lunedì 21 luglio 2025

Lamentare non è volere: anatomia di un equivoco linguistico

C’è un lessema che cammina su un filo sottile, in bilico tra il malinteso e l’emozione vera. È lamentare, verbo spesso maltrattato, confuso, frainteso. C’è chi lo usa per pretendere, chi per chiedere, chi per esigere… ma la sua anima racconta tutt’altro: parla di dolore, di disagio, di ferite che cercano voce.

Queste noterelle cercano di sciogliere il nodo semantico che troppo spesso – secondo chi scrive - strangola il significato di lamentare, restituendogli la sua dignità. E alla fine, come dolce coda di parole, una favola: un merlo sensibile, una gazza pretenziosa, e un bosco dove anche i verbi hanno diritto alla verità.

In un tempo in cui le parole volano leggere tra messaggi, posta elettronica e discorsi quotidiani, è facile che alcune perdano il loro significato originario, travisate da fretta, moda o semplice disattenzione. Una di queste è il verbo lamentare, spesso frainteso, piegato e adattato a usi impropri, se non errati, che rischiano di minare la precisione e la bellezza della nostra meravigliosa lingua italiana.

Lamentare, per sua natura, è un verbo carico di emozione. Deriva dal latino lamentari, che significa “esprimere dolore”, “piangere”, “addolorarsi”. È un sintagma che vibra nella gola, che porta con sé il suono della sofferenza, l’eco di un disagio che cerca voce. Si lamentano dolori fisici, dispiaceri morali, ingiustizie patite. Quando diciamo “lamentarsi”, stiamo dando forma a una manifestazione di turbamento o disagio.

Eppure, capita di sentire e di leggere frasi come “si è lamentato di non aver ricevuto il premio”, intendendo che qualcuno ha preteso, chiesto, rivendicato qualcosa. Questa accezione è impropria, oseremmo dire errata, perché lamentare non significa domandare o richiedere, sibbene esprimere sofferenza, denunciare un torto, manifestare un malessere. Non si dovrebbe dire “l’azienda lamenta nuovi investimenti”, semmai “l’azienda richiede nuovi investimenti” o “sollecita nuovi investimenti”.

L’ambiguità, purtroppo, nasce spesso dall’imitazione maldestra di linguaggi burocratici o giornalistici, che talvolta utilizzano il verbo in modo superficiale. Ma l’italiano, se usato con rispetto e attenzione, ci invita a distinguere tra il dolore espresso e la richiesta formulata. Lamentare ha una sua dignità semantica, non va confusa con esigere, volere, chiedere e simili.

Adoperarlo correttamente significa “rispettare” la sensibilità delle parole, il loro potere evocativo. Un paziente può lamentare dolori al petto, ma non lamentare un appuntamento mancato. In quel caso, può disapprovare, chiedere spiegazioni, segnalare un disguido.

La lingua - come abbiamo scritto altre volte - è un organismo vivo, sì, ma la sua vitalità risiede anche nella precisione. E usare lamentare secondo la sua vera accezione è un modo per dare valore alle emozioni che porta con sé e per evitare di svilirne la forza.

Che il nostro parlare (e scrivere) sia quindi più consapevole. Non per rigidità, ma per amore del significato. Perché ogni parola ha un cuore, e lamentare pulsa di dolore, non di pretese.

*

Nel cuore di un bosco fitto, dove le parole correvano leggere tra le fronde, viveva un merlo dal canto dolce e dall’animo sensibile. Si chiamava Melodeo, e non passava giorno senza che qualcuno lo sentisse raccontare i suoi turbamenti: “Mi si è incastrata una spina sotto l’ala…”, “Ho nostalgia dei cieli del Sud…”, “Quel temporale mi ha fatto tremare le penne”. Melodeo, insomma, si lamentava. Ma nel senso proprio: esprimeva dolore, tristezza, disagio.

Un giorno, una gazza irrequieta, Gilda, decise di imitare lo stile del merlo. “Mi lamento perché non ho ricevuto il primo posto al concorso di piumaggio!”, strillò. “Mi lamento perché voglio le more più grosse dell’albero vicino!” E ancora: “Mi lamento perché esigo che tutti mi ascoltino!”

Gli altri animali rimasero confusi. “Ma… sei triste? Ti fa male qualcosa?” chiese la civetta saggia.

“No!” sbottò Gilda, “Voglio solo essere accontentata!”

Fu allora che Melodeo, il merlo, con delicatezza, le si avvicinò. “Gilda, perdonami, ma quello non è lamentarsi. Quello è pretendere. Quando mi lamento, condivido un dolore, una pena. Tu invece stai chiedendo.”

La gazza sbuffò, ma cominciò a riflettere. Il gufo, che registrava tutte le parole del bosco in antichi manoscritti, intervenne: “Il verbo lamentare, figli miei, viene dal latino lamentari, che vuol dire esprimere dolore, cordoglio, sofferenza. Le richieste appartengono ai verbi volere, esigere, domandare. Ogni verbo ha la sua anima: non travisatela.”

Da quel giorno, Gilda imparò a scegliere le parole con più attenzione. E quando sentiva un disagio vero dentro, usava lamentare con rispetto. Per il resto, preferiva chiedere, desiderare, proporre.

Così, nel bosco tornò l’armonia, e le parole risuonarono chiare come i canti degli uccellini al levar del sole.



 ***

Essere più realista del re

L’espressione nasce dal francese plus royaliste que le roi, usata nell’Ottocento per indicare chi difendeva la monarchia con più fervore del sovrano stesso. In origine si parlava di lealisti fedeli al re durante rivoluzioni e crisi, come gli “American Loyalists” o i “lealistas” spagnoli. Con il trascorrere del tempo, il termine realista ha preso il sopravvento su lealista, complice l’influenza francese e la sua efficacia nel descrivere un atteggiamento eccessivamente zelante. Oggi, chi è “più realista del re” non si limita a sostenere una causa, la impone con rigore superiore a chi l’ha creata. Un modo sottile per dire: stai esagerando.













Nessun commento: