martedì 31 dicembre 2024

L'ultimo giorno dell'anno

 


E
ra il 31 dicembre, e in una pittoresca e ridente cittadina, Silvestrina, tutto era pronto per celebrare la fine dell'anno. Le strade erano piene di luminarie scintillanti e decorate con ghirlande colorate che ondeggiavano lievemente nel vento. Nonostante il freddo invernale, l'atmosfera era calda, accogliente e coinvolgente. Il profumo di castagne arrostite e dei dolci tipici delle feste permeava l'aria, mentre i bambini giocavano rincorrendosi tra le bancherelle dei mercatini di Natale.

S
usanna, una giovane donna di trent'anni, stava rientrando a casa dopo una lunga giornata di lavoro. Lavorava come infermiera nel piccolo ospedale della cittadina e il suo turno era stato particolarmente impegnativo. Nonostante la stanchezza, un sorriso si delineava sul suo volto. La giovane amava il suo lavoro e sapeva di fare la differenza nella vita delle persone. Ogni volta che aiutava un paziente a stare meglio, sentiva una gratificazione che la ripagava della fatica.

Q
uella sera decise di prendersi un momento per sé. Si fermò in una caffetteria nella piazza principale, un locale accogliente con un profumo invitante di caffè appena fatto e biscotti appena sfornati. Ordinò una tazza di cioccolato caldo con panna e si sedette vicino alla porta, osservando la frenesia della città attraverso i vetri appannati. Mentre sorseggiava la bevanda, il suo sguardo si posò su un uomo anziano seduto al tavolo accanto: sembrava perso nei suoi pensieri, lo sguardo fisso verso la piazza illuminata.

N
otando la solitudine dell'uomo, Susanna decise di avvicinarsi per scambiare due chiacchiere. Si presentò con un sorriso gentile e scoprì che l’anziano si chiamava Silvestro. L’uomo aveva perso sua moglie quell'anno e stava vivendo il primo Capodanno da solo dopo oltre trent’anni di matrimonio. Le loro chiacchiere si trasformarono rapidamente in una conversazione profonda, ricca di ricordi e speranze per il futuro. Silvestro raccontò a Susanna storie della sua gioventù, di come aveva conosciuto sua moglie a una festa danzante e delle avventure vissute assieme.

C
on l’avvicinarsi della mezzanotte, la caffetteria cominciò a riempirsi di persone che aspettavano il nuovo anno. Susanna invitò Silvestro a unirsi a lei per i festeggiamenti nella piazza principale e per brindare all’anno nuovo. Nonostante la reticenza iniziale, l’anziano accettò con gratitudine. Mentre camminavano insieme tra le strade affollate, Susanna sentiva che stava nascendo una nuova amicizia. Silvestro, ormai più sereno, mostrava un sorriso sincero.

Q
uando l'orologio della piazza scandì la mezzanotte, esplosero fuochi d'artificio e tutti si abbracciarono e si scambiarono auguri di buon anno. Susanna e Silvestro, tra la folla, si unirono a quella gioia collettiva. In quel momento l’uomo non si sentì più solo e Susanna capì che quel gesto semplice aveva reso la serata veramente speciale.

Q
uella notte segnò l'inizio di una nuova tradizione per Susanna e Silvestro. Ogni anno, il 31 dicembre, si ritrovavano nella stessa caffetteria per condividere storie e riflessioni sull'anno appena trascorso, ricordando l'importanza delle piccole azioni e della gentilezza che possono fare una grande differenza nella vita di ciascuno di noi.



(Le immagini sono riprese dalla Rete, di dominio pubblico, quindi. Se víolano i diritti d'autore scrivetemi; saranno prontamente rimosse: fauras@iol.it)






lunedì 30 dicembre 2024

Sollevare...



C'
era una volta, nel vastissimo regno di Lessicopoli, un verbo noto per la sua straordinaria capacità di alzare dalla terra qualsiasi oggetto: Sollevare. Era amato e rispettato da tutti i suoi connazionali per il suo prezioso aiuto nelle attività quotidiane, come spostare pesanti massi, alzare travi durante la costruzione di edifici, o semplicemente sollevare i bambini in alto per farli ridere.

S
ollevare era molto orgoglioso, dunque, della sua abilità nell’alzare qualsivoglia oggetto. Ogni giorno era subissato di richieste da ogni angolo del regno per sollevare cose, e si sentiva molto gratificato nel rendere la vita degli abitanti più facile. Era di nobile stirpe provenendo dal latino “sublevare” (derivato di levare, col prefisso sub "sotto"); ciò lo confermava nel suo nobile compito di “rialzare”, “spostare verso l’alto”.

U
n giorno, però, uno spiacevole malinteso si diffuse nel regno. Alcuni abitanti cominciarono a usare il verbo in contesti errati. Si sentivano frasi tipo "il suo comportamento ha sollevato molte proteste" o "la notizia ha sollevato preoccupazioni". Sollevare si sentiva confuso e triste, poiché sapeva che il suo scopo era sollevare oggetti e non emozioni o reazioni.

