spesso se ne sposta l’accento (quando non è segnato) secondo il ritmo da noi preferito. Così molti pronunziano […] Iran e Iraq invece di Iràn e Iràq” (p. 86).


3. Iran (tronco) in inglese secondo l’OED

L’OED, adesso on line come “an open source”, <https://www.oed.com/dictionary/iran_n?tab=factsheet#12533013> indica le seguenti varianti, entrambe tronche, per la pronuncia inglese:

British English

/ɪˈrɑːn/ /ɪˈran/


irr-AHN irr-AN


       3.1. Iran (tronco) in anglo-americano secondo l’OED (e in spagnolo e in tedesco)

Lo stesso OED indica le seguenti due varianti, sempre tronche, per l’anglo-amero)icano:

U.S. ENGLISH

/ɪˈræn/ /ɪˈrɑn/

eer-AN eer-AHN

En passant ricordiamo che in spagnolo il toponimo è tronco: “Irán” e così pure in tedesco /iˈʁaːn/.


3.2. Iran (tronco) in anglo-americano secondo il Merriam-Webster’s Collegiate Dictionary (200311)

Stando al Merriam-Webster’s Collegiate Dictionary (200311) il “geographical Name” Iran è voce tronca, con variazioni riguardante la prima vocale breve /i-ˈrän/” o dittongata /ī-ˈran/ e contemporaneamente la seconda vocale velarizzata o palatalizzata, in IPA: /ıˈrɑn/, /aiˈræn/. Papa Leone XIV ha pronunciato in italiano con accento piano (e non tronco) il termine Iran, come la variante americana di cui appresso, § 3.3).


3.3. Ancora Iran in anglo-americano anche piano

Un caro amico residente da anni negli USA, mi fornisce questi dati, ancora diversi.

Personalmente dico ìran, ovvero piano. In inglese americano ho sempre sentito sia "ì ran" [piano] che "ai ràn" [tronco], ma anche "airén" [tronco], ovvero pronunciato come "I ran" (io corsi).

I video su YouTube propendono per la prima versione dicendo che la seconda è scorretta e ignorando la terza opzione, ma questo video di YouTube <https://www.youtube.com/shorts/t4IaGv8xuGU> rivela come l'americano medio (che non sa neanche dove sta l'Iran sulla cartina) lo pronuncia nel terzo modo (il tizio fa leggere la parola alla madre)”.

Donald Trump in una intervista ha peraltro adoperato una ulteriore variante tronca:

/ɪˈrɑn/.


4. Ritmo delle due pronunce

In termini di prosodia o fonologia metrica (cfr. M. Nespor, Fonologia, il Mulino 1993; G. Marotta – L. Vanelli, Fonologia e prosodia dell’italiano, Carocci 20242), la pronuncia piana /ìran/ si configura come voce Ω costituita da un piede (P) trocaico, formato cioè da due sillabe (s), una tonica o forte (f) e l’altra atona o debole (d):




La pronuncia tronca caratterizza invece il lessema in quanto formato da due piedi monosillabi “degenerati” o “malformati”:



5. Etimo di Iran

Stando a l’Etimologico. Vocabolario della lingua italiana di A. Nocentini con la coll. di A. Parenti (Le Monnier 2010), infine, “Il nome dell’Iran, attraverso la forma m.pers. Ērān, risale al a.pers. Ariyānām ‘(paese) degli Arii’.


Sommario

1.. Guerra mondiale ‘a pezzi’

2. Uso corretto della pronuncia del toponimo “Iran”

3. Iran (tronco) in inglese secondo l’OED

3.1. Iran (tronco) in anglo-americano secondo l’OED (e in spagnolo e in tedesco)

3.2. Iran (tronco) in anglo-americano secondo il Merriam-Webster’s Collegiate Dictionary (200311)

3.3. Ancora Iran in anglo-americano (anche piano)

4. Ritmo delle due pronunce

5. Etimo di Iran






Il mistero del verbo silenzioso. Una favola linguistica sul fascino discreto di “intravedere” e sul sortilegio della doppia V

 

Tantissimo tempo fa, nel Regno delle Parole Fraintese, viveva un verbo giovane e curioso: Intravedere. Aveva origini nobili, discendeva dalla stirpe latina di intra-, che significa “dentro”, e videre, il potente verbo “vedere”. Era un verbo timido, che si faceva largo tra le frasi solo quando si trattava di vedere qualcosa fugacemente, in modo indistinto o parziale. Mai troppo netto, mai troppo diretto.

