sabato 31 maggio 2025

Quotare: quando il linguaggio sbaglia strada e nessuno se ne accorge

 

  Il verbo quotare è spesso frainteso e adoperato in contesti che non gli appartengono. È un verbo denominale derivato di quota: “quanto grande” o “di che numero”. Ha un significato preciso legato alla determinazione di un valore numerico o economico.

Il contesto primario in cui "quotare" trova la sua casa naturale è, per l’appunto, quello economico. Quando si dice che un bene, un titolo azionario o una valuta è quotata, si intende che ha un valore determinato e ufficialmente riconosciuto sui mercati: le azioni di quella Casa sono quotate alla Borsa di Milano; l'euro è quotato a 1,10 dollari sul mercato internazionale.

In ambito tecnico, "quotare" significa indicare misure e proporzioni su un disegno, un progetto o una costruzione. Il geometra ha quotato l’altezza delle travi nel disegno tecnico. L’architetto ha quotato gli spessori dei muri per evitare problemi strutturali.

Questi sono i contesti in cui 'quotare' viene usato correttamente. Negli ultimi anni, tuttavia, si è diffusa una tendenza errata: quotare viene sempre più spesso adoperato come sinonimo di "valutare", "dare un'opinione", "giudicare" e simili.

Una delle derive più comuni è, infatti, l’uso di "quotare" con il significato di “apprezzare” o “giudicare”. Frasi come ti quota molto come artista, oppure ti quoto in pieno!" sono linguisticamente scorrette. La prima è una contaminazione dall’uso improprio del verbo, mentre la seconda è frutto di una curiosa evoluzione gergale nata sui forum e sui ‘social’, dove "quoto" è diventato un modo per dire "sono d’accordo".

Un aneddoto divertente riguarda un celebre intervento televisivo di un giornalista sportivo che, parlando di un calciatore, affermò: Io non lo quoto molto valido, perché non lo vedo all’altezza della Serie A. L’imbarazzo nello studio fu palpabile. Qualcuno alzò un sopracciglio, altri fecero finta di nulla. Il cronista aveva confuso il verbo "quotare" con "stimare" o "valutare", generando un uso improprio che contribuì a diffondere il fraintendimento del lessema.

Il linguaggio è uno strumento di precisione. Ogni parola ha il suo significato e la sua storia, e usare "quotare" come sinonimo di “valutare” o “approvare” impoverisce la ricchezza espressiva della lingua. Se vogliamo esprimere un giudizio o dire che siamo d’accordo con qualcuno, meglio usare verbi come apprezzare, stimare, condividere. La lingua italiana è ricca di sfumature. Perché impoverirla con usi impropri, se non errati, quando abbiamo parole perfette per ogni contesto?

Dunque, se dovessi quotare questo articolo... aspetta, no! Sarebbe un altro errore. Diciamo piuttosto che, se lo trovassi chiaro e completo, lo valuteresti positivamente!





venerdì 30 maggio 2025

Ieri l’altro e l’altro ieri: non sono la stessa cosa!

 

Abbiamo notato che molte persone adoperano le espressioni ieri l'altro e l'altro ieri come se fossero intercambiabili, ma in realtà indicano due concetti leggermente diversi. La distinzione è sottile, ma esiste, ed è importante per chi vuole usare la lingua di Dante con precisione.

Quando diciamo l'altro ieri, ci riferiamo esattamente al giorno che precede ieri, ovvero due giorni fa rispetto a quello in cui ci troviamo. Se oggi è giovedì, l'altro ieri era martedì. Se qualcuno dice, per esempio, "sono andato al cinema l'altro ieri", significa che è stato due giorni fa, senza margine di ambiguità. Allo stesso modo, se oggi è sabato, l'altro ieri era giovedì, e se oggi è martedì, l'altro ieri era domenica. Questa espressione è sempre precisa e non dà adito a interpretazioni soggettive.

Dall’altra parte, ieri l'altro è un’espressione meno definita e più sfumata. Viene spesso adoperata per indicare un passato prossimo non esattamente “individuabile”, ma che comunque si colloca a qualche giorno di distanza da oggi. Può significare l'altro ieri, ma anche tre o quattro giorni fa, a seconda del contesto. Dicendo, per esempio, "ho sentito Marco ieri l’altro", potrei riferirmi a due, tre o anche quattro giorni fa, così come se affermo che "il temporale ha rovinato tutto ieri l'altro", potrei intendere che è successo recentemente, senza necessariamente indicare con precisione il giorno esatto. Se qualcuno dice "abbiamo avuto un problema in ufficio ieri l’altro, ma per fortuna lo abbiamo risolto", sta trasmettendo l'idea di un avvenimento accaduto di recente senza essere vincolato a una data specifica.

Questa distinzione esiste perché la lingua italiana, come molte altre, offre modi diversi di esprimere il tempo, adattabili alle situazioni. Se si vuole indicare con precisione un giorno specifico, l'altro ieri è la scelta corretta; se invece si vuole comunicare un passato recente ma non esattamente definito, ieri l'altro è più adeguato. Questo significa che se stai raccontando un episodio lavorativo o un evento che richiede precisione, è meglio usare l'altro ieri. Se invece parli di un ricordo personale o di un avvenimento quotidiano senza necessità di dettagli esatti, ieri l’altro risulta più naturale.

Per concludere queste noterelle: l'altro ieri significa sempre due giorni fa, mentre ieri l'altro lascia spazio a una maggiore interpretazione e si adatta a un passato prossimo non perfettamente determinato. Usare con consapevolezza queste espressioni aiuta a comunicare meglio e a evitare fraintendimenti, oltre a dimostrare una padronanza più raffinata dell’italico idioma.

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Dalla trasmissione televisiva “Dritto e rovescio” (29/5/25)

Il dato, 7 donne su 10 hanno paura ad uscire da sole la sera

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Correttamente: paura di uscire. Il sintagma verbale "avere paura" regge la preposizione "di" quando introduce un'azione, quindi la costruzione corretta è "paura di”.  Paura di volare; paura di morire; paura di sbagliare; paura di... uscire (da sole la sera).

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A proposito di “papamobile” (intervento del 28 scorso), invitiamo i cortesi lettori, amanti del bel parlare e del bello scrivere, a segnalarci altre parole ibride (“bastarde”) in cui si sono imbattuti.

giovedì 29 maggio 2025

Contemplare non è sinonimo di prevedere

 

Il verbo "contemplare" evoca immagini di osservazione silenziosa, di sguardi che si perdono nella bellezza di un paesaggio o di un’opera d’arte. La sua accezione affonda le radici nell’antichità, quando osservare il cielo era un atto sacro e profondamente riflessivo. Con il trascorrere del tempo, il sintagma ha conservato questa sfumatura di attenzione intensa e quasi meditativa, ma spesso viene usato in modo improprio, per non dire errato, attribuendogli il senso di "prevedere" o "includere". Per comprendere appieno la sua essenza e il corretto utilizzo, è necessario esplorare la sua storia, il suo significato e i verbi che possono sostituirlo nei contesti in cui non è appropriato.

