Dal dr Claudio Antonelli (da Montréal) riceviamo e pubblichiamo
Sfogliando il “Giornale” (15-01-2025) mi ha incuriosito questo titolo: “La denuncia dell’attivista: ‘costretta a spogliarmi e a fare gli squat’”. Ho letto l’articolo. Quindi ho verificato “Il Corriere della Sera”, constatando che il titolo della notizia era assai simile: “L'attivista fermata a Brescia: ‘Mi hanno chiesto di spogliarmi, togliermi gli slip e fare squat’”.
“To squat” può essere reso in italiano con accovacciarsi, piegarsi sulle ginocchia, sulle gambe, accosciarsi, accoccolarsi, rannicchiarsi ecc. In inglese “to do squats”, reso in anglo italiano con “fare gli squat”, è il fare flessioni, piegamenti sulle gambe; vi è l’idea di un movimento ripetuto. A questo punto ci si potrebbe chiedere: è meglio dire “fare squat” o invece “fare gli squat”? Una cosa è certa: squat fa parte ormai dell’italiano dei nostri giornalisti. Ed è il caso di dire che squat è uno squatter (= occupante abusivo) della nostra lingua. Anche l’anglicismo “push up” (plurale “push ups”), che sta per flessioni sulle braccia, è stato accolto con spirito sportivo dalle autorità e dal popolo italiano sempre disposti a flettersi nei confronti dell’inglese. Tutti nella penisola celebrano le virtù della varietà e della diversità, che consistono paradossalmente nel fare come tutti gli altri: seguire cioè le mode e ancor di più gli andazzi, rinnegando i valori tradizionali.
Ammetterò che “fare gli squat” ha se non altro il pregio dell’incisività. Mentre “fare flessioni con le gambe”, o “accovacciarsi e rialzarsi”, o “fare piegamenti sulle ginocchia” allungherebbe troppo il titolo di un articolo. Da chiarire subito che l’intento della poliziotta che avrebbe imposto questi piegamenti alla giovane attivista dell’Extinction Rebellion era di accertarsi che questa non tenesse celato qualcosa nelle parti intime.
Se accettiamo la logica di questi giornalisti e titolisti favorevoli all’itanglese (itangliano, italianese, italiese, itanglish), occorrerebbe che quando redigiamo un testo noi consultassimo ogni volta anche un dizionario d’inglese per sostituire le parole e le espressioni italiane che non ci soddisfano. Ed è quanto molti fanno in Italia, dove ci si serve dell’inglese come di una lingua alternativa da cui attingere termini sostitutivi delle parole italiane. Un tal uso utilitario della lingua inglese, che ci fornisce il termine o l’espressione a noi gradita, equivale però al voler instaurare un bilinguismo semiufficiale.
È innegabile che ci siano parole inglesi che viene spontaneo usare. Prendiamo blackout, che sta per guasto elettrico generalizzato, o anche per perdita di conoscenza o coscienza. E come blackout vi sono altri termini, soprattutto dell’informatica e della realtà della Rete, ma anche in altri campi, che sono difficilmente traducibili per mancanza di neologismi italiani.
La creazione di neologismi dovrebbe essere il compito di un’autorità linguistica capace d’influire sull’uso dell’italiano e della sua correttezza e ricchezza nella penisola. Ma capirete che il sistema Italia tutto può e di tutto ha voglia fuorché d’imporre una certa disciplina agli italiani e men che meno in relazione all’uso della lingua nazionale. All’Accademia della Crusca è stato rivolto il quesito: come rendere in italiano il termine inglese “to scan”? La risposta della Crusca: "massima libertà di scelta circa l'uso di scandire, scannare, scannerizzare, e anche eseguire una scansione e scansionare". Quelli della Crusca ci dicono in sostanza: fate come volete. Io vorrei invece che questa istituzione avesse un ruolo meno passivo e contemplativo. Mi piacerebbe che svolgesse un ruolo "alla francese", insomma.
Claudio Antonelli
(Le immagini sono riprese dalla Rete, di dominio pubblico, quindi. Se víolano i diritti d'autore scrivetemi; saranno prontamente rimosse: fauras@iol.it)
4 commenti:
Al signor Antonelli (parente del linguista?) che vive all'estero e basa le sue considerazioni sulla salute della lingua italiana esclusivamente sulla lettura dei giornali, quindi da osservatore esterno, consigliamo di leggere le considerazioni della vicepresidente dell'Accademia della Crusca, Rita Librandi, sul ruolo dell'istituzione e sulle aspettative distorte che ne hanno i male informati: https://accademiadellacrusca.it/it/contenuti/molte-parole-nascono-ma-poche-crescono-chi-lo-decide/37694
Pubblico il suo commento, cortese sig. Anonimo, anche se non ha avuto il "coraggio" di firmarsi.