Nel Regno, però, c’erano degli spiritelli dispettosi: i Maligni Raddoppiatori. Erano famosi per infilare consonanti doppie dove non servivano. Si divertivano a confondere i viandanti della lingua, soprattutto quando sentivano parole pronunciate con forza o inflessione dialettale.

Un giorno Intravedere, passeggiando tra le pagine di un libro, sentì alcuni umani pronunciarlo con enfasi: “L’ho intravvisto, giuro!”

Intravvisto?” sussurrò sconvolto. “Ma io non ho due V!”

E aveva ragione. Dal punto di vista etimologico e grammaticale intravedere si scrive e si coniuga con una sola V: intravedo, intravedevo, ho intravisto...

Ma gli umani, affascinati dal suono più forte o forse vittime dell’influenza di parole come avvenire o avvistare, cadevano nell’errore del raddoppiamento. A volte si lasciavano ingannare da una pronuncia più “dura”, altre volte da un parallelismo mentale infondato.

Intravedere si rivolse allora alla Regina Ortografia: “Maestà, potete aiutarmi? Vorrei che il mio vero nome fosse ricordato!”

La sovrana, saggia e composta, lo fece accomodare sotto la grande Quercia della Sintassi e con voce ferma ma affabile, spiegò:

“Vedi, mio caro Intravedere, il problema nasce dal fatto che alcuni prefissi, come infra-, richiedono il raddoppiamento fonosintattico. Questo significa che, quando precedono certe parole, provocano il raddoppio della consonante iniziale del secondo elemento. È per questo che diciamo inframmezzo con due “m”, perché mezzo inizia con una consonante e infra- la rafforza foneticamente. Ma tu, nobile verbo, porti il prefisso intra-, che vuol dire anch’esso “dentro”, ma non provoca raddoppi. È più discreto, più composto. Non chiede rinforzi fonetici. È per questo che il tuo passato è, senza ombra di dubbio, intravisto, con una sola “v”. Nessun Raddoppiatore può cambiare ciò che l’etimologia, ma soprattutto (ecco un altro prefisso, sopra-, che esige il raddoppiamento della consonate che lo segue) la norma grammaticale, ha stabilito.”

Intravedere chinò il capo, sollevato. Il suo nome, ora spiegato e protetto dalla grammatica regale, avrebbe vissuto per sempre… con una sola V.

E così fu: da quel giorno, ogni volta che una penna tentennava tra intravisto e intravvisto, una vocina gentile - forse quella della Regina Ortografia stessa - sussurrava: “Una sola ‘v’, per favore.”










mercoledì 25 giugno 2025

Multare o sanzionare? Una questione di sfumature (e taccuini grammaticali)

 

Nel vastissimo labirinto della lingua italiana, due verbi spesso usati come sinonimi celano, in realtà, sfumature non trascurabili: multare e sanzionare. Il loro uso indifferenziato può trarre in inganno anche il più scrupoloso degli scriventi: non è raro che la severissima paletta della “Polizia della lingua italiana” spunti all’improvviso, segnale inconfondibile dell’imminente multa grammaticale redatta con cura certosina sul taccuino dell’agente linguista di turno.

Cominciamo con l’etimologia, che, come una lente d’ingrandimento nel tempo, aiuta a comprendere il significato originario delle parole.

Multare, dunque, deriva dal latino multare, a sua volta da multa, cioè “pena pecuniaria”. È dunque un verbo strettamente legato all’idea di denaro e punizione economica. Quando un vigile “multa”, impone una somma di denaro da pagare come punizione per aver infranto una norma (l’automobilista è stato multato per divieto di sosta).

Sanzionare, invece, non è schiettamente italiano provenendo dal francese sanctionner, derivato di sanction “sanzione”, vale a dire ratificare, sancire, approvare.  Con il trascorrere del tempo ha acquisito due ‘sensi’ principali: da un lato, quello giuridico e punitivo - simile a punire - e, dall’altro, uno più neutro, che implica la convalida o approvazione di un atto (l’azienda è stata sanzionata per violazione delle norme ambientali / il governo ha sanzionato l’accordo con un decreto).

Qui si nota una differenza sostanziale tra i due sintagmi verbali: multare è sempre e solo punitivo, e riguarda il denaro. Sanzionare, invece, è più elastico: può punire, ma anche ratificare.

È proprio questa duttilità che rende sanzionare un verbo di livello stilistico leggermente superiore, spesso adoperato nel linguaggio burocratico, politico e legale. Ma attenzione: il suo uso va ‘dosato’ con cura, per evitare ambiguità e fraintendimenti.