Il verbo "contemplare", dunque, ha origini antiche e un significato che va ben oltre il semplice "osservare". Proviene dal latino contemplari, che a sua volta è legato a templum, ovvero la porzione di cielo che gli antichi sacerdoti delimitavano per interpretare i segni divini. “Alla nascita” contemplare significava proprio "osservare attentamente dentro uno spazio sacro", un atto di profonda riflessione e raccoglimento.

Nel tempo, il significato si è ampliato, conservando sempre un senso di osservazione intensa e meditativa. Contemplare, infatti, non è semplicemente guardare, ma soffermarsi con attenzione, lasciarsi coinvolgere da ciò che si osserva. Si contempla un paesaggio, un'opera d'arte, il cielo stellato, perché l'atto non è solo visivo, ma anche interiore. Chi contempla il tramonto in silenzio, non si limita a guardarlo, ma lo vive, lo assapora, lo lascia entrare nei suoi pensieri. In questi casi, si potrebbero usare anche verbi come ammirare, osservare, fissare, scrutare, rimirare, a seconda della sfumatura che si vuole dare.

Adoperare "contemplare" nel senso di "prevedere" o "includere" e simili è tremendamente errato. Dire, per esempio, "il regolamento contempla questa eccezione" non è corretto, perché il verbo non ha il significato di considerare qualcosa in un piano o in una previsione. Meglio (anzi, “più corretto”) dire "il regolamento prevede questa eccezione" o "il regolamento tratta questa possibilità". Allo stesso modo, dire "il bilancio contempla questa spesa" è scorretto: il bilancio può includere, considerare, esaminare una spesa, non contemplarla, perché contemplare implica – come abbiamo visto - un'osservazione profonda, non una semplice valutazione pratica.

La bellezza dell’italico idioma sta proprio nelle sfumature, e contemplare è un verbo che porta con sé un senso di profondità e attenzione; merita, dunque, di essere usato con cura. Quando qualcuno contempla la bellezza di un dipinto per ore, non sta semplicemente guardando i colori e le forme, ma sta “entrando in un dialogo silenzioso con l'opera”, lasciandosi trasportare dalle emozioni che suscita. Contemplare, insomma, è un verbo che invita alla riflessione, alla meraviglia, alla connessione con ciò che si osserva. Chi contempla non calcola, ma comprende.













(Le immagini sono riprese dalla Rete, di dominio pubblico, quindi. Se víolano i diritti d'autore scrivetemi; saranno prontamente rimosse: fauras@iol.it)


mercoledì 28 maggio 2025

Lo specchio di Edoardo e la magia delle parole - Il segreto dei verbi riflessivi e pronominali

 


C'era una volta, in un regno lontano chiamato Linguaria, un giovane apprendista, Edoardo. Viveva nel villaggio di Parolandia, dove le parole danzavano nell'aria e prendevano vita. Edoardo, giovane curioso e determinato, voleva padroneggiare ogni sfumatura della lingua, ma un misterioso enigma continuava a confonderlo: la differenza tra i verbi riflessivi e pronominali.

Un giorno di primavera, durante una passeggiata nel Bosco delle Coniugazioni, incontrò la saggia Maga Grammatica. Con un sorriso, lei gli mostrò un grande specchio d’acqua e gli disse: “Osserva attentamente. Questo è il segreto dei verbi riflessivi: l’azione che compi ritorna su di te, proprio come la tua immagine nello specchio.” Edoardo, immerso nel suo riflesso, comprese immediatamente il concetto. Se diceva mi vesto, lui stesso era protagonista e destinatario dell'azione. Quando (si) lavava le mani, capiva che stava agendo su sé stesso, proprio come in Laura si lava il viso.

Proseguendo il viaggio, giunse alla Valle delle Parole Intrecciate, dove incontrò il burlone Gnomo Pronominale, maestro nell’arte di trasformare i verbi aggiungendo pronomi. “Attento, Edoardo! Non tutto ciò che sembra riflessivo lo è davvero!” disse ridendo. Edoardo osservò una frase che fluttuava nell’aria: me ne vado. Il verbo andare, da solo, indicava movimento, ma con il pronome ne acquistava un senso più forte, quello di una separazione definitiva. Lo stesso accadeva con ce la faccio, in cui il verbo fare si trasformava in riuscire a ottenere un risultato, e con cavarsela, che non significava “cavare” qualcosa, ma suggeriva astuzia nel superare una difficoltà.

Alla fine del viaggio, Edoardo, soddisfatto, sorrise. “Ora, finalmente, ho capito! I verbi riflessivi sono come lo specchio: l’azione ritorna su chi la compie. I verbi pronominali, invece, modificano il significato del verbo, donandogli nuove sfumature.” Da quel giorno, nessuno confondeva più i verbi riflessivi con quelli pronominali, e la lingua italiana risplendeva più chiara che mai.

Questa distinzione, dunque, è ciò che rende i verbi italiani così affascinanti e, al tempo stesso, insidiosi per chi non ne conosce le sfumature. I verbi riflessivi sono quelli in cui l’azione compiuta dal soggetto ricade direttamente su di lui. Quando dici mi vesto per uscire, sei il protagonista dell’azione e al tempo stesso il destinatario. Giulia si pettina i capelli mostra chiaramente il meccanismo riflessivo: Giulia esegue l’azione del pettinare sé stessa. Questo tipo di verbi si riconosce facilmente perché, senza il pronome, la frase cambia significato o perde senso. Se togliessimo mi lavo, per esempio, non avremmo più una costruzione riflessiva.

I verbi pronominali, invece, non sono necessariamente riflessivi. Il pronome serve a modificare il significato del verbo, rendendolo più intenso o figurato. Andarsene, per esempio, non significa semplicemente “andare”, ma sottolinea un distacco definitivo. Me ne vado suggerisce una separazione netta da un luogo, mentre ce la faccio trasforma il verbo "fare" in “riuscire a ottenere un risultato”. Ancora più emblematico è cavarsela, che non significa “cavare” qualcosa, ma indica la capacità di destreggiarsi nelle difficoltà.