Invece di var valere le sue idee sul tema da me trattato, lei ha voluto esprime giudizi su chi non conosce. La ringrazio comunque di aver resistito alla tentazione, che da buon italiano deve certamente aver avuto, di apostrofarmi così: “Ma lei chi è? Ma come si permette di scrivere sugli anglicismi?”
Lei ha scritto: “(lei) basa le sue considerazioni sulla salute della lingua italiana esclusivamente sulla lettura dei giornali”. È veramente, la sua, una strana affermazione che non tiene conto né della Tv satellitare, né di Internet, né della radio.
Rifuggendo dallo spirito polemico, le dirò con gran semplicità che io ho continui contatti con l’Italia dove effettuo lunghi soggiorni. Pur vivendo in Canada, ho potuto contare su una casa di vacanza a Ladispoli, e in tempi diversi anche in due località del Nord Italia. Ho trascorso in Italia un intero anno sabbatico.
La televisione italiana e i suoi innumerevoli programmi, recepibili tutti senza distinzione in Canada, permettono a chi vuole di vedere e di ascoltare anche 24 ore al giorno gli italiani parlare, discutere, polemizzare. Negli sceneggiati, oggi chiamati fiction, se ambientati in un’Italia contemporanea i personaggi parlano la lingua italiana attuale (non mi riferisco quindi al “Conte di Montecristo” che va in onda in questi giorni). Ogni giorno la televisione italiana ci permette di ascoltare discussioni sui soggetti più vari. Non c’è che dire: il parlare per parlare trionfa sui palcoscenici televisivi. I TGR regionali ci permettono inoltre di apprezzare le tonalità locali del parlare italiano.
Si potrebbe persino fare studi comparativi, studi comunque non facili, su certe particolarità del parlare di Bruno Vespa, di Alessandro Orsini, di Alessandro Di Battista, di Margherita Berlinguer, di Dario Fabbri, di Lucio Caracciolo, di Nicola Porro, di Mauro Corona, di Mario Giordano, di Lilli Gruber… Non mi vergogno di dire che seguo quotidianamente, insieme con mia moglie, la serie televisiva “Un posto al sole”, soprattutto per il piacere di ascoltare l’italiano d’impronta napoletana dei suoi personaggi. Io ho vissuto gli anni giovanili a Napoli, dove mi laureai in giurisprudenza.
Oso infine dire che così come la nostra puzza noi non la sentiamo, alcuni invece la sentono e reagiscono. Mi riferisco al fenomeno degli anglicismi, di cui, secondo me, gli stessi linguisti italiani, stando almeno alla maggioranza delle loro analisi, non sembrano misurare la portata. E infatti nessuno di loro, a quanto mi risulta, mai denuncia né certi balordi anglicismi di uso quotidiano: killer, in tilt, flop, ecc. né i termini inglesi da noi adottati che sono sbagliati, tra cui writer, rider ed altri. Sarebbe elementare elencare gli anglicismi di maggior uso, e spendere qualche parola sugli abusi meno accettabili: quelli fatti dal governo attraverso Jobs act, Question time, Election day, ecc. Ma non sembra che questo interessi gli specialisti, che invece s’innalzano sul problema dedicando pagine e pagine allo sfoggio di conoscenze e a relativizzare il fenomeno italiano che non ha equivalenti altrove, data la partecipazione delle stesse nostre élite allo sfaldamento della lingua. In un mio recente libro sulla lingua italiana, dal titolo “L’anglo-latinorum degli italoti – la disgregazione di una lingua e di un’identità” (Edarc, 2024), mi sono preso la libertà di scrivere: “Rivolgo un’esortazione agli addetti al lavoro linguistico, i quali si crogiolano in analisi dense di ‘diacronico’ e ‘sincronico’: che facciano uno sforzo e si sincronizzino con gli anglicismi plebei, del tipo flop, in tilt, pressing e gli altri termini killer della lingua dell’ex Bel Paese, divenuto linguisticamente una ‘Banana Republic’”.
Il commento precedente è la risposta del dr Antonelli all'anonimo (coraggioso)
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