L’abitante di una città si chiama cittadino, quello di un paese paesano, quello di un borgo borgataro (come nelle borgate di Roma); ma colui che abita in un villaggio come si chiama? Ci sembra non ci sia, nel nostro idioma, un termine che sia adatto allo scopo. Chi scrive propone di colmare questo vuoto lessicale con “villaggiota”, sulla scia di cipriota, rodiota e cairota. “-ota” è, infatti, un suffisso derivativo di aggettivi e nomi di abitanti. “Villaggiota”, insomma, a nostro modo di vedere, rispetta perfettamente la legge che regola la formazione dei nomi che indicano l'appartenenza a una comunità.
Non potrebbe, dunque, entrare a pieno titolo nel nostro lessico? Introdurre “villaggiota” nella lingua corrente potrebbe contribuire, inoltre, a combattere certi stereotipi. Spesso si è portati a pensare che vivere in un villaggio significhi essere isolati o arretrati. Al contrario, i villaggi, soprattutto quelli turistici, sono molto spesso fucine di innovazione culturale, luoghi dove la tradizione si fonde con la modernità. I “villaggioti” possono essere custodi di antichi saperi, ma anche promotori di nuove idee, soprattutto in ambiti come l'agricoltura sostenibile, il turismo culturale e le produzioni artigianali.
La neoformazione che proponiamo, “villaggiota”, è molto più di un semplice termine e non deve scandalizzare i lessicografi, anzi questi ultimi dovrebbero accoglierla e incoraggiarne l'uso. È una dichiarazione d'intenti, un segno di riconoscimento per una parte della popolazione che spesso viene trascurata. È un modo per dimostrare che anche i villaggi, con i loro ritmi, alcune volte lenti e con le loro tradizioni, hanno un ruolo cruciale nella società moderna. È tempo, dunque, di colmare questo vuoto linguistico e dare ai “villaggioti” il posto che meritano nel nostro vocabolario e nella nostra coscienza collettiva.
(Le immagini sono riprese dalla Rete, di dominio pubblico, quindi. Se víolano i diritti d'autore scrivetemi; saranno prontamente rimosse: fauras@iol.it)
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