Ecco, dunque, la grande differenza: i verbi riflessivi descrivono un’azione che ritorna sul soggetto, mentre i pronominali giocano con il significato, arricchendolo di sfumature e usi idiomatici. Comprendere queste sottigliezze permette di esprimersi con maggiore precisione e naturalezza, evitando ambiguità. Quando si padroneggiano queste differenze, l’italiano diventa ancora più affascinante!













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Papamobile: un aborto linguistico su quattro ruote

Papamobile: un termine figlio di nessuno, linguisticamente sbilenco e indegno di un Pontefice. Nato dall’urgenza giornalistica di battezzare il veicolo papale con un nome sintetico, è un ibrido mal riuscito che fonde “Papa” e il suffisso “-mobile”, mutuato da parole come “automobile”. La costruzione suggerisce un Papa in movimento, quasi dotato di ruote, come se la sua essenza fosse legata al mezzo più che al ministero.

Il suffisso, poi, richiama espressioni fantasiose come “Batmobile”, portando con sé un alone di spettacolarizzazione che stride con la solennità della figura papale. Se fosse un criterio valido, dovremmo accettare anche "Presidentemobile", "Sindacomobile", e chissà, perfino un "Cardinalmobile" in caso di conclave itinerante.

La lingua ecclesiastica ha sempre avuto una sua eleganza e precisione, ma “Papamobile” è una stortura che suona goffa, riducendo il Papa a una curiosità lessicale. Il Vaticano, per fortuna, non l’ha mai adottato ufficialmente, ma il termine persiste, sfidando il buon senso linguistico.

A questo punto, meglio tornare alla sedia gestatoria.




martedì 27 maggio 2025

I custodi della lingua: viaggio tra linguisti, glottologi, lessicografi e grammatici

 

La lingua – si dice - è il tessuto connettivo dell’umanità, il codice che incarna pensiero, storia e identità. Comprendere le dinamiche del linguaggio significa entrare nelle profondità della comunicazione, della cultura e dell’evoluzione umana. Qui alcune figure si distinguono per il loro ruolo nella conoscenza linguistica: il linguista, che indaga le strutture e le funzioni della lingua; il glottologo, che ricostruisce le origini e le relazioni tra idiomi; il lessicografo, che seleziona e definisce il vocabolario di una lingua; e il grammatico, che ne studia le regole e i meccanismi.  Questi studiosi, con il loro sapere e la loro ricerca, svelano i segreti delle parole e danno forma alla nostra comprensione del mondo.

Vediamo, nei dettagli, le rispettive competenze. Il linguista è lo studioso del linguaggio nelle sue molteplici manifestazioni. Questi analizza le strutture delle lingue, le loro evoluzioni storiche, le variazioni geografiche, sociali e i meccanismi cognitivi che permettono la comunicazione.

Il glottologo si dedica alla storia e alla comparazione delle lingue, cercando le loro origini e i legami tra idiomi apparentemente distanti. Il termine proviene dal greco glōtta, variante di glōssa, “lingua”, combinato con il suffisso -logo, che indica studio e discorso. Il glottologo indaga sulle affinità linguistiche tra popoli, ricostruisce le lingue antiche e propone ipotesi sulla loro evoluzione.

Il lessicografo è il creatore di dizionari, colui che raccoglie, analizza e definisce le parole di una lingua. L’etimologia della parola risale al greco lexis, “parola” o “espressione”, e graphō, “scrivere”. Il suo compito è stabilire il significato dei termini, la loro origine e l’uso corretto nel tempo. Il lavoro del lessicografo è fondamentale per la codificazione e la trasmissione del sapere linguistico.

Il grammatico studia e descrive le regole che governano una lingua, sia sotto il profilo normativo sia storico. Il termine è il greco grammatikós, che significa “relativo alla scrittura”, composto da grámma, “lettera, scritto”. Il grammatico analizza le strutture sintattiche, morfologiche e fonologiche, fornendo strumenti per la comprensione e l’uso efficace della lingua.

Un caso curioso riguarda il filologo e linguista Cesare Lombroso, noto per i suoi studi sulla criminologia ma anche per il suo interesse per il linguaggio. Nel 1870, Lombroso osservò che alcuni criminali utilizzavano strutture linguistiche particolari, con ripetizioni e costruzioni insolite. Questo lo portò a ipotizzare che il modo di parlare potesse rivelare aspetti della psiche e persino predisposizioni comportamentali. Sebbene le sue teorie siano state in parte superate, il suo lavoro ha aperto la strada agli studi moderni sulla linguistica forense, che oggi viene utilizzata per analizzare testi e identificare autori di scritti anonimi. Un perfetto esempio di come il linguaggio possa essere una finestra sulla mente umana.

Inoltre, il linguaggio è ricco di espressioni che hanno origini insolite. L'espressione acqua in bocca, usata per chiedere discrezione, sembra derivare da un'antica pratica religiosa: si racconta che un sacerdote consigliasse a una donna devota di tenere un sorso d’acqua in bocca per evitare di parlare male degli altri. Un’altra curiosità riguarda piove sul bagnato, resa popolare dal poeta Giovanni Pascoli per indicare una situazione in cui chi è già in difficoltà subisce ulteriori problemi.

Non mancano poi le parole italiane intraducibili, che testimoniano la ricchezza del nostro idioma. Il termine abbiocco, che descrive la sonnolenza che arriva dopo un pasto abbondante, non ha un corrispettivo diretto in inglese. Lo stesso vale per spaghettata, che indica una cena improvvisata a base di pasta, impossibile da tradurre con una sola parola. Questi piccoli dettagli linguistici mostrano quanto il nostro vocabolario sia legato alla cultura e alle abitudini quotidiane.

La lingua non è solo un mezzo di comunicazione, ma un mondo da esplorare, fatto di storie, evoluzioni e curiosità sorprendenti. Ogni parola è una piccola chiave che apre porte su epoche passate, su misteri della mente e su connessioni invisibili tra culture lontane.

E allora, che tu sia un linguista in erba, un appassionato di etimologie o semplicemente uno che ama giocare con le parole, ricordati che dietro ogni termine si nasconde un viaggio. E magari, la prossima volta che sentirai un abbiocco dopo pranzo o improvviserai una spaghettata con gli amici, penserai che anche il linguaggio è un saporito piatto da gustare.

Dopotutto, le parole sono come gli spaghetti: si intrecciano, si avvolgono, e talvolta si attorcigliano, ma alla fine… fanno sempre parte della stessa storia.












(Le immagini sono riprese dalla Rete, di dominio pubblico, quindi. Se víolano i diritti d'autore scrivetemi; saranno prontamente rimosse: fauras@iol.it)





lunedì 26 maggio 2025

I due messaggeri della lingua - Una storia di verbi e destini

Nella vastità della lingua italiana, alcune parole sembrano gemelle, eppure, quando le osserviamo da vicino, rivelano differenze sottili e affascinanti. Arrecare e recare sono due verbi che, pur condividendo un’origine comune, hanno preso strade diverse.