V
edendo la confusione e la tristezza di Sollevare, il verbo Esplicare, noto per la sua capacità di chiarire qualsiasi cosa, decise di intervenire. Convocò una grande assemblea nella piazza centrale e invitò tutti gli abitanti a prendervi parte. Sollevare era presente, ansioso di ascoltare le parole del collega riguardo a questo malinteso.

E
splicare prese subito la parola: "Carissimi abitanti di Lessicopoli, il nostro amico Sollevare ha un ruolo specifico e molto importante nella nostra amata lingua. Il suo significato, derivante dal latino ‘sublevare’, è 'alzare dalla terra'. Usarlo in altri contesti crea confusione e fraintendimenti."

"Q
uando diciamo – proseguì – ‘il suo comportamento ha sollevato molte proteste', usiamo Sollevare in modo errato. In questo caso dovremo adoperare verbi che fanno alla bisogna, come 'provocare', 'causare' o 'suscitare'. Dire, per esempio, 'il suo comportamento ha provocato molte proteste' è più corretto e preciso. Mi viene da ridere, pertanto, quando leggo sulla stampa che 'il direttore è stato sollevato dall'incarico', soprattutto se è una persona sovrappeso; che fatica alzarlo dalla poltrona! Si fa meno fatica nel rimuoverlo dall'incarico. Sì, lo so, i lessicografi non concordano con me, ma la cosa non mi stupisce."

G
li abitanti di Lessicopoli ascoltarono attentamente le parole di Esplicare e capirono, così, l'importanza di usare i verbi appropriatamente. Promisero solennemente a Sollevare che avrebbero rispettato il suo vero significato e che avrebbero evitato di usarlo impropriamente, per non dire in modo errato .

Sollevare, soddisfatto, tornò a svolgere il suo compito di alzare oggetti, felice di essere adoperato nel contesto corretto. Esplicare, infine, continuò a vigilare sul regno perché ogni verbo fosse usato appropriatamente.





(Le immagini sono riprese dalla Rete, di dominio pubblico, quindi. Se víolano i diritti d'autore scrivetemi; saranno prontamente rimosse: fauras@iol.it)





Stupire, stupefare e lo... stupefacente

 


T
antissimi anni fa, vivevano in un piccolo regno, Verbopoli, due verbi cugini: Stupire e Stupefare. Sebbene spesso confusi dagli abitanti a causa della loro assonanza, i due cugini avevano storie uniche e usi nettamente distinti.

Stupire era un verbo che aveva radici nel latino stupere, che significa essere colpiti da meraviglia o stupore. Era adoperato per designare l'azione di suscitare sorpresa o meraviglia in qualcuno. Quando, nel piccolo Stato, accadeva qualcosa di straordinario si diceva che erano rimasti tutti stupiti.

Il giovane prestigiatore del palazzo reale, Incantatore, per esempio, riusciva sempre a stupire il pubblico con i suoi trucchi incredibili. Persino la velocità con cui risolveva i rompicapi lasciava gli astanti a bocca aperta. Ogni volta che qualcuno riusciva in un’impresa straordinaria il popolo diceva: "Mi ha davvero stupito!"

Stupefare, invece, pur derivando dal verbo latino stupefacere, una combinazione di "stupere" e "facere" (fare), aveva una natura un po’ diversa. Indicava l'azione di provocare uno stupore intenso, spesso accompagnato da incredulità. Era riservato per quei momenti in cui l'emozione era talmente forte da lasciare le persone senza fiato.

Quando i turisti arrivavano a Verbopoli e vedevano il paesaggio mozzafiato per la prima volta, con le sue colline verdi e i fiumi scintillanti, rimanevano stupefatti dalla sua incantevole bellezza. Le nuove invenzioni tecnologiche presentate in occasione delle fiere locali lasciavano spesso tutti i visitatori stupefatti per le loro caratteristiche avanzate e inaspettate.

In un angolo più appartato del piccolo regno c’era una parola ritenuta curiosa: Stupefacente. Questo lessema era adoperato per designare le droghe, sostanze che avevano il potere di alterare profondamente lo stato mentale degli individui. Gli abitanti del regno non capivano, però, perché queste sostanze fossero chiamate proprio così.

La spiegazione la trovò Margherita, la bibliotecaria della reggia. Con la sua voce calma e rassicurante, spiegò che queste droghe avevano il potere di "fare stupore" al cervello, proprio come il verbo "stupefare". Queste sostanze nocive erano in grado di provocare effetti straordinari e incredibili sulle percezioni e sui sensi, lasciando le persone in uno stato di meraviglia forzata. Tuttavia, Margherita, la saggia bibliotecaria, non mancava mai di avvertire gli abitanti delle gravi conseguenze che l'uso di queste pericolose sostanze poteva avere sulla salute fisica e mentale.