Per concludere queste noterelle, attenzione all’uso corretto, dunque: la Polizia della lingua italiana non dorme mai. È armata di dizionario e sarcasmo, e pronta a colpire dove il congiuntivo vacilla o il verbo sbaglia mira.


martedì 24 giugno 2025

Lingua italiana sotto controllo: pattuglia in azione contro le frasi fuori legge - Chi rifiuta due negazioni… potrebbe beccarsi una multa grammaticale

 

Nel meraviglioso panorama della lingua italiana, la doppia negazione è un fenomeno che spesso suscita dubbi e discussioni. Alcuni linguisti la bollano come errore, magari influenzati da lingue straniere come l’inglese, dove due negazioni si annullano a vicenda. Ma in italiano, invece, si rafforzano. E non è un dettaglio da poco.

Dire non ho visto nessuno non è soltanto corretto: è necessario. È l’unico modo per esprimere chiaramente una negazione totale. Frasi come ho visto nessuno sono scorrette e, linguisticamente parlando, senza copertura assicurativa. La presenza combinata di “non” con avverbi o pronomi negativi - come mai, nessuno, nulla, niente - non è ridondante: è parte integrante della struttura sintattica dell’italico idioma.

La doppia negazione, nella lingua di Dante, non solo è ammessa, ma spesso è richiesta per garantire la chiarezza e la coerenza del messaggio. È una costruzione linguistica che affonda le radici nel latino e si è trasmessa fino a noi con tutto il suo peso grammaticale e la sua eleganza.

In realtà, il parlato quotidiano - specie nei dialetti e nelle varietà regionali - spesso amplifica ulteriormente la negazione, dando vita a triplette del tipo: non ho mica detto niente a nessuno. È un trionfo espressivo, un’esagerazione intenzionale che dà colore e intensità al messaggio.

Chi pensa che la doppia negazione sia/è un errore lo fa spesso per eccesso di razionalismo grammaticale o per imitazione di modelli linguistici che nulla hanno (a) che vedere con la nostra tradizione. Ma la grammatica italiana ha una sua logica interna e una musicalità specifica. Abbandonarla per conformarsi a schemi estranei significa impoverire la lingua, renderla più rigida e meno espressiva.

D’altra parte, è bene ricordarlo: nel registro formale, conviene non abusare di troppe negazioni per non rendere il periodo oscuro o faticoso. Ma eliminarle del tutto, per “snellire”, sarebbe come servire una carbonara senza guanciale: può anche passare, ma qualcuno - giustamente - si può ribellare.

Usare bene la doppia negazione è segno, dunque, di consapevolezza linguistica. Ignorarla, invece, potrebbe costar caro… specie se nei paraggi c’è una pattuglia della Polizia della Lingua Italiana pronta a multare i "detentori" di frasi fuori legge.









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Chi ha ucciso il sostantivo ampollanza?


D
imenticato dai dizionari, ignorato dal parlato, ma mai davvero morto nei cuori di chi ama le parole con troppa stoffa: questa è la storia del sostantivo ampollanza, tra-volto dal minimalismo e sepolto tra le pieghe dell’enfasi. Un’indagine, un elogio, forse una resurrezione.

Ampollanza è uno di quei sostantivi astratti che sembrano affacciarsi da un balcone del passato, agitando un fazzolettino di seta lessicale. Raro, elegante, volutamente barocco, eppure - paradossalmente - rimasto nell’ombra di parole più moderne, più piatte, più comode. La sua origine è chiara: ampolla (dal latino ampulla), vaso rotondeggiante, prezioso, quasi cerimoniale. Da qui ampolloso, aggettivo che designa ciò che è tronfio, pomposo, ridondante. E infine, per derivazione astratta, ampollanza (‘ampolla’ + il suffisso ‘-anza’)l’essere enfaticamente eccessivo nel discorso, nella scrittura o nel gesto.

Questa parola ha subito il destino di chi indossa abiti troppo sontuosi in una sala dove ormai va di moda il minimalismo. Scomparsa dai dizionari dell’uso, ignorata nei registri comuni, vive oggi solo come eco in qualche raccolta ottocentesca o trattato retorico dimenticato su uno scaffale polveroso.

Ma proprio per questo, ampollanza meriterebbe una rinascita filologica. Non esiste, nell’italiano corrente, un sostantivo così netto e preciso per definire quella particolare tonalità di magniloquenza che trabocca dai discorsi eccessivi: che siano comizi teatrali, prosa barocca o gesti da grande attore tragico in cerca d’applausi. “Enfasi” è troppo generico, “pomposità” troppo greve. Ampollanza invece è colta, ironica, affilata: un colpo di fioretto lessicale.