Uno porta effetti, l’altro porta cose. Uno lascia un segno invisibile, l’altro compie un viaggio concreto. E, proprio come accade nei grandi racconti, questi due verbi hanno una storia da raccontare.

Nel regno di Verbopoli, dove le parole vivono come personaggi, Arrecare e Recare sono i messaggeri di un’antica verità linguistica. Attraverso questa favola i lettori potranno scoprire il loro destino e il segreto della loro differenza.

Nel cuore di un mondo fatto di suoni e significati, esisteva un regno chiamato Verbopoli, dove le parole vivevano in equilibrio, ciascuna con una funzione precisa. Nel palazzo del Re della Lingua, due messaggeri percorrevano le strade della conoscenza: Arrecare e Recare.

Un tempo erano compagni inseparabili, nati dallo stesso antico verbo latino recare, che significa "portare". Ma col passare dei secoli, i loro cammini si divisero.

Arrecare, dal passo solenne e dalla voce possente, non trasportava semplici oggetti né trasmetteva mere notizie. Lui generava effetti. Ovunque si recasse, lasciava un’eco di cambiamento: talvolta era conforto e sollievo, altre volte dolore e danno. Quando il vento di una tempesta attraversava i campi, era lui a lasciare le tracce della sua forza; quando un gesto gentile ridava speranza, era lui a far sentire il suo peso invisibile.

I saggi del regno, che studiavano le parole, lo descrivevano come il messaggero delle conseguenze. Non portava cose, ma effetti, e sempre in modo astratto. Si poteva dire che il suo viaggio aveva arrecato sofferenza o felicità, ma mai si sarebbe detto che aveva arrecato un pacco o un dono.

Recare, invece, era un viandante instancabile, sempre in cammino. Con lui, ogni cosa si muoveva: lettere, notizie, oggetti e persone. Il suo compito era chiaro: far sì che qualcosa arrivasse a destinazione. Gli abitanti di Verbopoli lo vedevano attraversare terre e confini con libri sotto il braccio, messaggi da recapitare, viaggiatori al suo fianco. Se un uomo partiva per una città lontana, si diceva che si era recato là; se qualcuno portava un regalo a un amico, era lui a recare il dono.

Un giorno, durante una grande assemblea nella locale biblioteca, un giovane studioso si alzò in piedi e, con tono sicuro, pronunciò un discorso in cui parlava di un documento che era stato "arrecato" da un lontano regno. Gli astanti tacquero e si guardarono perplessi. In fondo alla sala, un anziano grammatico si alzò e disse con un sorriso: Illustre collega, il suo intervento è stato brillante, ma ha arrecato un piccolo danno alla grammatica! Da quel giorno, il giovane non sbagliò più e il regno intero imparò a distinguere i due messaggeri.

Non molto tempo dopo, un poeta cadde in una profonda crisi creativa. Doveva comporre un sonetto sull’amore tormentato, ma non sapeva se usare arrecare o recare per descrivere il peso di un sentimento. Camminò per ore tra le sale della biblioteca del regno, chiedendo consiglio ai saggi. Alla fine decise per arrecare, perché voleva sottolineare il dolore causato dalla passione. Il suo editore, però, gli suggerì di usare recare, per dare un senso più concreto al sentimento. Il poeta rispose con fermezza: L’amore non si porta, si subisce!

E così, mentre il sole tramontava su Verbopoli, Arrecare e Recare continuarono il loro cammino. Uno lasciava tracce invisibili nel cuore degli abitanti, l’altro consegnava oggetti (e notizie) con passo deciso. Nessuno più li confondeva. E nel grande libro della Lingua il loro racconto era inciso per sempre, a ricordare ai parlanti e agli scriventi che sapere scegliere il verbo giusto significa comprendere la vera essenza del messaggio.

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Nel XVII secolo, con un editto un re (non si conosce il Paese) stabilì che i cittadini dovevano essere puniti se recavano disturbo alle autorità. Un grammatico dell’epoca fece notare che sarebbe stato più corretto scrivere arrecavano disturbo, poiché il disturbo è un effetto, non un oggetto trasportato. L’errore rimase nel testo ufficiale e fu citato nei secoli successivi come esempio di scarsa attenzione alla lingua!

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Si racconta che Gabriele D’Annunzio fosse ossessionato dalle sfumature delle parole. Un giorno, mentre correggeva un suo testo, si fermò a lungo su una frase che parlava di una sofferenza causata da un amore tormentato. Dopo un lungo dibattito interiore, decise che doveva scrivere questo amore ha arrecato dolore, perché recare gli sembrava troppo concreto per un sentimento così astratto.





 

domenica 25 maggio 2025

Pingere e spingere – Le parole perdute e il viaggio nella lingua italiana

 

La stupenda lingua italiana è un viaggio attraverso il tempo, dove le parole si evolvono, mutano e a volte scompaiono. Tra le parole che hanno attraversato questa trasformazione ci sono i verbi spingere e la sua forma arcaica pingere, due termini legati dalla loro radice ma distinti nell’uso e nella storia.

Il verbo spingere deriva dal latino "expingere", composto da ex- ("fuori") e pangĕre ("conficcare"). Questo termine quando è “nato” indicava l'azione di far uscire qualcosa attraverso una spinta, e nel tempo ha assunto il significato “moderno” di esercitare una forza su un oggetto (o una persona) per farlo muovere. È un verbo largamente adoperato sia in senso concreto sia in quello figurato: spingere il carrello della spesa; spingere qualcuno a prendere una decisione. Il participio passato spinto è comunemente usato nelle espressioni quotidiane.

Il “fratello” pingere, invece, è una forma aferetica di "spingere", ovvero una variante che ha perso la "s-" iniziale. È attestato nei testi medievali e rinascimentali, Dante e Boccaccio lo adoperano nei loro scritti. Il Divino, per esempio, scrive nel Purgatorio: Corda non pinse mai da sé saetta che sì corresse via; mentre Boccaccio, nel Decameron, narra di un personaggio che giunse all’uscio della cella, e quello, dall’altre aiutata, pinse in terra. Il participio passato pinto conserva un valore letterario e poetico.

Oggi pingere è considerato un termine obsoleto e non si usa più nella lingua parlata, ma resta una testimonianza della ricchezza della nostra tradizione linguistica. Studiare queste varianti ci permette di comprendere meglio l’evoluzione del nostro idioma e di apprezzarne la profondità storica.