 Gli effetti temporanei di meraviglia e alterazione della realtà, dovuti all’assunzione degli stupefacenti, non potevano compensare i danni a lungo termine che causavano al corpo e alla mente. La bibliotecaria raccontava spesso storie di persone che, attratte dalla promessa di un'esperienza stupefacente, avevano finito per perdere molto più di quanto avessero guadagnato.

Grazie alle storie e alle spiegazioni dettagliate di Margherita, gli abitanti di Verbopoli impararono a distinguere chiaramente tra "stupire" e "stupefare", e compresero l'importanza della parola "stupefacente" nel contesto delle droghe. Da quel giorno, il regno prosperò con una conoscenza linguistica più profonda e precisa, e le parole venivano usate con maggiore consapevolezza e rispetto.






(Le immagini sono riprese dalla Rete, di dominio pubblico, quindi. Se víolano i diritti d'autore scrivetemi; saranno prontamente rimosse: fauras@iol.it)








domenica 29 dicembre 2024

Esausto ed esaustivo, che differenza v'è?

 


Nel nostro meraviglioso idioma ci sono parole che, pur derivando dalla medesima radice, hanno significati diversi e specifici. Ciò può creare confusione. Molto spesso, infatti, vengono adoperati erroneamente tanto nella lingua scritta quanto in quella parlata. Due esempi perfetti di questo fenomeno sono gli aggettivi "esausto" ed "esaustivo". Sebbene ambi i termini derivino dal verbo latino "exhaurire" (vuotare o esaurire), hanno significati ben distinti. In questo dialogo, immaginario, tra Marta e Carlo, cercheremo di mettere in luce queste differenze con esempi chiarificatori.


M
arta: Ciao amico Carlo, mi è stato fatto notare che molto spesso, quando scrivo o parlo, confondo i termini "esausto" ed "esaustivo" e li adopero indifferentemente. Tu sai se c’è una differenza e qual è, eventualmente?

C
arlo: Ciao amica bella! Sì, capita spesso di vedere questi vocaboli usati in modo sbagliato. Ambedue provengono dal verbo latino "exhaurire", che significa "vuotare" o "esaurire". Tuttavia, hanno significati distinti.

- M
olto, molto interessante. Potresti spiegarmelo meglio?

- C
erto! Cominciamo con "esausto". Questo aggettivo significa essere estremamente stanco o spossato. Per esempio, dopo una lunga giornata di lavoro fisicamente impegnativo, puoi dire "sono esausto"; oppure, dopo aver partecipato a una maratona Luigi era completamente esausto. Anche Maria si sente esausta dopo aver lavorato tutto il giorno senza un minimo di pausa. Ma si può riferire anche a cose come, per esempio, la batteria del telefono cellulare è esausta.

- “E
sausto”, quindi, riguarda principalmente la stanchezza fisica o mentale, o l’esaurimento di qualcosa, come l’esempio della batteria. E "esaustivo"?

- "E
saustivo" si riferisce, invece, a qualcosa che è dettagliato e completo. Per esempio, se leggi un verbale del condominio con tutti i dettagli puoi dire che il verbale è "esaustivo". Significa che non lascia nulla di importante non scritto. La spiegazione dell’insegnante è stata così esaustiva che non avevo più domande da porre. Oppure, il manuale delle istruzioni è esaustivo perché tratta tutte le funzionalità del dispositivo.

- C
apisco. Quindi "esaustivo" si adopera per descrivere qualcosa di approfondito e completo, mentre "esausto" si usa per definire una persona molto stanca o qualche cosa che è esaurita, cioè finita. Ma cosa li lega, dato che provengono dallo stesso verbo latino?

- I
l legame va ricercato nel significato originario del verbo "exhaurire". Vuotare o esaurire si può riferire sia a una persona sia a un argomento. Una persona può essere "esausta" quando ha esaurito le proprie energie. Un discorso o un trattato può essere "esaustivo" quando ha esaurito tutte le informazioni disponibili sull'argomento.

- O
ra è chiarissimo. Posso dire, dunque, che un libro è esaustivo se tratta tutti gli aspetti di un argomento, ma non posso dire che è esausto, giusto?

- E
sattamente! "Esausto" riguarda le persone e il loro stato di stanchezza o l’esaurimento di qualcosa, mentre "esaustivo" si riferisce a ciò che è completo e dettagliato. È importante usarli correttamente per evitare confusioni.




(Le immagini sono riprese dalla Rete, di dominio pubblico, quindi. Se víolano i diritti d'autore scrivetemi; saranno prontamente rimosse: fauras@iol.it)








sabato 28 dicembre 2024

Lo "spurghista" ovvero il manutentore dell'impianto fognario


C'
era una volta, tanti anni fa, in un regno nascosto sotto le strade delle città, un mondo segreto e affascinante, fatto di tunnel e canali. Questo era il Regno delle Fogne, un luogo dove l'acqua scorreva incessantemente e dove ogni giorno qualcuno doveva prendersi cura delle tubature, dei tombini e dei canali di scolo. Gli abitanti di questo regno sotterraneo erano persone laboriose e dedite, ma avevano un problema: erano prive di un nome preciso che definisse il loro mestiere.