Recuperarla sarebbe un gesto di cura nei confronti della lingua, un modo per ridare fiato a un lessico che rischia di appiattirsi. Sarebbe bello vederla tornare in circolo nei saggi, nei commenti letterari, persino in qualche articolo un po’ malizioso che voglia sottolineare con eleganza un eccesso di toni. Non è nostalgia: è amore per la precisione, per la musica nascosta nelle parole.

E allora, a suggello di questa memoria linguistica, le dedichiamo il suo elogio:

Qui giace, dimenticata ma non indegna, la parola Ampollanza.

Non era parola modesta, no. Vestiva lungo, con fronzoli d’accademia e piume d’ironia, e si presentava ai discorsi con passo solenne e sguardo obliquo. In un mondo che premia la brevità, ella volle essere esuberanza. In un tempo che celebra il minimalismo, ella fu sinfonia.

Nacque dai fasti dell’ampolla, lucente recipiente di cerimonie e pomposità, e si fece nome astratto per definire l’arte del dire troppo, del dire gonfio, del dire per sentirsi dire. Non visse nell’anonimato: i retori la frequentavano, i polemisti la temevano, i maestri del barocco le facevano la corte.

Poi, il silenzio.

Spenta nel vociare semplice dei tempi nuovi, accantonata in favore di giri più sobri, ampollanza smise di far risuonare le sale delle conferenze e i corridoi della critica letteraria. Gli ultimi a nominarla furono studenti stanchi, inciampando in qualche trattato antico.

Oggi, qui, la salutiamo con il dovuto rispetto. Perché anche le parole cadute meritano un addio degno della loro forma.

Addio, ampollanza. Forse un giorno, tra le labbra di un autore nostalgico o fra le righe di un saggio rinato, tornerai a gonfiare il petto dell’italico idioma.


lunedì 23 giugno 2025

Ministero della Lingua Italiana – Sezione Interventi Straordinari sul Verbo

 

Correva l’anno, mettiamo, 1953. In un ministero vagamente polveroso, tra classificatori verdi e posacenere di vetro pesanti, il ragionier Guerrieri stava “esaminando con la dovuta cura” una circolare. Nulla di eccezionale: un giusto equilibrio tra dovere e grammatica. Poi, come un refuso destinato a diventare norma, ecco insinuarsi un verbo nuovo, con l’aria di chi bussa alla porta ma ha già il cappello in mano per restare: attenzionare.

All’inizio nessuno lo prese sul serio. Era uno di quei termini che, in ufficio, si usavano per scherzo, tra colleghi: “Capo, la pratica è stata debitamente attenzionata!” e risate soffocate tra le sigarette. Ma si sa, l’ironia ha vita breve negli uffici. L’anno successivo attenzionare finì scritto in bella copia in un protocollo, poi in un verbale, infine su una targa dorata fuori dalla sala riunioni.

Nel frattempo, i poveri sintagmi verbali “considerare”, “valutare”, “esaminare” e simili cominciarono a sentirsi messi da parte. Troppo sobri, troppo modesti. Attenzionare invece brillava di una luce nuova: era un verbo allineato con l’efficienza, con l’impegno, con il lessico della serietà apparente. Se ne innamorarono gli enti pubblici, le commissioni d’inchiesta, i comitati di vigilanza e perfino alcuni parroci particolarmente aggiornati.

Ma a ben vedere, che cosa vuol dire attenzionare? Nulla che non si potesse dire meglio con due verbi già in servizio permanente effettivo. È come chiamare “soluzione idrica a temperatura elevata” una tazza di tè.

Negli anni successivi, attenzionare entrò nei registri scolastici (“alunno da attenzionare per eccesso di creatività”), poi nelle lettere ai genitori, e infine nella burocrazia affettiva: “La mia attenzione ti attenziona da giorni.” Un destino tragico.

Eppure, non tutto è perduto. Ogni parola ha la sua epoca, ma anche l’occasione per ritirarsi con grazia. Forse un giorno, tornando a “notare” a “considerare” e ad altri verbi che fanno alla bisogna, riscopriremo il piacere di dire le cose con sobrietà. E quel giorno, qualcuno sorriderà nel sentire attenzionare, come si sorride di una vecchia canzonetta pubblicitaria: con affetto, ma senza nostalgia.