 

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La testa e il capo

La testa e il capo - nell’uso corrente - sono l’uno sinonimo dell’altro; tuttavia c’è - a voler sottilizzare - una piccola differenza. Con il termine “capo” ci si riferisce piú spesso all’anatomia umana, mentre con quello di “testa” ci si può riferire tanto all’anatomia dell’uomo quanto a quella degli animali. Inoltre nelle espressioni di uso comune e in quelle adoperate in senso figurato i due termini (testa e capo) hanno, talvolta, usi completamente distinti e non sempre sono intercambiabili nella medesima proposizione. Qualche esempio. Ricevere un colpo tra capo e collo (e non “tra testa e collo”); andare a testa alta (non “a capo alto”); fare a testa e croce (non “a capo e croce”); testa di rapa (non “capo di rapa”); essere in capo al mondo (non “in testa al mondo”); venirne a capo (non “a testa”); andare a capo; capo d’aglio ecc. Testa e capo, insomma, non sono sinonimi assoluti: occorre tenerlo presente, quando si scrive. Dimenticavamo. Ci sbellichiamo dalle risa quando leggiamo frasi tipo “in testa al corteo c’erano tutti i rappresentanti sindacali”. Quanto pesano questi rappresentanti “sulla testa” del corteo? A nostro modo di vedere l’espressione corretta è “alla testa del corteo”.  








sabato 24 maggio 2025

Irrorare e irrogare: due verbi simili, due mondi diversi. Un viaggio tra l’etimologia e gli usi di due termini insidiosi

 

Nella nostra meravigliosa lingua italiana è facile inciampare in parole dal suono simile ma dal significato completamente diverso. È il caso dei verbi “irrorare” e “irrogare”, che, pur condividendo una certa musicalità, hanno origini e usi ben distinti. Vediamo, sia pure per sommi capi (così non cadiamo nella pedanteria).

Irrorare deriva dal latino irrōrāre, composto da in- (intensivo) e rōra (rugiada). Il suo significato è lampante: spargere un liquido su una superficie, distribuirlo uniformemente per uno scopo preciso. È un verbo che richiama immagini di campi coltivati bagnati dalla rugiada artificiale di un irrigatore; di un arrosto dorato impreziosito con un filo d’olio; di un profumo nebulizzato sulla pelle.

Il contadino irrora i filari di viti con un antiparassitario per proteggere il raccolto, il giardiniere irrora le foglie delle piante con acqua per mantenerle rigogliose, il pasticciere irrora la torta con un liquore per esaltarne il sapore. Anche nell’ambito della pulizia si possono irrorare le superfici con un disinfettante per igienizzarle.

Di tutt’altra natura è irrogare, verbo dal tono istituzionale e giuridico. La sua origine latina, irrogāre (da in- e rogāre, chiedere, proporre), rivela la sua funzione: infliggere una pena o una sanzione, generalmente da parte di un’autorità. È un termine tipico del linguaggio amministrativo e legale, usato quando si parla di multe, provvedimenti disciplinari o pene detentive.

Un tribunale può irrogare una condanna a un imputato, un’autorità fiscale può irrogare una sanzione per evasione, e un collegio arbitrale può irrogare una penalità per violazioni contrattuali. Si incontra spesso anche in ambito sportivo: la federazione può irrogare una sospensione a un atleta per comportamento scorretto.

Per la somiglianza sonora i due verbi possono trarre in inganno, ma nel contesto d’uso la distinzione è chiara. Per non sbagliare, si pensi all’immagine che evocano: se si parla di distribuzione di un liquido, si usa irrorare; se si infligge una misura punitiva, è irrogare.

Sapere distinguere questi verbi non è solo una questione di precisione linguistica, ma anche di consapevolezza culturale. Perché ogni parola porta con sé un mondo e, come abili navigatori della lingua, tocca a noi usarla nel contesto giusto.

Riportiamo, in proposito, un aneddoto. Si racconta che, durante un dibattito parlamentare nel nostro Paese, un politico volesse parlare di sanzioni inflitte ai trasgressori di una legge. Convinto di usare il termine giusto, dichiarò con enfasi: Dobbiamo irrorare pene esemplari per chi vìola le regole!. L'assemblea rimase interdetta per un attimo, poi scoppiò in una risata collettiva. Qualcuno scherzò dicendo che il Parlamento stava per iniziare a spruzzare multe come fosse un giardiniere con il suo annaffiatoio! L'episodio fu così divertente che il termine irrorare sanzioni si diffuse per un po’ nei discorsi goliardici sulla politica, diventando un modo ironico per indicare decisioni affrettate.




venerdì 23 maggio 2025

Incroci linguistici: viaggio nella versatilità di un verbo

 

La lingua è un affascinante intreccio di storia, cultura e percezione del mondo, capace di racchiudere in una sola parola significati molteplici e sorprendenti. Il verbo incrociare è un esempio perfetto: un vocabolo di uso comune che, tuttavia, si espande in una ricchezza di sfumature, toccando ambiti che spaziano dalla quotidianità alla geometria, dai gesti simbolici ai racconti epici. Scavare nelle sue radici e nelle sue evoluzioni linguistiche significa intraprendere un viaggio che ci porta a osservare come le parole non siano semplici strumenti di comunicazione, ma riflessi delle dinamiche umane.

Il verbo in oggetto, dunque, è uno di quei vocaboli che, pur essendo di uso comune, racchiude una sorprendente varietà di significati. Dall'incontro fortuito tra persone al gesto simbolico di incrociare le braccia, dalla geometria delle strade ai duelli di spade, questa parola si intreccia con molteplici aspetti della nostra vita quotidiana. Scoprire le sue origini e le diverse sfumature permette di apprezzarne la ricchezza e la versatilità, rivelando quanto il linguaggio sia un riflesso delle dinamiche del mondo che ci circonda.

Il verbo incrociare, pertanto, è una parola affascinante che si presta a diverse interpretazioni a seconda del contesto. Derivato dal latino crux, crucis, che significa "croce", il verbo nasce dal concetto di "porre in croce" o "disporre a forma di croce". Con l’andare del tempo il suo significato si è evoluto in molteplici direzioni, arricchendosi di sfumature figurate e usi specifici.

Uno degli usi più comuni di incrociare riguarda il movimento di persone o oggetti. Quando diciamo "ho incrociato un amico per strada", sottintendiamo che lo abbiamo incontrato casualmente lungo il nostro percorso. Questa accezione trasmette un senso di coincidenza, di incontri fortuiti che avvengono senza alcuna pianificazione.

