mercoledì 9 luglio 2025

Dalle tenebre alla supplica: l’epopea nascosta del verbo “scongiurare”

 

Dal latino alla disperazione teatrale, dal sacro al quotidiano: un viaggio nelle profondità di un verbo che supplica, invoca e, a volte, salva.

Il verbo scongiurare ha una storia affascinante, che intreccia magia, religione e linguaggio quotidiano. Oggi lo usiamo per dire di “evitare un pericolo” o “pregare con insistenza”, ma queste due accezioni, apparentemente distanti, affondano le radici in un unico gesto: quello di invocare forze superiori per allontanare il male.

Il sintagma deriva dal latino sconjurare, composto da s- (prefisso con valore separativo o intensivo) e conjurare, cioè “giurare insieme”, “invocare con un giuramento”. In origine, conjurare indicava un atto solenne, spesso collettivo, in cui si chiamavano in causa potenze divine o spirituali per ottenere protezione o per vincolare qualcuno a un patto.

Nel Medioevo, scongiurare acquista un senso tecnico legato all’esorcismo: era l’atto rituale con cui si costringeva un demone ad abbandonare una persona o un luogo. Si trattava di una formula magica o religiosa, pronunciata con solennità, per “scacciare” il male. Questo uso è rimasto nella lingua letteraria e religiosa: scongiurare Satana, scongiurare gli spiriti maligni.

Con il trascorrere del tempo, però, il gesto dello scongiurare ha perso il suo alone magico per diventare un atto umano, disperato, ma profondamente terreno: quello di chi supplica, implora, prega con fervore. Dire “ti scongiuro” è un’eredità di quel linguaggio rituale, ma oggi è un’espressione di intensa emotività, non più di potere spirituale. È come se il verbo avesse traslato il suo oggetto: non più il demone da cacciare, ma l’interlocutore da convincere.

Gil divino Dante, nel Purgatorio, ne coglieva la doppia forza: L’una mi fa tacer, l’altra scongiura / ch’io dica. Il verbo è lì, incastonato tra silenzio e necessità, come se fosse la voce stessa della coscienza o della pietà che preme per essere ascoltata.

Allo stesso modo Boccaccio, nel Decameron, dipinge un gesto di riconciliazione che passa proprio attraverso la preghiera intensa: Tanto disse e tanto pregò e scongiurò, che ella, vinta, con lui si paceficò. Qui scongiurare si affianca a pregare, ma ne accentua la drammaticità.

Anche nel linguaggio teatrale il verbo trova piena voce. Plauto, nei suoi versi, fa dire al protagonista: Vi scongiuro, vi prego, vi supplico, aiutatemi voi! Tre verbi che si rafforzano a vicenda, ma è proprio scongiurare ad aprire la supplica, come se fosse il più urgente, il più disperato.

Questa traiettoria si completa nel linguaggio comune con usi figurati ormai cristallizzati: scongiurare un pericolo, una disgrazia, una guerra. Qui il verbo conserva l’idea originaria di “allontanare il male”, ma lo fa in chiave laica, razionale. Non si tratta più di un rito, ma di un’azione concreta o simbolica per evitare un evento negativo.

Curiosamente, l’intensità del verbo sopravvive anche nell'uso moderno. Nietzsche, in Così parlò Zarathustra, scrive con solennità: Ve ne scongiuro, fratelli miei, rimanete fedeli alla Terra.... È un’invocazione quasi sacra, anche se priva di religione: la fede è trasferita nel mondo, e lo scongiurare diventa un puro atto filosofico.

In conclusione, il passaggio semantico è avvenuto per slittamento del contesto: da un ambito sacro e rituale a uno profano e psicologico. Ma il cuore del sintagma verbale è rimasto immutato: scongiurare è sempre un atto di urgenza, di bisogno, di difesa. Che si tratti di spiriti, disgrazie o cuori induriti, chi scongiura lo fa perché non ha altra arma all’infuori della parola. In ogni scongiuro, insomma, resta l’eco di un tempo in cui le parole servivano a salvare il mondo, e forse lo fanno ancora, quando sono dette con verità.


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