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Una parola in corsia preferenziale


F
acciamo finta che sia il 1998. Un funzionario ministeriale, cravatta a righe e sguardo intento, sta redigendo un comunicato. Deve dire che la relazione è stato espressa, diffusa, comunicata, divulgata. Ma “dire” pare troppo nudo, “comunicare” troppo diretto, “trasmettere” suona un po’ da vecchie frequenze radio. Serve un sintagma verbale che scivoli via con solennità, come una berlina scura su un tratto autostradale. Entra così in scena lui: veicolare.

All’inizio pare un tecnicismo, più adatto a un’officina che a un discorso pubblico. Ciononostante conquista in fretta i salotti buoni della lingua istituzionale. Le aziende “veicolano valori”, i marchi “veicolano emozioni”, i dirigenti “veicolano visioni strategiche”. Nessuno osa più dire, semplicemente, “esprimere” e simili.

In pochissimi anni veicolare si emancipa dal traffico stradale per farsi verbo delle relazioni umane, della formazione, della persuasione. Il docente non spiega più: veicola contenuti. Il pubblicitario non racconta: veicola messaggi. Il ‘partner’ non ama: veicola affetto sincero.

Eppure, nonostante la sua patina autorevole, veicolare resta un po’ goffo. È il verbo di chi vuole impressionare ma inciampa nei calzini a rombi. Come attenzionare, ha preso la corsia di sorpasso del prestigio linguistico, lasciando indietro verbi sobri e duttili come “dire”, “trasmettere”, “esprimere”, “mostrare”.

Un giorno forse anche veicolare tornerà nel suo garage semantico, sorpassato da qualche nuovo verbo brillante e aerodinamico: declinarevalorizzare? Chissà. Intanto, lasciamolo girare ancora un po’, con la sua ventiquattrore piena di metafore e la radio sintonizzata sull’apparenza.










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La lingua “biforcuta” della stampa

Si trova ad Avigliano il coltello più grande del mondo

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Sì, ci ripetiamo: quanto è grande il mondo? La risposta agli operatori dell’informazione.



domenica 22 giugno 2025

Implementare: uso consapevole di un forestierismo legittimato

 

Il verbo implementare ha conosciuto una diffusione crescente nel linguaggio contemporaneo, soprattutto in ambito tecnico, amministrativo e informatico. Benché la sua origine non sia italiana (dall’ingl. (to) implement), è oggi registrato nei principali repertori lessicografici e ampiamente adoperato in determinati contesti specializzati.

Nel suo significato proprio, implementare equivale a "rendere operativo ciò che è stato concepito", con particolare riferimento a processi, sistemi e strumenti tecnici. Si implementa un ‘software’, un’interfaccia, un protocollo: in questi casi il sintagma verbale ha un valore preciso, condiviso e non equivoco, pienamente giustificato dalla necessità di indicare operazioni complesse e strutturate.

Più discutibile – secondo chi scrive - è il suo uso al di fuori del campo tecnico. In documenti aziendali, progetti istituzionali, piani strategici e contesti manageriali, implementare tende (talvolta) a sostituire verbi italiani come attuare, applicare, realizzare, mettere in opera. Questo ricorso sistematico, spesso ispirato da una volontà di apparente modernità espressiva, rischia però di impoverire la lingua e di generare un tono artificioso.

L’uso indiscriminato di tale verbo può facilmente scivolare nella caricatura, come quando si cerca di nobilitare un’azione ordinaria con una parola altisonante. Dire che si sta implementando un regolamento interno o una nuova abitudine lavorativa può suonare, a ben vedere, come un eccesso di zelo lessicale.

Per questo è consigliabile riservare implementare al dominio informatico e tecnico, dove il suo uso è pienamente legittimo. Negli altri casi è bene prediligere alternative italiane più trasparenti, eleganti e adatte al contesto, evitando così sovrapposizioni di significato o effetti di ridondanza.

Chi desidera coltivare una lingua sobria ma ricca, precisa ma non pretenziosa, farà bene, dunque, a usare implementare con misura e discernimento. Non è questione di purismo, ma di stile e senso della (buona) lingua.

 

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Flagranza e… fragranza

Si faccia attenzione ai due lessemi perché spesso si confondono. Hanno significati totalmente diversi. Si veda  flagranza e fragranza.  


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La lingua “biforcuta” della stampa

Come mai la segreteria di Letizia Ortiz si è già licenziata (dopo solo 15 mesi)?

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Ecco un’altra “prova provata” di quanto sosteniamo. I “massinformisti” non rileggono quanto scrivono, ma anche se rileggono i loro scritti...