In un ambito più spaziale e geometrico, il suddetto verbo è adoperato per indicare il punto in cui due linee, strade o percorsi si intersecano. "Le due vie si incrociano in piazza" significa che i tracciati si incontrano, formando una connessione. Questa accezione è ampiamente adoperata in urbanistica, nella descrizione di incroci stradali, e persino in matematica quando si parla di funzioni grafiche che si intersecano.

Il verbo trova applicazione anche nel linguaggio del corpo. "Incrociare le braccia" è un gesto che può esprimere chiusura, attesa o sicurezza, mentre "incrociare le dita" è un'espressione apotropaica con cui si spera che qualcosa vada per il meglio. Anche gli sguardi possono incrociarsi, dando vita a momenti di intensa comunicazione non verbale.

In ambito sportivo e strategico, incrociare può riferirsi a situazioni di confronto e scontro. "Incrociare la spada con un avversario" evoca l'immagine di un duello in cui le lame si toccano, mentre nel calcio "incrociare il tiro" significa angolare la traiettoria del pallone in modo da metterlo fuori della portata del portiere.

L'uso figurato del verbo amplia ulteriormente le sue applicazioni. "Incrociare le informazioni" significa confrontare dati per ottenere un quadro più chiaro, mentre "incrociare una richiesta" può designare un sovrapporsi di esigenze o domande.

Questo verbo, ricco di sfumature, dunque, riflette la complessità delle interazioni e dei movimenti nel mondo che ci circonda. La sua versatilità linguistica lo rende una parola potente, capace di descrivere incontri casuali, movimenti precisi, gesti comunicativi e persino strategie complesse. Non è solo un verbo, ma una finestra su dinamiche che, a ben guardare, sono ovunque nella nostra vita quotidiana.


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Menare per il naso

Chi non conosce questo modo di dire che si adopera quando si vuol prendere in giro una persona facendole credere cose non vere o improponibili oppure raggirandola e facendosi beffe di lei? L’espressione sembra derivi dai domatori girovaghi i quali erano soliti mettere al naso degli orsi un anello al quale era legata un corda che, tirata dal domatore, costringeva le povere bestie a danzare.




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La lingua “biforcuta” della stampa

Ragazza di 24 anni investita e uccisa da un treno: tragedia nel comasco sotto gli occhi dei pendolari

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Correttamente: Comasco (‘C’ maiuscola perché si tratta di un’area geografica).

giovedì 22 maggio 2025

Sollevare qualcosa è facile. Sollevare un dubbio un'altra storia

 

Le lingue evolvono e si arricchiscono di sfumature nel tempo – e la nostra non fa eccezione – permettendo a parole apparentemente sinonime di acquisire accezioni distinte. "Elevare" e "sollevare" condividono il concetto di "alzare", ma il loro impiego preciso può determinare la qualità e la chiarezza dell’espressione. Il confine tra i due verbi è sottile ma fondamentale, e un uso scorretto di "sollevare" può creare ambiguità.

Entrambi i verbi hanno radici classiche. "Elevare" deriva direttamente dal latino elevare, composto da ex- ("fuori, in alto") e levare ("alzare, sollevare"). In origine non indicava la semplice azione fisica di innalzare, ma si estendeva a concetti astratti, come la crescita intellettuale, morale o sociale. "Sollevare", invece, proviene da sublevare, formato da sub- ("sotto") e levare ("spostare verso l’alto"). Il suo significato primitivo esprimeva l'idea di "alzare dal basso verso l’alto", con un'accezione prevalentemente concreta.

La differenza principale tra i due verbi sta nel loro ambito di applicazione. "Sollevare" indica un movimento fisico diretto: si solleva qualcosa che era in basso, compiendo uno sforzo per portarlo più in alto. Espressioni come ha sollevato il bambino in braccio o sollevare pesi in palestra esprimono perfettamente il significato del verbo. "Elevare", al contrario, si adopera per indicare una crescita qualitativa, un miglioramento o un innalzamento su un piano prettamente astratto. Elevare il livello del dibattito e la musica eleva lo spirito sono esempi di questo uso più raffinato.

Un errore comune (e sempre più dilagante, "grazie" alla stampa) è adoperare "sollevare" in contesti figurati dove è più appropriato usare verbi come "suscitare", "far emergere" o "generare". Dire, per esempio, la sua dichiarazione ha sollevato dubbi sulla veridicità dei dati è scorretto perché i dubbi non vengono "alzati" da una posizione inferiore. La formulazione corretta è la sua dichiarazione ha suscitato dubbi sulla veridicità dei dati.

La confusione nasce dall’errata estensione di "sollevare" a un contesto astratto, ma ciò porta spesso - secondo chi scrive - a un uso errato del verbo. Evitare queste "imprecisioni" permette di mantenere la chiarezza del discorso e di preservare le sfumature della melodiosa lingua italiana. La distinzione tra "elevare" e "sollevare" non è soltanto una questione di forma, ma incide sulla precisione espressiva e sulla comprensibilità del messaggio.

Sapere scegliere le parole giuste è un segno di padronanza linguistica e di stile. Dopotutto, sollevare un oggetto è alla portata di chiunque. Ma sollevare un dubbio senza cadere nell’errore? Serve occhio o, meglio, serve orecchio.

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La lingua “biforcuta” della stampa

Francesca Fagnani a Fiorello dopo Morrone a Belve: “Mi ha dato della vecchia. Un’agé famosa mi ha detto che è bono”

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Gli operatori dell’informazione prediligono i termini barbari a quelli italiani, ma li sbagliano (quasi) sempre.

 Correttamente: un’âgée famosa.









mercoledì 21 maggio 2025

Il vento e il re: la vera resilienza

 

In un Paese lontano, ai confini del mondo, tra le colline smeraldine e le foreste incantate, sorgeva il potente Regno di Querciaforte, governato da un sovrano fiero e inflessibile, il re Roverius. Le mura della reggia erano alte, le leggi incise sulla pietra, e la sua armata marciava con passo rigido, senza mai deviare dalla rotta.

In un villaggio del regno, lungo i placidi argini del Fiume dei Sussurri, vivevano i popoli delle Terre Flessuose, guidati dalla saggia dama Cannella. Qui, le case erano fatte di giunchi intrecciati, le insegne dei mercanti danzavano con il vento, e le parole si adattavano ai suoni della brezza.

Re Roverius, scrutando quel mondo mutevole, scoteva il capo con disprezzo. "Noi siamo forti perché non cambiamo mai! Voi, invece, vi piegate alla minima difficoltà!"

L’illuminata dama Cannella sorrise, conoscendo bene il segreto del tempo.

Un giorno d’inverno, un vento furioso scese dalle Montagne Selvagge, portando con sé la tempesta più ‘furiosa’ che il regno avesse mai visto. Le imponenti torri del palazzo reale vacillavano, le strade sprofondavano creando immense voragini, e persino le leggi incise sulla pietra vennero cancellate dalla furia degli elementi.

