Nel dinamico universo dell’italico idioma, molte parole sembrano equivalersi ma celano sfumature preziose che arricchiscono il pensiero e affinano l’espressione. I verbi “riparare” e “aggiustare”, di uso quotidiano e apparentemente intercambiabili, racchiudono differenze che vanno oltre la semplice semantica. Comprendere la loro origine, il loro uso proprio e il “valore” che ciascuno porta con sé ci aiuta a comunicare con maggiore precisione e sensibilità. Vediamo.
“Riparare” deriva dal latino reparare, composto da re- (di nuovo) e parare (preparare, approntare). Il significato originale è dunque “preparare nuovamente”, “rimettere in sesto”. Storicamente il sintagma si è legato al concetto di rimediare a un danno, restituire la funzionalità a qualcosa che ha subito un guasto o un malfunzionamento.
“Aggiustare”, invece, ha radici latine medievali ed è formato da ad- (verso) e justare, cioè “rendere giusto”, “portare alla giustezza”. L’idea non è solo quella di ripristinare, ma anche di armonizzare, rendere adeguato, trovare una soluzione. È un verbo più elastico, che può riferirsi sia alla riparazione materiale sia a un compromesso morale o emotivo.
Nell’uso corrente quotidiano, “riparare” è spesso associato a contesti tecnici o meccanici. Si ripara un televisore, una gomma bucata, una crepa nel muro. L’accezione richiama, dunque, l’intervento di un esperto, con strumenti e competenze specifiche. “Riparare” è preciso, chirurgico, legato all’efficienza.
“Aggiustare”, al contrario, è un verbo più colloquiale e versatile. Si aggiusta un orlo, si aggiusta il volume della radio, si aggiustano le cose in famiglia dopo una lite. In alcune zone d’Italia, “aggiustare” acquista anche il significato di “adattare”, come nel caso di “aggiustare il tiro” (modificare la direzione), o “aggiustare i conti” (riequilibrare una situazione).
Alcuni esempi faranno maggiore chiarezza:
“Ho riparato il frullatore: era bruciato il motore.” ( L’intervento tecnico riporta il dispositivo alla funzionalità originaria);
“Ho aggiustato il frullatore: si era staccata la manopola.” (Un intervento più leggero, una sistemazione materiale);
“Abbiamo aggiustato le divergenze con un accordo.” (Uso figurato, non riferito a un oggetto, ma a una situazione);
“Il sarto ha riparato lo strappo nel vestito.” (Intervento preciso su un danno);
“Il sarto ha aggiustato la lunghezza dei pantaloni.” (Adattamento personalizzato).
Pur essendo sintagmi verbali spesso intercambiabili, “riparare” si afferma per la sua componente di ristabilimento, mentre “aggiustare” si distingue per la sua versatilità e la sua capacità di attraversare il concreto e l’astratto.
A questo punto, un piccolo aneddoto che “illumina” il valore simbolico di questi due verbi. In Giappone esiste un’antica arte chiamata kintsugi, che consiste nel riparare oggetti di ceramica, rotti, riempiendo le crepe con oro liquido. L’oggetto non torna, però, com’era prima: diventa più bello, perché le sue crepe sono rese visibili e impreziosite. È una forma di “riparazione” che diventa “aggiustamento” poetico, un modo per dire che ciò che è stato rotto può essere non solo sistemato, ma anche valorizzato. Questo aneddoto ci ricorda che “riparare” può essere un atto tecnico, ma anche profondamente umano; e “aggiustare” può essere un gesto di cura, di accettazione, di bellezza.
A conclusione di queste noterelle, scegliere tra i due sintagmi verbali non è solo una questione di stile, ma di intenzione: vuoi correggere un guasto o vuoi trovare una soluzione? La lingua italiana, con la sua finezza, ci offre più di una via, basta prendere quella giusta.
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Sì, ci ripetiamo. Gli operatori dell’informazione, facendo affidamento sulla loro “infallibilità orto-sintattico-grammaticale”, non rileggono ciò che scrivono.
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