Il re delle fogne, sua maestà Fognaldo, indisse un'assemblea nel grande salone sotterraneo per discutere del problema. Tutti gli addetti alla manutenzione delle fogne affollarono il salone, dai più giovani apprendisti ai più esperti operai. "Cari sudditi e amici," iniziò Fognaldo, "da troppo tempo lavoriamo in queste fogne senza avere un nome che ci qualifichi. Ciò crea confusione e non rende giustizia al nostro duro lavoro. Abbiamo bisogno di un nome che indichi chi siamo e cosa facciamo per la comunità."

Gli astanti si guardarono scambiandosi idee e suggerimenti. Uno propose "fognista", un altro "cloachista", ma nessuno dei termini sembrava fare alla bisogna. Alla fine, una giovanissima operaia, Cloachilde, si fece avanti timidamente. "Vostra maestà," esordì, "e se ci chiamassimo 'spurghisti'? Il nostro compito è quello di spurgare le fogne, liberarle dai detriti e mantenerle pulite. Questo nome potrebbe specificare molto bene ciò che facciamo."

Cloachilde spiegò all’assemblea che il termine proposto, "spurghista", era formato combinando il sostantivo “spurgo” (derivato di “spurgare”, pulire) con il suffisso "-ista", atto a indicare una persona che svolge una attività, una professione o un mestiere. "Spurghista", pertanto, definisce alla perfezione chi si occupa della pulizia delle fogne.

Re Fognaldo rifletté sulle parole della giovane Cloachilde e un grande sorriso comparve sul suo volto. "Hai ragione da vendere, mia cara e fedele suddita," disse. "Il termine 'spurghista' è perfetto. È chiaro, diretto e definisce esattamente il nostro mestiere. Da oggi, saremo conosciuti come spurghisti. E che gli araldi lo diffondano".

La notizia, grazie ai banditori, si sparse rapidamente in tutto il Regno delle Fogne e presto anche il mondo di sopra cominciò a usare questa neoformazione. Gli spurghisti divennero conosciuti e rispettati per il loro lavoro, mantenendo le città pulite. Il termine "spurghista" fu accolto con entusiasmo e, finalmente, gli operai delle fogne avevano un termine che rendeva onore alla loro mansione.

 

***

La lingua “biforcuta” della stampa

Il fermo risale al 19 dicembre. Il caso è seguito dalla presidenza del Consiglio e dalla Farnesina. Oggi la reporter ha ricevuto la visita dell’ambasciatrice italiana in carcere a Teheran

-------------

È stata abolita l’immunità diplomatica? L’ambasciatrice è in carcere nella capitale iraniana.



(Le immagini sono riprese dalla Rete, di dominio pubblico, quindi. Se víolano i diritti d'autore scrivetemi; saranno prontamente rimosse: fauras@iol.it)

venerdì 27 dicembre 2024

Sofisticherie...


Il verbo fare
è adoperato - come suol dirsi - in tutte le salse, soprattutto in luogo del verbo dire. Ciò non è ortodosso sotto il profilo strettamente linguistico-grammaticale. Il verbo "fare" è usato correttamente in luogo del fratello "dire" soltanto quando nel corso di una narrazione o di un dialogo (fare) sottintende anche l'azione del gestire e vuole esprimere l'idea di un intervento repentino. M'incontra per la strada, per caso, e mi fa (cioè: mi dice): Quando sei tornato? È bene evitare l'uso del verbo fare - sempre che si voglia scrivere e parlare rispettando le "leggi della lingua" - in alcune locuzioni in cui il suddetto verbo è adoperato nella forma riflessiva apparente: farsi i baffi; farsi l'automobile; farsi i capelli; farsi le unghie; farsene una passione; farsene una malattia; farsi cattivo sangue e altre che ora non ci sovvengono. In tutte le espressioni su riportate il verbo fare si può sostituire con altri che fanno alla bisogna (quindi "piú appropriati"). Radersi, per esempio, è piú appropriato di "farsi la barba".

Restare e rimanere – a voler essere pignoli i due verbi non si possono adoperare indifferentemente. Il primo indica “per poco tempo”, con l’accezione di avanzare: mi restano pochi spiccioli; il secondo, invece, indica “per un tempo più lungo”, con l’accezione primaria di dimorare: rimanemmo a casa tutto il giorno.