Re Roverius, serrando i pugni, ordinò ai suoi uomini di resistere, di non indietreggiare. Ma più combattevano contro il vento, più il regno cadeva in rovina.

Nelle Terre Flessuose, nessuno oppose resistenza. La gente si piegava lasciandosi sfiorare dal vento, i tetti ondeggiavano senza cedere e, quando l'uragano passò, tutto rimase intatto.

Fu allora che la verità divenne chiara.

La resilienza non è rigidità, non è opporsi a tutto, non è rifiutare il cambiamento. Il termine veniva dai saggi dell'antico Impero, dal latino resilire, “saltare indietro”, “rimbalzare”. In origine il vocabolo era proprio dei fabbri e dei costruttori, che lo usavano per indicare i metalli capaci di assorbire gli urti senza spezzarsi. Poi i filosofi lo fecero loro, parlando di quella stessa capacità negli uomini: superare le difficoltà adattandosi, non opponendosi ciecamente.

Ma nel mondo degli uomini, la parola aveva perso il suo significato. I cronisti scrivevano di "re resiliente, che non cambia mai idea", di "mercanti resilienti, che difendono la loro strategia a ogni costo". Ritenevano, insomma, che resilienza fosse sinonimo di inflessibilità, rigidità e simili.

Quel giorno, re Roverius capì il suo errore. Osservando le rovine di Querciaforte comprese che la vera forza non era resistere fino alla distruzione, ma adattarsi, trovare nuove vie, flettersi senza spezzarsi.

La saggia dama Cannella gli offrì la mano. "Ora lo sai, caro re Roverius. Il vento non è un nemico, ma un maestro."

E così, nel Regno di Querciaforte, ebbe inizio una nuova era.


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I porchi comodi...

Qualcuno - se non tutti - strabuzzerà gli occhi: “porchi”!? Come è possibile un simile strafalcione? No, amici, non è uno strafalcione. Tutti i “sacri testi” che abbiamo consultato tacciono sull’argomento, ma “porchi” è forma correttissima. Quando il sostantivo ‘porco’ è usato in funzione aggettivale con il significato di “spregevole”, “indecente”, “orribile” e simili, nella forma maschile plurale “può” prendere la desinenza “-chi” in luogo di quella comunemente in uso “-ci”. A voler sottilizzare, anzi, porchi ‘sarebbe’ la sola forma corretta perché i sostantivi in “-co” piani (con l’accento tonico sulla penultima sillaba) nel plurale conservano il suono gutturale; quelli sdruccioli, invece, lo perdono. Naturalmente non mancano le eccezioni e porco è una di queste; in funzione di sostantivo, infatti, il plurale “corretto” è porci.


martedì 20 maggio 2025

Il "trucco" invisibile che rende l’italiano più fluido

 

L’italico idioma è un vero gioiello di sfumature e raffinatezze, capace di modulare il significato di una frase con strutture sintattiche che spesso passano inosservate. Tra queste, la dislocazione a sinistra rappresenta un fenomeno particolarmente interessante: una costruzione che arricchisce la fluidità e l’enfasi del discorso, soprattutto nel parlato spontaneo. È una di quelle particolarità che, pur non essendo sempre evidenti, contribuiscono a rendere l’italiano una lingua musicale, espressiva e naturale. Vediamo, dunque.

La dislocazione a sinistra consiste nel mettere un complemento all’inizio della frase, anticipandolo e riprendendolo con un pronome clitico. Dire, per esempio, quel film, l’ho visto ieri invece di ho visto quel film ieri significa dare maggiore risalto all’argomento della conversazione. Similmente, dire ai bambini, gli ho comprato un giocattolo rende più immediato e chiaro il destinatario dell’azione rispetto a ho comprato un giocattolo ai bambini. Questa costruzione è molto comune nel parlato informale e ha diverse funzioni: enfatizza un elemento, migliora la chiarezza del messaggio e contribuisce alla spontaneità del discorso. Se voglio sottolineare che ho già letto un libro, dire quel libro, l’ho già letto risulta più incisivo rispetto a l’ho già letto quel libro.

Nella lingua parlata questa forma è ampiamente usata senza che ce ne rendiamo conto, mentre in quella scritta è meno frequente, a meno che non si voglia conferire al testo un tono colloquiale. Alcuni autori ne fanno uso per dare maggiore espressività ai loro scritti, e un caso particolare è la dislocazione doppia, che ripete il complemento sia all’inizio sia alla fine della frase, come in quel problema, l’ho risolto, quel problema, rafforzando ulteriormente l’idea.

La dislocazione a sinistra, per concludere queste noterelle, è una finezza che rende il nostro idioma più dinamico e spontaneo, un piccolo dettaglio che contribuisce a dargli quel carattere vivo e vibrante che lo rende unico. Molto spesso la utilizziamo senza accorgercene, ma è proprio grazie a queste particolarità che il nostro modo di parlare risulta fluido e naturale. Ed è qui che si rivela la vera “magia” della lingua italiana: una continua danza tra struttura e spontaneità, tra enfasi e musicalità, che non è mai solo un mezzo di comunicazione, ma una vera e propria espressione del pensiero. Questa costruzione, apparentemente semplice, è il riflesso di una lingua che sa adattarsi, evolversi e trasmettere con naturalezza sfumature e emozioni.  



lunedì 19 maggio 2025

Elisione e apocope: il duello delle parole mozzate


C
’era una volta, nel cuore della Lingua Italiana, un regno incantato chiamato Grammatica, dove vivevano le parole. Alcune erano solenni e maestose, altre agili e leggere, ma tutte avevano un ruolo fondamentale nel grande equilibrio del lessico.

Nel castello delle Parole Mozzate abitavano due cugine molto particolari, Elisione e Apocope. Erano simili nell’aspetto, ma il loro carattere le rendeva molto diverse, e questa diversità le portava ad accapigliarsi su chi avesse la funzione più importante.

Elisione era elegante e raffinata. Quando una parola terminava in vocale e la successiva cominciava con un’altra vocale, lei interveniva con discrezione, eliminando il suono superfluo ma lasciando sempre un piccolo segno (apostrofo) come testimonianza della sua presenza. Quando si trovava davanti a “lo amico”, per esempio, non ci pensava due volte e diceva: "Sarò gentile e discreta. Da oggi si dirà l’amico!"

Apocope, al contrario, era impulsiva e decisa. Lei non amava lasciare traccia delle sue azioni: se una parola poteva essere abbreviata per rendere il discorso più scorrevole la accorciava senza remore. Quando “bene” cercava di essere più rapido e incisivo, esclamava: "Non c’è bisogno di tante cerimonie! Da oggi si dirà ben fatto!"

