Il cacòmetro (probabilmente poche persone lo hanno sentito nominare) è uno di quegli “oggetti linguistici” curiosi, rari e affascinanti, che sembrano provenire da un mondo parallelo dove la poesia si misura con strumenti da laboratorio e il brutto diventa unità di analisi. Il suo nome proviene dalla fusione del prefisso greco caco-, che significa "cattivo", "brutto", con -metro, dal greco metron, "misura". Letteralmente, dunque, un cacometro è un "misuratore del brutto" (o del “cattivo”), ma l’ambito d’uso principale non è estetico quanto tecnico.
Storicamente attestato in alcuni dizionari specialistici, come il Tesoro della lingua spagnola dell'Accademia Reale Spagnola (cacómetro), il lemma viene adoperato in senso figurato per designare uno strumento - reale o immaginario - che serve a rilevare l’irregolarità metrica in un verso. L’uso è principalmente critico o didattico: un modo semiserio, ma efficace, per segnalare il caso in cui un testo in versi devia da uno schema metricamente corretto, come l’endecasillabo o il settenario. Non si tratta, pertanto, di ‘giudicare’ la bellezza o la bruttezza di un componimento, ma la sua dissonanza formale. Il cacometro “suona” – metaforicamente, quindi - ogni volta che un verso inciampa nel ritmo o si allunga e si accorcia in modo non previsto.
In ambito poetico e letterario, il lessema in oggetto può comparire nelle analisi metriche più severe, come segnale ironico di fallimento ritmico. Non è raro trovarlo menzionato in articoli umoristici, racconti o testi accademici in cui la metrica viene trattata come materia viva e pulsante, suscettibile di disfunzioni che devono essere corrette. È anche uno strumento immaginario usato con spirito ludico: un cacometro che vibra nelle mani di un critico durante una lettura pubblica, o che segnala un errore quando uno studente inciampa in una rima forzata.
Al di fuori della poesia, il cacometro può diventare un mezzo satirico utile a valutare il linguaggio sgraziato in altri contesti: discorsi pubblici, testi musicali, comunicati aziendali. Il suo potenziale ironico è vasto. Si potrebbe parlare, per esempio, di cacometria applicata alla retorica politica, quando frasi pompose e storte generano un senso di disagio sonoro. In questo caso, il cacometro diventa un “operatore di igiene linguistica”, segnalando dove il linguaggio perde equilibrio e grazia.
Va detto, per onestà, che il termine non è a lemma nei vocabolari più comuni della lingua italiana, come Treccani o Zingarelli. Tuttavia, si trova in contesti linguistici spagnoli ed è stato occasionalmente impiegato anche in italiano in chiave scherzosa o specialistica. Il suo fascino, pertanto, risiede proprio nella sua rarità: è una parola da collezionisti, da cultori della metrica, da giocatori di parole.
Pensarlo come uno strumento reale ci aiuta a riflettere su quanto la lingua, e in particolare la poesia, abbia bisogno non solo di ispirazione, ma anche di misura. Il cacometro non è il nemico della libertà poetica, ma piuttosto il vigile segreto dell’armonia. Quando il suo ago si muove, non denuncia, ma avverte, segnala che qualcosa nella musica del linguaggio ha smesso di suonare correttamente.

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