Ci sono vocaboli, nel nostro lessico, che non si lasciano incasellare. Mutano, si piegano, si allungano, assumono vesti nuove come attori su un palcoscenico. Realista è uno di questi: un lessema ambivalente, che nel tempo è passato dalle dimore reali alle pagine dei romanzieri, dalle guerre civili alle analisi quotidiane del mondo reale.
All’origine, il termine realista nasce da rex, regis, il re. Chi era realista “tifava” per il re, ne difendeva i diritti e l’autorità. Il vocabolo assume forza in contesti di conflitto: si pensi alla Francia postrivoluzionaria, all’Inghilterra delle guerre civili, alla Spagna ottocentesca. Il realista è il lealista, il monarchico, il conservatore che si oppone, con fermezza, al vento del cambiamento.
Ma già dal Medioevo, il latino realis, da res (cosa), si affaccia sulla scena filosofica, indicando ciò che ha esistenza concreta, ciò che è, in opposizione all’astratto, al nominale. In questo senso il lessema in oggetto comincia a scollegarsi dall’ambito monarchico per alludere a una dimensione più generale: quella della realtà.
Nel corso dell’Ottocento questo slittamento semantico accelera. Crollano le monarchie, avanzano le ideologie, e realista si ricolloca. È il secolo del realismo filosofico, che rifiuta le illusioni dell’idealismo; è il tempo del realismo letterario, da Balzac a Verga e oltre, dove la realtà - sociale, quotidiana, spesso cruda - è al centro della narrazione. Il realista ora non è più il devoto del re, ma colui che guarda in faccia le cose, che rifiuta l’idealizzazione, che aderisce al vero.
Il passaggio è reso possibile da una sottile ambiguità linguistica: reale può derivare sia da rex (re) che da res (cosa). Così, il realista può essere tanto colui che difende il re quanto colui che aderisce alla realtà delle cose.
Questa biforcazione prosegue nel Novecento, con nuove varianti:
Il realismo socialista, che coniuga ideologia e rappresentazione;
Il neorealismo italiano, che ritrae l’Italia del dopoguerra senza filtri;
Il realismo magico, dove il fantastico si innesta in contesti realistici creando uno spazio di verità più profondo.
Oggi, dire che una persona è realista significa descriverne l’attitudine concreta, la tendenza a valutare le cose nella loro effettività, senza farsi illusioni. Ma quel significato monarchico non è morto: sopravvive in alcuni contesti storici e in lingue come lo spagnolo, dove realista designa ancora il monarchico.
Due esempi per coglierne la duplice anima:
I realisti inglesi sostenevano Carlo I contro i parlamentari.
Paola è realista: sa che per finire il progetto serviranno settimane.
Un sintagma che ha attraversato i secoli, trasportando con sé l’eco del potere e la sete di verità. Realista è oggi un ponte lessicale tra l’ideologia e l’esperienza, tra ciò che si sostiene e ciò che si osserva.
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La lingua “biforcuta” della stampa
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Un’altra conferma di quanto denunciamo da anni: gli operatori dell’informazione non rileggono ciò che scrivono, certi della loro “infallibilità linguistica”.

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