Alcuni insegnanti, "spalleggiati" da... alcune grammatiche, ritengono errato cominciare un periodo con la congiunzione "ma" perché essendo avversativa il suo uso è corretto solo con frasi (o due elementi) che indicano contrasto come, per esempio, «era bello 'ma' non elegante». E dove sta scritto? Si può benissimo, ed è formalmente corretto, cominciare una frase o un periodo con il "ma" in quanto questa congiunzione indica la conclusione o l'interruzione di un discorso per passare a un altro. E come liquidiamo la questione della virgola dopo il "ma"? Ci spieghiamo. I soliti "grammatici" ritengono errato l'uso della virgola dopo la predetta congiunzione avversativa. A questi "soloni della lingua" ricordiamo che se la congiunzione avversativa (ma) precede una frase parentetica la virgola non solo è corretta ma è... d'obbligo: avrei voluto telefonarti ma, visti i precedenti, non ho avuto il coraggio. Nell'esempio riportato, l'espressione "visti i precedenti" è una frase parentetica, la virgola dopo il ma è, per tanto, obbligatoria. Dunque, cari amici, quando avete dei dubbi grammaticali non consultate testi di lingua scritti da illustri sconosciuti, amici di editori "compiacenti": troppo spesso questi "sacri testi" sono l'esempio della contraddizione, per non dire delle "mostruosità linguistiche". Sarebbe auspicabile e utile, in questo campo, l'intervento dell'Accademia della Crusca. Tutte le pubblicazioni scolastiche dovrebbero avere l' «imprimatur» della suddetta Accademia: in questo modo si raggiungerebbe - senza la nascita di un apposito organismo - quell'uniformità linguistica invocata, anni fa, dall'insigne prof. Nencioni. I testi, infatti - seppure scritti con stile personale - conterrebbero le medesime regole e i "fruitori" non avrebbero possibilità di errore.

L’aggettivo “deleterio” che significa ‘dannoso’, ‘nocivo’ è adoperato correttamente solo se riferito a cose concrete, materiali: questo luogo inquinato è “deleterio” per l’uomo. È improprio riferirlo a cose “ideali”, “intellettuali”: queste letture sono “deleterie” per i giovani. Si dirà “piú correttamente”, ‘nocive’, ‘dannose’ per i giovani. I vocabolari, però...


 ***

La lingua “biforcuta” della stampa

Tra Oltrepo e Voghe gol ed emozioni, il derby finisce 2-2

---------------

Correttamente: Oltrepò. Nei composti il Po si accenta.

*

Fans musulmani contro Salah per la foto con l’albero di Natale

Critiche e maledizioni su social, ma anche "ignora questi idioti"

----------------

In italiano i termini barbari non si pluralizzano, quindi: fan musulmani.



(Le immagini sono riprese dalla Rete, di dominio pubblico, quindi. Se víolano i diritti d'autore scrivetemi; saranno prontamente rimosse: fauras@iol.it)


giovedì 26 dicembre 2024

Santo Stefano, festa civile

 


Molti, molti anni fa, viveva in un piccolo villaggio, ai confini del mondo, un giovane, Stefano. Questi era noto e amato per la sua bontà d'animo e per il suo impegno verso gli altri. Era sempre disponibile per chiunque avesse bisogno del suo aiuto, senza chiedere nulla in cambio.

Un giorno, il giovane fu chiamato a Roma per una missione molto importante: doveva portare la speranza e la gioia ai più bisognosi dell’urbe. Nella città eterna lavorò instancabilmente, giorno e notte, per migliorare la vita delle persone meno abbienti. La sua dedizione e il suo spirito altruista fecero breccia nel cuore di tutti.

T
uttavia, il destino del giovane Stefano era segnato dalla sofferenza. Fu perseguitato per la sua fede e per le sue numerose opere di bene, e alla fine divenne il primo martire della cristianità, sacrificando la sua vita per gli ideali in cui credeva ciecamente. Da quel giorno Stefano fu ricordato come Santo Stefano, il protomartire (il primo martire).

C
on il trascorrere degli anni, la memoria di Santo Stefano rimase viva nei cuori delle persone, non solo per il suo martirio, ma anche per il suo esempio di altruismo e dedizione. Nel 1947 (o 1949, l'anno è controverso), lo Stato italiano decise di rendere il 26 dicembre un giorno festivo per "allungare" la festa del Natale e permettere a tutti di godere ancora di un periodo di riposo e di... riconciliazione. Questo giorno divenne, così, un'opportunità per trascorrere più tempo con la famiglia e con gli amici, rafforzando i legami comunitari.

I
l 26 dicembre divenne, dunque, una giornata dedicata a celebrare l'umanità e la solidarietà. In ogni città e villaggio, le persone si riunivano per organizzare eventi comunitari, come mercati solidali, concerti benefici e giochi per i più piccoli. Le famiglie aprivano le loro case per accogliere vicini e amici, condividendo cibo e racconti di bontà.

U
omini e donne portavano candele e lanterne per le strade, illuminando il buio dell'inverno con la luce della comunità, della fratellanza e della speranza. Le piazze, nonostante il freddo, erano gremite per ascoltare le bande musicali cittadine; tutti condividevano le storie di Santo Stefano e di come il suo spirito continuasse a vivere attraverso le loro azioni altruiste.

