lunedì 7 luglio 2025

L’anima tragica di un vocabolo

 

Dopo il disgraziato (del 5 scorso), due parole sullo sciagurato.

Ogni lingua ha le sue condanne. Alcune gridano, altre sussurrano, altre ancora - come sciagurato - sentenziano con voce grave, solenne, irrimediabile. Non è un insulto da bar dello sport: è un verdetto da tragedia, un giudizio scolpito con la lama delle etimologie. Chi lo pronuncia alza il dito, ma anche il sipario su una parola che ha il tono delle maledizioni bibliche e la precisione di un monito secolare. Eppure, dietro la sua gravità, sciagurato è anche uno specchio affilato: dentro ci vediamo le nostre colpe, le nostre cadute, e forse persino una forma di redenzione.

C’è una parola che non si limita a nominare la sventura: la incide. Sciagurato non si grida, si pronuncia con la solennità di una condanna. È una parola che attraversa la lingua come un giudizio antico, affilata e irrevocabile. Non è solo sinonimo di sfortuna: è il sigillo di chi ha osato troppo o troppo poco, di chi ha tradito aspettative umane o divine.

La sua etimologica racconta già molto: dal latino ex-auguratus, "fuori dai buoni auspici" e quindi fuori dal favore del destino, slegato dalla benevolenza degli dèi. La sciagura non è solo un evento doloroso: è un presagio avverato. E lo sciagurato, colui che porta con sé il marchio della rovina.

Nelle sue prime attestazioni - dalla letteratura religiosa al teatro tragico - sciagurato non è mai neutro. A differenza di disgraziato, che può ancora implorare pietà o suscitare compassione, sciagurato condanna. È parola che, pur avendo una radice fatalistica, si carica ben presto di colpa morale. Non si è sciagurati per caso: si diventa tali, per scelta, per azione, per silenzio colpevole.

Nei Promessi Sposi di Manzoni il lemma risuona come un anatema: “sciagurato costui!”, non un semplice sventurato, ma un peccatore, un dannato, un uomo oltre la redenzione. E anche successivamente sciagurato rimane saldo tra le parole della condanna nobile, del rimprovero inciso nella carne stessa del linguaggio.

Eppure oggi, sulla bocca di qualcuno che sappia ancora apprezzarne il peso, sciagurato può tornare a vibrare come un tempo. Usato con ironia, con affetto, persino con scherzosa teatralità, si può trasformare in quel tipo di rimprovero che sorride sotto i baffi: una parola antica che ci ricorda come le offese più eleganti sono/siano spesso le più affilate.

Così, sciagurato continua a vivere. Parola che giudica, parola che riflette, parola che - più di tante altre - mostra come anche il vocabolario ha/abbia una sua coscienza. E nel pronunciarla, forse, non condanniamo solo l’altro, ma ci chiediamo se, in fondo, non lo siamo stati tutti, almeno una volta, nel corso della nostra vita.













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“Poco” è molto: viaggio intorno a una parola minuta e sapiente - Minimalismo linguistico e profondità del pensiero

Nel gran vocabolario del nostro idioma, ci sono parole che fanno rumore e parole che sussurrano. “Poco” appartiene a quest’ultima specie: umile in apparenza, ma capace di scolpire sfumature, misurare e, talvolta, sorprendere. Le noterelle che seguono sono un omaggio alla sua versatilità. Perché anche le parole piccole possono raccontare molto.

Cominciamo col dire che "poco" è come certi attori di teatro d’altri tempi: sa passare dalla tragedia alla commedia con una sola inflessione. Quando serve misura, si fa quantità; quando occorre tempo, si fa istante. È la risposta all’eccesso, alla sovrabbondanza, alla teatralità del "troppo".

“Ho dormito poco.” Qui sfiora la cronaca. Indica un tempo breve, un sonno strappato agli impegni o alle inquietudini. È avverbio temporale: si infila tra soggetto e verbo come un sospiro breve.

“Ne ho mangiato poco.” Qui il ruolo cambia: adesso misura la quantità. Niente più tempo, ma materia. È avverbio di quantità, e si allinea con i modi dell’appetito.

“C’è poco pane”; “Un poco di vino.” In questi casi “poco” si piega alle regole dell’aggettivo e del sostantivo. Nella prima frase quantifica il pane; nella seconda diventa lui stesso ciò che si misura. È il “po’” in giacca e cravatta.

“Poco ma buono.” Qui si diletta con i proverbi, diventa categoria esistenziale. Non è più solo misura, ma visione del mondo.

E poi ci sono gli usi elusivi. “Sei arrivato poco fa”: un tempo ormai quasi perduto, ma che insiste nel dire la vicinanza. “Tra poco vado”: un futuro imminente, trattenuto per un momento.

Infine, un omaggio al suo potere stilistico: "poco" è sobrio, ma sa tagliare. Può sminuire (“poco interessante”), può consolare (“poco male”), può accusare (“poco coerente”). È l'avverbio che sussurra più di quanto urli.

A conclusione di queste noterelle. Se qualcuno dice che ‘poco’ non è abbastanza, rispondete pure che nel linguaggio, come nella vita, conta la qualità, non l’eccesso.


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