sabato 26 luglio 2025

Dalla schiavitù alla cordialità: gli slavismi nascosti nel nostro lessico

 

Nell’immenso calderone della nostra bella e musicale lingua ci sono “ingredienti” sorprendenti: termini che hanno attraversato confini, secoli e rivoluzioni semantiche per arrivare fino a noi. Tra questi, spiccano alcuni vocaboli slavi che, silenziosi ma tenaci, si sono ritagliati un posto nel lessico italiano. Non sono moltissimi, ma quelli entrati nel nostro vocabolario hanno spesso storie affascinanti che vale la pena raccontare. E ce n’è uno, in particolare, che nasconde un’inaspettata metamorfosi: schiavo.

Sì, avete letto bene. Il lessema proviene dal latino medievale sclavus, che designava gli abitanti dell’Europa orientale, in particolare gli Slavi. Nei secoli bui del Medioevo, molti di loro vennero ridotti in servitù da popolazioni occidentali, e così il termine passò dal significare “persona appartenente al popolo slavo” a indicare genericamente chi era in condizione di schiavitù. Il cambio di significato fu talmente profondo da oscurarne le radici etniche.

Ora, ecco il colpo di scena: da schiavo, attraverso le forme di saluto servile come schiavo vostro o sono vostro schiavo, nasce nientemeno che… ciao. Il nostro più iconico saluto informale, usato dappertutto da Trieste a Tokyo, è un piccolo gioiello di evoluzione linguistica. In origine, nei territori della Serenissima e in particolare a Venezia, era comune dire “s-ciavo vostro” in segno di rispetto o deferenza. Con il trascorrere del tempo questa formula si è contratta in ciao, perdendo ogni connotazione servile e trasformandosi nel saluto universale che oggi conosciamo: breve, amichevole, caloroso.

Oltre a schiavo, altri slavismi hanno trovato “casa” nel nostro dizionario. Alcuni arrivano dalla cucina, come paprika e vodka. Il primo termine è una spezia dalle mille sfumature, con origini ungheresi ma presente anche nei Balcani, diventata familiare nelle cucine italiane più audaci. Il secondo, inutile dirlo, ha conquistato bar e "cocktail" d'autore, importando un pezzo di Russia nei nostri aperitivi.

Ma non finisce qui. Anche l’ambito politico e storico ha offerto termini dal “sapore” slavo: soviet, cosacco, gulag. Parole intrise di ideologie, conflitti e memorie, che oggi usiamo talvolta anche metaforicamente: soviet per indicare rigide strutture burocratiche, gulag come emblema di repressione, cosacco per evocare forza e disciplina.

Infine, ci sono i prestiti culturali: babushka, affettuoso e pittoresco, che ci regala l’immagine della nonna russa col fazzoletto vista, spesso, nei film; steppe, che richiamano spazi immensi, gelidi, inesplorati. Tutte queste parole sono arrivate a noi attraverso romanzi, film e racconti, sedimentandosi nel linguaggio e nell’immaginario.

Per concludere, anche se gli slavismi non occupano un capitolo sterminato del dizionario italiano hanno lasciato tracce significative. Alcuni sono visibili, altri nascosti come radici sotto terra, ma tutti testimoniano l’incredibile viaggio delle parole e l’intreccio di culture che ci rende linguisticamente vivi.

E la prossima volta che direte ciao, fermatevi un secondo: state pronunciando il ricordo di un lungo percorso che parte dai confini d’Europa e arriva dritto al cuore del nostro idioma.

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“A norma di legge”


L’
espressione a norma di legge sembra uscita da una tipografia ministeriale degli anni ’70: rigida, inamidata, e convinta di essere il baluardo della precisione. In realtà, è un piccolo paradosso linguistico. La parola norma è già, per definizione, una disposizione giuridica: può essere una legge, un regolamento, una direttiva, persino un comma capriccioso. Dire a norma di legge equivale a scrivere a legge di legge, come se si dicesse secondo la pizza della pizza in un menù napoletano.

Questa tautologia - e le sue varianti: a norma di regolamento, a norma di normativa, a norma di disposizione - pullula nei documenti amministrativi, dove sembra che il verbo scrivere venga confuso con il verbo moltiplicare. Non conta cosa si dice, ma quante volte lo si può ripetere travestendolo da tecnicismo.

Ecco alcuni esempi che il buon senso grammaticale dovrebbe scoraggiare, ma che l’abitudine ha reso quasi invisibili:

  • Il contratto è redatto a norma di normativa europea. Correttamente: Il contratto è redatto in conformità della normativa europea.

    L’accesso ai dati avviene a norma di disposizioni interne. Correttamente: L’accesso ai dati avviene secondo le disposizioni interne.

    Il presente provvedimento è adottato a norma di regolamento attuativo. Correttamente: Il presente provvedimento è adottato conformemente al regolamento attuativo.

Se ne potrebbe trarre un assioma tragicomico: “Più un testo è burocratico, più le parole si autocitano”.

Ma l’ironia si nasconde anche nei tentativi di alleggerire il burocratese. Qualche solerte funzionario, impavido, scrive secondo quanto previsto a norma di legge, un “incesto lessicale” che assomiglia a un pendolo: va avanti e indietro fra sinonimi, ma non arriva mai al punto.

La verità è che esistono alternative molto più pulite ed efficaci:

  • Secondo la legge

    In conformità della normativa attuale

    Come stabilito dal regolamento

    Ai sensi dell’articolo X (quando si vuole essere tecnici, ma precisi)

Queste formule rispettano la logica della lingua, risparmiano inchiostro (virtuale) e, soprattutto, non fanno inciampare il lettore.

Chiudiamo queste noterelle con una riflessione: il linguaggio giuridico non deve necessariamente essere oscuro. Può essere rigoroso senza diventare ridondante, elegante senza perdere sostanza. Perché la chiarezza è una forma di rispetto, tanto verso la norma quanto verso chi la legge.







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