Q
uesto giorno festivo, rigorosamente civile, non solo unì la nazione, ma ispirò altre terre lontane a celebrare la solidarietà e la generosità. Le cronache narravano di un mondo diventato un po' più luminoso e accogliente. E nel giorno di Santo Stefano il villaggio si riempiva di luce e calore, ricordando a tutti l'importanza di essere generosi e di prendersi cura gli uni degli altri.


 ***

La lingua “biforcuta” della stampa

La tragedia

Francia, macchinista del Tgv si lancia dal treno in corsa. Bloccate le linee verso il sud-est

-------------

In buona lingua: Sud-Est (le iniziali ‘maiuscolate’).


*

Stati Uniti

Trump (e Musk) cancellano il centro contro la disinformazione straniera perché “anti-conservatori”

---------------

L’antroponimo in parentesi come se non ci fosse; il verbo, quindi, deve essere della terza persona singolare (cancella).



(Le immagini sono riprese dalla Rete, di dominio pubblico, quindi. Se víolano i diritti d'autore scrivetemi; saranno prontamente rimosse: fauras@iol.it)



mercoledì 25 dicembre 2024

BUON NATALE



Un sereno Natale ai nostri amici blogghisti, amanti dell'italico idioma 



(Le immagini sono riprese dalla Rete, di dominio pubblico, quindi. Se víolano i diritti d'autore scrivetemi; saranno prontamente rimosse: fauras@iol.it)


martedì 24 dicembre 2024

Il "mangimista", ovvero il commerciante di alimenti per animali


 C'era una volta, in un piccolo e ridente villaggio, Parolonia, un luogo incantato dove ogni mestiere aveva il proprio nome e chi lo esercitava la propria dignità. Qui, tra contadini, artigiani, panettieri, salumieri ecc. vivevano persone di ogni censo, ciascuna con un’occupazione ben definita.

In questo villaggio, però, nessuno sapeva come rivolgersi al commerciante di mangimi per animali. C’era un uomo, Pasquale, che, senza un titolo specifico, era conosciuto semplicemente come "il venditore di mangimi." Questi gestiva una bottega piena di sacchi di mangime per galline, mucche, cavalli e altri animali da fattoria. Tutti si rivolgevano a Pasquale per assicurarsi che i loro animali fossero ben nutriti.

U
n giorno, mentre Pasquale sistemava i sacchi di mangime nella sua bottega, un giovane studioso del villaggio, Bernardo, entrò con un'aria preoccupata nel negozio. "Pasquale," disse Bernardo, "ho studiato gli idiomi di numerosi Paesi e ho notato che non abbiamo una parola specifica per designare il tuo mestiere. Mi sembra ingiusto che tu, che svolgi un compito così importante per la comunità, non abbia un titolo che ti definisca."

P
asquale sorrise gentilmente e rispose: "Bernardo, sono felice di aiutare i nostri concittadini e di prendermi cura degli animali. Il titolo non ha alcuna importanza per me." Ma il giovane studioso non era soddisfatto della risposta. Decise, quindi, di convocare un'assemblea nel villaggio per discutere del problema.

L
a grande piazza del villaggio si riempì rapidamente di gente curiosa. C'erano contadini, panettieri, artigiani e persino il delegato del sindaco. Bernardo salì su un piccolo podio, allestito alla bisogna, e iniziò a parlare: "Amici e concittadini carissimi, oggi siamo qui per discutere di un vuoto lessicale nel nostro vocabolario. Il nostro gentilissimo Pasquale, che si prende cura di fornire mangimi per i nostri animali, merita un titolo che onori il suo lavoro. Propongo, pertanto, di adottare il termine 'mangimista', tratto da ‘mangime’ con l’aggiunta del suffisso ‘-ista’, per indicare il commerciante di alimenti per animali. Questo neologismo colmerà una lacuna nel nostro linguaggio e darà, altresì, al nostro carissimo Bernardo il riconoscimento che merita."

C
i fu un boato. La folla applaudì entusiasta. Il delegato del sindaco, con un sorriso, si rivolse ai cittadini: "Bernardo ha ragione da vendere. Pasquale svolge un compito essenziale nel nostro villaggio e merita un titolo che lo rappresenti degnamente. Da oggi in poi chiameremo Pasquale 'mangimista', e così sarà per tutti coloro che svolgono questo insopprimibile mestiere."

B
ernardo, emozionato e commosso, ringraziò tutti gli astanti. Finalmente il suo lavoro aveva il riconoscimento che meritava. La neoformazione "mangimista" cominciò a diffondersi rapidamente, non solo a Parolonia, ma anche nei villaggi limitrofi. La parola colmava un vuoto lessicale e rendeva giustizia a un mestiere fondamentale per la vita della comunità.

