C’è un vocabolo che, come certi volti segnati dalla vita, ha più storie da raccontare di quante gliene si leggano addosso. “Disgraziato” è uno di quei termini che sembrano innocui, quasi patetici, e invece nasconde un’oscillazione semantica che farebbe girare la testa anche al più esperto trapezista linguistico. Dal poveraccio al farabutto, dalla sfortuna alla colpa, questa parola ha fatto un viaggio che merita di essere raccontato. Non tanto per amore della lingua quanto per capire come giudichiamo, e chi.
Il sintagma disgraziato, dunque, affonda le sue radici nel latino tardo, come derivato diretto di disgrazia, a sua volta composto dal prefisso privativo dis- e da grazia (dal latino gratia), che indica favore, benevolenza, o dono divino. Dis-grazia, dunque, è letteralmente la perdita della grazia, sia essa divina o sociale. Il disgraziato è, in origine, colui che ha perso il favore della sorte o degli dèi, e per questo è colpito da sventure, sciagure, o semplicemente da una vita infelice.
Nel suo primo uso, attestato già nei testi italiani del Trecento, disgraziato è sinonimo di sfortunato, sventurato, miserabile e simili. È la figura del povero diavolo, del derelitto, del malcapitato che suscita compassione. In questo significato il termine conserva un tono pietoso o, al massimo, ironico: “Povero disgraziato, non gliene va bene una”.
Ma la lingua, si sa, è creatura viva e mutabile. E così, con il trascorrere del tempo, disgraziato è/ha scivolato semanticamente verso un’accezione più dura, più morale che fatale. Già nei secoli passati, l’interiezione “disgraziato!” era adoperata per rimproverare qualcuno che stava per compiere un’azione avventata, pericolosa o moralmente discutibile: “Che fai, disgraziato? Vuoi rovinarti?”. Qui il termine non indica più (solo) chi subisce la disgrazia, ma chi la provoca, chi - come si dice - se la cerca.
Questo slittamento si è via via accentuato nel parlato popolare e nei dialetti, dove disgraziato ha assunto connotazioni sempre più negative, fino a diventare sinonimo di mascalzone, delinquente, farabutto e simili. In molte regioni italiane, dire “quel disgraziato” equivale a dire “quel malvivente”, con un giudizio morale netto e senza appello.
Il passaggio semantico è sottile ma potente: dalla sfortuna subita alla colpa commessa. Il disgraziato non è più solo vittima, ma anche agente del male. È un esempio di come la lingua possa riflettere un cambiamento di prospettiva culturale: da una visione fatalistica della vita a una più etica e giudicante.
Per concludere queste noterelle, disgraziato è un termine che ha attraversato i secoli e le coscienze, trasformandosi da epiteto compassionevole a insulto morale. E in questo viaggio semantico ha raccolto tutte le sfumature dell’umano: la pietà, il rimprovero, il disprezzo.
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Chi nasce disgraziato, nemmeno il sole lo asciuga.
Al disgraziato non basta la sfortuna: ci si mettono pure gli amici!
Chi è nato disgraziato, anche le pecore lo mordono.
Chi è disgraziato non vada al mercato.
Giustizia e salute: disgraziato chi ne va in cerca.
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La lingua “biforcuta” della stampa
Incidenti lavoro, morto l’operaio asfissiato da esalazioni nel vicentino. Grave stagista in Friuli
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Correttamente: Vicentino (V maiuscola in quanto indica un'area geografica).
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Esplosione Roma, la vigilessa: “Il fumo ci ha dato il tempo di salvare i bimbi del centro estivo”
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Ancora vigilessa! I bimbi di III elementare sanno che la forma corretta è la vigile. I sostantivi e gli aggettivi in “-e” nel femminile restano invariati, cambia solo l’articolo: il giudice/la giudice; il presidente/la presidente; il vigile/la vigile. Quando leggeremo sulla stampa la custodessa della scuola?

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