Un giorno scoppiò una lite tremenda, fra le tante, tra le due cugine. Elisione sosteneva che il suo metodo garantiva chiarezza e armonia, mentre Apocope ribatteva che il suo intervento rendeva il linguaggio più fluido e immediato. La loro accesa discussione giunse fino al castello della regina Ortografia, la dotta sovrana che vegliava sull’equilibrio delle parole.

Stanca dei loro continui litigi, la regina convocò le due e stabilì alcune regole fondamentali. L’elisione si usa quando una vocale alla fine di una parola ne incontra un’altra all’inizio della parola successiva. Alcuni esempi sono l’arte, dove la arte si elide con l’apostrofo, e d’accordo, dove di accordo si elide con l’apostrofo.

L’apocope avviene, invece, quando si elimina una vocale o una sillaba alla fine di una parola, senza lasciare alcun segno. Alcuni esempi sono gran bellezza, dove grande bellezza si accorcia senza apostrofo, e faccian vedere, dove facciano si abbrevia per fluidità. Insomma: l’elisione elimina una vocale ma lascia un segno visibile (l’apostrofo), mentre l’apocope accorcia la parola senza lasciare alcuna traccia. Con l’occasione rivelò un “segreto” per riconoscere l’elisione: si sostituisce la parola il cui apostrofo è in odore di dubbio con un’altra che comincia con una consonante, se “suona” bene non necessita di apostrofo. Nessun’uomo o nessun uomo?, per esempio. Sostituiamo uomo con libro. Nessun libro “suona” bene, non stride; nessun uomo, quindi, senza apostrofo.

Ma la regina Ortografia non si fermò qui e rivelò alle due cugine la loro vera origine. Elisione derivava dal latino ‘elidere’, che significa “strappare via” o “far cadere”. Apocope proveniva dal greco ‘apokopḗ’, che significa “taglio netto, separazione”.

Elisione e Apocope si guardarono a lungo comprendendo, finalmente, che, pur avendo caratteri diversi, entrambe erano indispensabili per la bellezza e la scorrevolezza della lingua italiana. Da quel giorno smisero di litigare e impararono a rispettarsi, accettando il fatto che ogni parola avesse bisogno ora dell’una, ora dell’altra.

Nel regno di Grammatica la pace fu ristabilita e la meravigliosa lingua italiana continuò a suonare in perfetta armonia. Così, ancora oggi, il loro lavoro continua silenzioso nelle frasi di ogni scrivente (o parlante), rendendo il nostro idioma più armonioso e scorrevole.








 




domenica 18 maggio 2025

Il compito: oltre il dovere, un percorso di crescita


F
orse non tutti i cortesi lettori, che seguono con assiduità le nostre noterelle, sanno che il termine "compito" ha molteplici significati, radicati nella sua origine latina e sviluppatisi nel corso del tempo. Può indicare un dovere, una competenza o un'attività scolastica. Questa parola, apparentemente semplice, racchiude un'idea di responsabilità, crescita e apprendimento.

Il sintagma in oggetto, dunque, affonda le sue radici nel latino computare (che rimanda all’idea legata al concetto di "portare a compimento" o "calcolare la durata di un lavoro"). Nella lingua dei nostri antenati, il latino, la nozione di assegnare un incarico (da "portare a compimento") o una responsabilità era centrale, e questa idea si è mantenuta nell’idioma di Dante. L'uso moderno conserva il senso di un'azione indirizzata a un obiettivo, un’attività che richiede impegno e disciplina.

Nell’accezione più comune il "compito" designa un obbligo da adempiere. Un medico ha il compito di curare i pazienti, diagnosticare le malattie e prescrivere le cure adeguate, mentre un giudice deve applicare la legge per garantire giustizia. Nella vita di tutti i giorni un genitore ha il compito di educare i propri figli, fornendo loro sostegno e valori. Questi esempi mostrano come il termine sia strettamente legato alla responsabilità e al dovere verso sé stessi e gli altri.

Il concetto di compito si lega anche alla competenza necessaria per svolgere un'azione con efficacia. Un musicista ha il compito di interpretare una melodia con sensibilità e tecnica, mentre un ingegnere deve progettare strutture sicure ed efficienti. Un traduttore deve conoscere perfettamente due lingue per svolgere il suo compito di trasposizione fedele del significato. Allo stesso modo, un docente ha il compito di trasmettere le sue conoscenze ai discenti, ma per farlo è necessario che possegga competenze pedagogiche e comunicative adeguate.

Per gli studenti (e i docenti) la parola "compiti" evoca esercizi da svolgere a casa o in classe. Un bambino potrebbe ricevere il compito di scrivere più volte una parola per memorizzarla correttamente, mentre un alunno delle superiori deve risolvere equazioni per migliorare il suo ragionamento logico. Un tema di italiano aiuta a sviluppare capacità espressive e critiche, mentre un esercizio di fisica consente di applicare le leggi del movimento a problemi concreti. I compiti scolastici sono strumenti fondamentali per consolidare la teoria con la pratica e favorire l’apprendimento.

Tutte queste accezioni convergono su un elemento comune: il compito è sempre un’azione mirata a un obiettivo, che richiede impegno e spesso conduce a crescita personale e professionale. Che si tratti di un dovere, di una competenza da affinare o di un esercizio scolastico, il concetto di "compito" racconta il percorso di apprendimento e responsabilità che caratterizza la vita di ciascuno.

Per concludere queste noterelle. Il compito non è solo un dovere da adempiere, ma una sfida quotidiana che plasma la nostra identità e determina il nostro progresso. È il mezzo attraverso il quale trasformiamo l’impegno in evoluzione, il sapere in azione, l’esperienza in saggezza. Ogni compito, piccolo o grande che sia, è un tassello che contribuisce alla costruzione della nostra crescita, un ponte che collega ciò che siamo con ciò che possiamo diventare.  













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    Quindicinale e quindicennale

Si presti attenzione ai due termini perché spesso vengono confusi; hanno significati distinti.

  • Quindicinale designa qualcosa che avviene o si ripete ogni quindici giorni. È un aggettivo comunemente usato per riviste, pubblicazioni, pagamenti o eventi con cadenza bisettimanale. Per esempio, una rivista quindicinale esce ogni due settimane.

  • Quindicennale si riferisce, invece, a un periodo di quindici anni o a qualcosa che si verifica ogni quindici anni. Si adopera per anniversari, ricorrenze, contratti o strategie a lungo termine. Un esempio potrebbe essere un piano quindicennale di sviluppo aziendale.