L
a lingua, con il suo nuovo termine, divenne ancora più ricca e precisa, riflettendo la bellezza e la complessità del mondo dei mestieri.

-----------------

Ci siamo accorti che "mangimista" non è una neoformazione essendo attestato nei  vocabolari dell'uso. Ci scusiamo con i nostri lettori per aver proposto un termine esistente.



(Le immagini sono riprese dalla Rete, di dominio pubblico, quindi. Se víolano i diritti d'autore scrivetemi; saranno prontamente rimosse: fauras@iol.it)



lunedì 23 dicembre 2024

Spanduto? Raro ma non errato

 


Nell’incantevole Regno delle Parole, dove ogni termine aveva una propria personalità e una propria mansione, vivevano due fratelli particolari: Spanso e Spanduto. Questi erano figli del nobile verbo "Spandere," ma nonostante fossero fratelli il loro impiego era controverso.

Spanso, il maggiore dei due, era una parola amata e rispettata. Ovunque si presentasse tutti sapevano che rappresentava il participio passato di "spandere". Spanso era sempre presente nei discorsi dei saggi, nelle opere letterarie, nelle chiacchierate al bar e nel linguaggio quotidiano. Quando una massaia versava l'olio sulla padella, diceva: "Ho spanso l'olio con molta cura." Nessuno metteva in discussione la sua autorità.

S
panduto, invece, il fratello minore, era spesso trascurato. Sebbene il suo nome fosse meno comune, aveva una storia e una dignità pari a quella di suo fratello: era di uso raro, ma non per questo errato, come sostenevano alcuni grammatici severi, alcuni dei quali non erano d'accordo se si dovesse dire, oltretutto, "spanso" o "spanto", lasciando in sospeso la questione . La sua esistenza e correttezza erano ben documentate nei vecchi testi e nei dialetti più antichi del regno.

U
n giorno, nel Regno delle Parole, si tenne una grande assemblea per discutere di problemi linguistici. Spanso, come sempre, era al centro dell'attenzione di tutti, mentre Spanduto osservava, in silenzio, in un angolo. Durante il dibattito, improvvisamente, un giovane studioso si alzò e disse: "Perché non riconosciamo l'uso corretto di Spanduto? Anche lui è parte del nostro patrimonio linguistico!"

L
a sala cadde in un silenzio tombale. Spanso, con un sorriso, si avvicinò a Spanduto e disse: "Fratello mio, è tempo che anche tu venga ufficialmente riconosciuto. La tua rarità non ti rende meno importante. Anzi, la tua esistenza arricchisce il nostro linguaggio e ci ricorda la diversità e la bellezza del nostro idioma."

I
l saggio Re Lessico, appassionato di lingua, che presiedeva l'assemblea, annuì gravemente. "Lo studioso ha ragione. Spanduto, sebbene di uso raro, è una forma corretta e degna di rispetto. La lingua è viva e in continua evoluzione, e noi dobbiamo accogliere tutte le sue varianti con apertura e rispetto."

D
a quel giorno, in tutto il regno, sia Spanso sia Spanduto furono adoperati con orgoglio e consapevolezza. Gli abitanti impararono a riconoscere e apprezzare ambi i participi passati. Quando qualcuno voleva esprimere un'azione di spandere, poteva scegliere con cognizione di causa: "Ho spanso il profumo dei fiori nel giardino" o "Ho spanduto la voce della buona novella."

E
così, nel Regno delle Parole regnarono pace e “armonia linguistica”. I fratelli Spanso e Spanduto contribuirono, assieme, alla ricchezza e alla bellezza del linguaggio, dimostrando che ogni parola, rara o comune che sia, ha il suo posto e la sua importanza.



(Le immagini sono riprese dalla Rete, di dominio pubblico, quindi. Se víolano i diritti d'autore scrivetemi; saranno prontamente rimosse: fauras@iol.it)



sabato 21 dicembre 2024

Sgroi – 189 - Il congiuntivo: modo semantico o a-semantico?

 



di Salvatore Claudio Sgroi 

 

 

1. Il congiuntivo semantico 


Diciamo subito che la risposta alla domanda presente nel titolo di questo intervento richiede la preliminare distinzione tra cong. presente nelle frasi principali e cong. presente nelle frasi dipendenti. 

Nelle frasi principali non c’è dubbio infatti che il cong. sia un modo semantico, che trasmette cioè un preciso significato diverso da quello dell’indicativo, come dimostrano i seguenti esempi. 

(i). Cong. dubitativo, es. Che Michele abbia ragione?, Che Michele avesse ragione? 

(ii). Cong. desiderativo (o ottativo), es. (Magari) Avesse ragione Michele! 

(iii) Cong. imperativo, ess. Si accomodi (pure), Faccia pure! 

 

2. Il congiuntivo a-semantico? 


Contrariamente a quanto indicato dalla grammatica scolastica tradizionale, il cong. nelle frasi dipendenti non è un modo con valore semantico, come dimostrano ess. quali (i) Credo che Dio esista in bocca a credenti, (ii) Il fatto che Michele non sia potuto venire non è dipeso da lui, (iii) Mi è dispiaciuto che Michele non sia venuto, (iv.a) Sono sicuro che ha detto la verità e con prolessi (iv.b) Che abbia detto la verità ne sono sicuro. Opportunamente Gualberto Alvino nella sua Maledetta grammatica (Pref. di Claudio Giovanardi, Eboli (SA), Caffèorchidea 2023), respinge la spiegazione tradizionale ed errata del valore del cong. (modo dell’incertezza) rispetto all’indic. (modo della certezza), a proposito di ess. quali “Accadde che fosse accusato di rapina” (p. 75) e “Sono contento che tu sia stato promosso” (ibid.), dove “la promozione è certamente avvenuta” (ibid.) e dove il cong. “serve esclusivamente a segnalare la subordinazione” (ibid.). Pur non senza qualche successiva contraddizione, quando scrive che in ess. quali “Luca afferma che Piero sia stato promosso per compassione” (p. 116), “Lo stesso autore dichiarò che il romanzo fosse nato da un fatto realmente accaduto” (ibid.) “i verbi esprimono certezza, per cui consiglierei il modo indicativo” (ibid.).  

 

2.1. Cong. vel Indic.: variazione diafasica 


L’alternanza cong./indic. nelle frasi dipendenti indica invece un modo  formale, più elegante del congiuntivo rispetto all’indicativo, decisamente informale; si tratta cioè di una “variazione diafasica, così in ess. come (i) Non so se sia/è venuto, (ii) Non capisco perché me l’abbia/l’ha detto, (iii) Se l’avessi saputo l’avrei fatto / Se lo sapevo lo facevo. 

Opportunamente Gualberto Alvino nella citata Maledetta grammatica  fa correttamente presente che “il modo congiuntivo è più elegante dell’indicativo” (p. 121) e che “ambo i modi sono corretti” (ibid.) in frasi quali “È singolare che a stracciarsi le vesti sono/siano sempre quelli che non hanno mai letto un libro” (ibid.); “Ricordo il viaggio per Roma come uno dei più emozionanti che ho/abbia fatto” (p. 239).  

 

3. Un dubbio


In una coppia di frasi quali (i) Marco sostenne che io fossi colpevole” vs (ii) Marco sostenne che io ero colpevole”  citate da Alvino (p. 105), è invero forte la tentazione di avvalorare la spiegazione tradizionale, per cui in Marco sostenne che io fossi colpevole” la colpevolezza è dubbia e invece è certa in “Marco sostenne che io ero colpevole”.  

Ma la prolessi (i.a) “Che io fossi colpevole, Marco lo sostenne” e (ii.a) “Che io ero colpevole Marco lo sostenne”  serve a avvalorare la spiegazione della variazione diafasica del cong. più formale ed elegante dell’indic. informale. 

Una ulteriore variazioneMarco sostenne che Michele fosse colpevole” vs (ii) “Marco sostenne che Michele era colpevole”, con l’eliminazione cioè della voce narrante (“io”), suggeritami da un caro amico e collega, toglie ogni dubbio sulla validità della differenza diafasica del costrutto   

Quando hai un verbo come sostenere, orientato argomentativamente verso la realtà, che cosa può fare il congiuntivo?”, continua il mio amico. “Nel tuo esempio c'è la complicazione della polifonia: sostenere è attribuito a Marco, l'eventuale falsità al parlante. Ma se è così il gioco vale anche per la realtà presunta collegata all'indicativo.... In questo caso, però, il parlante entrerebbe in conflitto con se stesso. E se al posto di io metti un soggetto terzo, cambia qualcosa: “_Marco sostenne che Luca fosse colpevole vs Marco sostenne che Luca era colpevole. Alla fine, pensare che il congiuntivo retto da un verbo non abbia (sic) un valore proprio è l'ipotesi più razionale e coerente”.  

 

3.1. Tentazione 

La tentazione di opporre (i) “Marco sostenne che io fossi colpevole” (dubbio) vs (ii) “Marco sostenne che io ero colpevole” (certezza), concludendo, è probabilmente giustificata dal fatto che la frase (i) è come se fosse analizzabile in “Marco sostenne: che io fossi colpevole?”, ovvero un periodo con due coordinate: “principale + principale con cong. dubitativo”, mentre la frase (ii) “Marco sostenne che io ero colpevole” è un periodo formato da “una principale + una dipendente argomentale oggettiva”.

Sommario

1. Il congiuntivo semantico

2. Il Congiuntivo a-semantico?

2.1. Cong. vel Indic.: variazione diafasica

3. Un dubbio

3.1. Tentazione






























(Le immagini sono riprese dalla Rete, di dominio pubblico, quindi. Se víolano i diritti d'autore scrivetemi; saranno prontamente rimosse: fauras@iol.it)